“Piccadilly Line” è il nuovo singolo di Andrea Dodicianni e anticipa l’album da poco ultimato a Los Angeles sotto la guida di Howie Weinberg (Nirvana, Muse, Metallica, Jeff Buckley ecc.). Diplomato in Pianoforte al conservatorio e laureando in Storia della musica, Andrea ha all’attivo più di 400 concerti. In questa intervista il cantautore ci ha spiegato che, dopo aver vissuto studiando qualcosa, ora vuole semplicemente dedicarsi alla musica e percorrere tanti, tanti chilometri…
”Piccadilly Line” è il titolo del brano che anticipa il tuo album. Di cosa parla questa canzone? Come e con chi ci hai lavorato e cosa intendevi esprimere?
Questo pezzo è nato a Londra proprio nella Piccadilly Line alle 18 di una sera di qualche mese fa ed è stato l’osservare l’incedere frenetico e noncurante delle persone a farmi chiedere come sarebbe stata una storia d’amore nata lì, come sarebbe potuta andare insomma. Ci ho poi lavorato col produttore di questo lavoro Edoardo “Dodi” Pellizzari mentre il tocco magico finale l’ha dato Howie Weinberg con un master che mi ha davvero spiazzato.
Quali saranno i temi, le strutture musicali e gli obiettivi espressivi contenuti nel tuo lavoro discografico?
Principalmente sono un cantastorie perciò le canzoni sono appunto piccole storielle che non richiedono strutture musicali incredibili, anzi, cerco sempre di usare il minor numero di accordi possibili con melodie molto semplici, la musica non è una gara. Ci sarà, invece, un grande lavoro concettuale nell’artwork e nelle scenografie che già portiamo in palco con noi nei live.
Sei laureando in storia della musica. Su cosa incentrerai la tua tesi di laurea e quali sono le scoperte che, più di altre, hanno segnato il tuo percorso di studi?
Verterà su una comparazione tra l’originale e una rilettura in chiave moderna di un manoscritto inedito di una stampa Petrucci, cose noiose insomma, sinceramente il mio percorso universitario non mi è stato di grande aiuto per la mia crescita musicale, fortunatamente è corredato di altri corsi di storia dell’arte e storia pura che hanno stimolato molto il mio interesse. Vado fiero invece della mia laurea al conservatorio di Adria in pianoforte. Paragono questo percorso ad un parto, il dolore credo sia simile tra l’altro…
Che rapporto hai con il pianoforte? In quali momenti e in quali contesti ti senti più a tuo agio con i tasti dello strumento?
Ho un rapporto di amore/odio. Dopo dodici anni di studio si crea un rapporto simbiotico ma anche di sincera repulsione. Purtroppo nel percorso creativo non riesco a far uso del pianoforte, preferisco la chitarra che suono amatorialmente, mi da più stimoli. Considero il mio rapporto col pianoforte come quei matrimoni della durata di quarantanni: sì ok, c’è e ci sarà sempre stima e rispetto, ma in quanto a stimoli… scarseggiano.
Tu che hai all’attivo centinaia di concerti, come vivi la dimensione live?
La parte live è quella che preferisco di questo lavoro. Che brutta la parola lavoro, la sostituisco subito, viaggio. Ho la fortuna di condividere il palco con persone che sono diventati fratelli: in primis Jack Barchetta, bassista ma anche capobanda, quello che detta impegni ed orari insomma; poi il bimbo della band Daniele Volcan, batterista, e Francesco Camin, cantautore trentino col quale divido palco e tour da un anno, davvero un grande amico e artista. Il suo unico difetto? Finiti i live fa “il trentino”, per l’appunto, e vuole subito andare a dormire in furgone, mentre io e Jack…
Hai composto il tuo Ep “Canzoni al buio” tra le tende dei terremotati in Emilia… cosa hai provato in quella situazione e perchè hai scelto di comporre lì?
In verità non l’ho scelto, mi sono trovato calato in una situazione emotivamente molto intensa, ero volontario tra i campi tenda come musicista, avevo una Opel Zafira, un cuscino e una chitarra e la notte da dedicare a me, è successo insomma.
Come in una sorta di diario, parlaci di te, dei tuoi hobby, dei tuoi ascolti e di quello che più di ogni altra cosa vorresti realizzare nonostante tutto e nonostante tutti…
Sono nato in un paesino della provincia di Venezia di nome Cavarzere e ho moltissime manie! Ve ne svelo qualcuna: mangio solo pesce e pizza, amo l’arancione, l’arte concettuale, il baseball e la California, mi fa schifo lavare i piatti, in compenso lavo una ventina di volte al giorno le mani, ho paura degli aghi e ho una decina di paia di scarpe tutte uguali.
Non sogno nel mio futuro di riempire gli stadi, non è nelle mie priorità, sogno invece di continuare a fare per vent’anni la vita che sto facendo ora, ho passato tutti i miei primi vent’anni a studiare qualcosa, prima il diploma da geometra, poi pianoforte, poi contrabbasso, poi l’università, ora basta, c’è spazio solo per me, la mia band e migliaia di km davanti!
Ah, abbiamo un paio di sedili in più in furgone se qualcuno volesse aggregarsi.
E dimenticavo… in furgone si ascoltano solo Tom Petty e Kid Rock!
Abituato ad ammaliare il pubblico sui palchi di tutta Italia, Fabrizio Bosso è uno dei trombettisti italiani più amati dal panorama musicale internazionale. In occasione della pubblicazione del suo ultimo album “Duke” , omaggio al grande Ellington, l’abbiamo intervistato per conoscere più a fondo una personalità artistica così vivace e così ricca di spunti.
Il tuo ultimo album “Duke”, pubblicato lo scorso 26 maggio, nasce da un preciso input: la rinascita dello swing…
L’idea è partita dal Festival Jazz di Roma di un anno fa. Mi fu proposto di mettere su un progetto ad hoc pensando al tema dello swing e da lì è partita l’idea di fare un tributo a Duke Ellington, uno dei più importanti compositori del ‘900. Già da piccolo ascoltavo i suoi dischi ed è quindi uno degli autori che ho assimilato meglio. Suono spesso suoi brani e durante i miei concerti “In a sentimental Mood” è nei bis.
Come hai lavorato con Paolo Silvestri per gli arrangiamenti?
L’idea di allargare l’organico viene dal presupposto che non avevo mai fatto qualcosa con i fiati. Ne parlavo da un po’ con Paolo Silvestri, ho scelto la musica che avevo voglia di suonare, i brani che sentivo più vicini a me, li ho proposti a Paolo e lui ha iniziato a lavorarci senza che dovessi dirgli praticamente nulla. Sono molto felice del risultato perché Paolo è riuscito a mettere a proprio agio tutti i musicisti e a valorizzare il loro contributo.
Perchè “In a sentimental Mood” suscita in te particolare emozione? E’ vero che se avessi avuto occasione di suonare insieme al “Duca” ti sarebbe piaciuto suonare proprio questo brano?
Si tratta di una melodia così forte che, ogni volta che la suono, a prescindere dalla location in cui trovo, mi emoziono. Sento che questo brano arriva in maniera diretta alle persone e penso che questa sia la forza dei grandi. Riuscire a comunicare così tanto con della musica strumentale è una cosa incredibile. Tra l’altro quando ho proposto a Paolo Silvestri di riarrangiare questo brano, lui era un po’ terrorizzato all’idea di dover andare a toccare della musica praticamente perfetta, invece io penso che sia riuscito a darci modo di esprimerci al meglio.
Per suonare la tromba ad un certo livello c’è bisogno di orecchio, studio, emissione, muscolatura, respirazione e… cos’altro?
Tanta pazienza! La tromba è uno strumento lento! Prima di riuscire a fare qualcosa di accettabile o di piacevole all’ascolto ci vuole un bel po’. Chiaramente anche la predisposizione ed il talento incidono molto però non si tratta di uno strumento immediato. Un’altra cosa fondamentale è la continuità: se stai una settimana senza suonare, quando riprendi lo strumento in mano non suonerai certamente come prima; i muscoli facciali si indeboliscono, il diaframma lavora meno bene per cui dopo due o tre giorni qualcosa la si deve fare…
Fabrizio Bosso
La tua ricerca del suono è ancora un alternarsi di amore e odio?
Penso che sarà così per sempre! E’difficile che si possa essere appagati dal proprio suono, è importante cercarlo sempre, ascoltare altri suoni, lasciarsi ispirare da altre cose. Ci sono giorni in cui magari ci si sente più vicini al suono ideale, altri in cui ci si allontana molto.
La tua matrice è jazz ma porti il tuo linguaggio in tanti generi e contesti. Come hai acquisito questo tipo di versatilità e come cambia di volta in volta il tuo approccio allo strumento?
È stato tutto abbastanza naturale perchè, pur essendo cresciuto con il jazz, ascoltavo anche Mina, Ornella Vanoni, Fabio Concato e tutti i grandi cantautori. Forse l’unico genere musicale che mi sono un po’ perso è il rock, magari perchè non mi ha mai veramente appassionato e non l’ho mai approfondito. Alla prima occasione di collaborazione con un cantautore, il primo è stato Sergio Cammariere, è stato subito tutto molto naturale. Mi veniva da ridere quando mi veniva chiesto se i jazzisti puristi potessero giudicarmi per questo tipo di collaborazioni. Io sono un musicista e penso sia importante valutare la qualità delle cose, preferisco fare un bel concerto pop piuttosto che fare un brutto concerto jazz.
Qual è la formula della miscela musicale che hai creato con Julian Oliver Mazzariello?
Io e Julian abbiamo un background comune; anche lui è un jazzista appassionato di vari generi musicali, ha studiato bene la tecnica del pianoforte quindi cerca di sfruttare il più possibile tutto il range del suo strumento e questa cosa si sente quando suoniamo insieme. Riusciamo entrambi ad utilizzare tutte le dinamiche dei nostri strumenti, proponiamo musica da film, brani italiani, standard jazz, brani inediti. Quando abbiamo messo su il duo non ci siamo preoccupati di quale direzione intraprendere, abbiamo deciso soltanto di suonare la musica che ci facesse stare bene e che ci divertisse.
E’ vero che ti sei fatto costruire una nuova tromba?
Il cambio degli strumenti testimonia un po’ l’irrequietezza che contraddistingue noi musicisti. A volte cerchiamo un certo tipo di suono, altre volte siamo solo stanchi e con poche idee. La scusa dello strumento, a volte può sembrare un po’ stupida però magari racchiude un reale stimolo. Un suono leggermente diverso o anche una forma diversa possono aiutarci a superare piccoli momenti di crisi. In questo periodo sto usando uno strumento artigianale che fanno vicino a Milano, il suono che esso produce mi appaga e mi fa avvicinare un po’ a quello che ho in testa però la ricerca dello strumento perfetto non avrà mai fine…
Lo sanno ormai tutti: hai iniziato a suonare con tuo padre, è stato il tuo primo modello e ancora oggi suonate insieme…
Sì, ogni tanto vado a suonare in qualità di ospite nella Big Band in cui sono cresciuto e dove ho iniziato a suonare quando avevo nove-dieci anni. Ogni volta è davvero emozionante suonare con un gruppo in cui si vede una fortissima passione per la musica e lo faccio sempre molto volentieri.
Ti piacerebbe che anche tuo figlio suonasse un giorno?
L’importante è che lui ami la musica e l’arte in generale; se vorrà fare qualcosa seriamente, io lo appoggerò però di sicuro non lo forzerò mai! Dovrà essere lui ad avere veramente questo desiderio.
Fabrizio Bosso
Se a qualcuno venisse l’idea di lanciare un talent show per musicisti, che cosa ne penseresti?
Sarebbe carino, perché no! A me la cosa che non piace sono le liti, trovo che ci sia una dispersione inutile di energia. Sarebbe bello fare vedere ai giovani quanto impegno serve per arrivare a raggiungere un traguardo e imparare a suonare per bene. Se abituiamo il pubblico a dei contenuti seri e importanti, penso non ci sia neanche bisogno di tutto il resto per fare audience.
Sei direttore artistico del Festival Note d’Autore.Con quale spirito hai vissuto l’edizione di quest’anno?
L’obiettivo è sempre quello di portare un po’ di buona musica a Piossasco coinvolgendo anche gente che viene da altrove. L’idea è quella di dare la possibilità a giovani musicisti di stare sul palco con artisti più importanti e farsi conoscere da un pubblico più vasto. La finalità generale è quella di far respirare musica tutto il giorno per tre giorni.
Nell’ambito del Progetto Etiopia Onlus Lanciano, hai partecipato all’inaugurazione di una scuola in una località a pochi chilometri di distanza da Addis Abeba…che ricordi hai delle tue esperienze africane?
Ho molta voglia di tornare in quei luoghi, lo farò presto! Questo è un tipo di emozione che va al di là della musica, quando arrivi in questi posti e vedi com’è la situazione, la dignità e la voglia di vivere di queste persone ti fa riflettere sui valori della vita. Presto andremo anche ad inaugurare un acquedotto, anche questo frutto del lavoro della Onlus di Lanciano e già penso all’emozione che troverò negli occhi dei bambini e dei capo villaggi che, non hanno niente, ma che sembra abbiano tutto.
Sei molto seguito anche in Giappone…come cambia il tuo approccio sul palco e con il pubblico?
Quando suono penso prima di tutto a creare la giusta sinergia sul palco con i miei musicisti per arrivare al cuore degli spettatori. I Giapponesi sono un pochino più riservati ma se riesci a coinvolgerli possono diventare anche caciaroni. La cosa bella di lavorare lì è che funziona tutto alla perfezione, puoi pensare davvero a fare solo il musicista senza magari doverti mettere a fare il fonico come accade ogni tanto dalle nostre parti. Lì arrivi e suoni. Un’altra cosa che mi sorprende che è che sei giapponesi sono tuoi fan, ti mettono allo stesso livello di qualsiasi altra star.
Che cosa suoneresti se avessi la possibilità di incontrare Stevie Wonder?
Certamente “Overjoy”…
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Quando viaggio ascolto spesso musica brasiliana, mi piace molto Nana Caymmi e, in particolare, “Sangre de mi alma”. Il suo timbro mi fa stare bene, il suo modo di cantare, malinconico e speranzoso al contempo, mi avvolge.
Cosa ci racconti del progetto “Shadows. Le memorie perdute di Chet Beker” con Massimo Popolizio?
Si tratta di una sintesi di”Come se avessi le ali” , un libro di memorie di Chet, che va dal periodo del militare fino a poco prima che morisse. Popolizio è un grande attore e si immedesima veramente bene in questo ruolo. Abbiamo già fatto 4-5 repliche di questo spettacolo ed è andato molto bene.
C’è un progetto che prima o poi vorresti realizzare?
Ogni tanto mi torna in mente l’idea di fare un disco con dei rapper. Non ho ancora le idee molto chiare a riguardo, devo ancora capire bene se portare loro nel mio mondo o se immergermi io nel loro… Non è semplice trovare un equilibrio per creare un buon prodotto però ci proverò; jazz e rap non sono neanche tanto lontani, c’è un modo di diverso di improvvisare ma sarebbe carino fare incontrare questi due mondi musicali…
“Il mondo è come una canzone quando l’ascolti sembra che parli di te e tutto si racconta con l’amore, quello che vedi e quello che non c’è”, scrive Nesli in “Il mondo è come“. Lui, cantore dell’amore, racconta l’alba dei sentimenti nell’epoca del tramonto. Il suo concerto gratuito al Postepay Milano Summer Festival, nell’arena esterna al Forum di Assago, nell’ambito dell’ “Andrà tutto bene tour 2015″, ha rappresentato la tangibile dimostrazione del fatto che. sebbene i contenuti essenziali oggi tirino poco, tirano ancora abbastanza. Lui che ha chiuso con il rap, è un artista che si muove con audacia e competenza in una direzione ostinata e contraria alle scelte facili e di comodo.
Nesli live ph Luigi Maffettone
Seguendo la sua innata inclinazione al romanticismo più autentico, Francesco Tarducci è diventato un cantautore pop, “pieno di amore” dalle sonorità rock, underground ed atmosfere british. Animato dall’autentica voglia di divertire e divertirsi, Nesli ed i suoi cinque musicisti hanno ripercorso tutte le tappe che hanno scandito la discografia dell’artista di Senigallia.
Nesli live ph Luigi Maffettone
Un bacio a te, Respiro e La fine, in una versione piano e voce, la cover di Luca Carboni Mare mare, Ti sposerò, Davanti agli occhi, Ancora una volta, Arrivederci e grazie, l’intima Il cielo è blu e ovviamente la sanremeseBuona Fortuna Amore sono le canzoni che hanno accarezzato l’anima del pubblico durante un’ora e mezza di live, conclusosi con l’immancabile bis comprensivo di Andrà tutto bene, Un bacio a te e la title tour Andrà tutto bene. Sul finale un augurio semplice ma autentico: “State bene, mi raccomando”. L’essenzialità è la più grande potenza e la più grande arma delle anime semplici, Nesli lo sa e conquista il pubblico nel suo mettersi a nudo senza riserva alcuna.
The Kolors live @ Estathè Market Sound ph Francesco Prandoni
Piacciono, convincono, divertono, stupiscono. I The Kolors demoliscono clichè e pregiudizi. Neovincitori dell’ultima edizione di Amici di Maria di Filippi, Stash Fiordispino e compagni rappresentano la tangibile testimonianza che il talent show può ancora dirci qualcosa di fresco e originale in fatto di musica. Dritti, proprio come la cassa in quattro montata sul palco dell’Estathè Market Sound a Milano, i tre giovani musicisti hanno dato vita ad un concerto comprensivo non solo dei brani contenuti nel vendutissimo album d’esordio “Out” ma anche, e giustamente, dei brani con cui il pubblico ha imparato a conoscerli e ad apprezzarli durante gli ultimi mesi. Forti dell’esperienza maturata durante gli anni passati ad esibirsi in giro per locali, su tutti il compianto “Le Scimmie”, i The Kolors si contraddistinguono per una particolare cura del suono: dalla chitarra al piano al moog, i trespaziano dal pop al funk alla dance anni ’80 dimostrando talento, precisione e attenzione al dettaglio.
The Kolors live @ Estathè Market Sound ph Francesco Prandoni
Venti i brani proposti in scaletta tra cui “Everytime”, colonna sonora portante di questa estate. Tra le cover più rischiose c’è stata “Radio Ga Ga”, particolarmente apprezzata dal pubblico, insieme al forte impatto emotivo di “Me Minus You”, impreziosita soltanto dalle note di un pianoforte. Poche interazioni e nessun orpello particolare, i The Kolors si concentrano sulla musica con l’umiltà di chi si approccia per la prima volta su un grande palco ed il risultato ci appare non solo allettante ma anche aperto ad un margine di migliorabilità che verrà presumibilmente colmato molto presto. Subito dopo il concerto Stash e compagni hanno accolto la stampa per un incontro a quattr’occhi e la sensazione generale è stata quella di prendere parte ad una chiacchierata informale.
The Kolors live @ Estathè Market Sound ph Francesco Prandoni
Ad introdurre l’incontro è Ferdinando Salzano di Friends and partners, la celebre agenzia che cura il tour del gruppo: “Questo tour è stato organizzato in pochissime settimane e abbiamo dovuto rifiutare circa 50 date in Italia, per concentrarci solo su alcune località”. Subito dopo è lo stesso Stash a rompere il ghiaccio: “A volte ci si rende conto a distanza di quello che succede. Stasera, invece, mi sono subito reso conto che stavo vivendo qualcosa di importante, di inebriante. Il nostro stile di vita non è cambiato molto: prima ci svegliavamo alle 11, preparavamo gli strumenti e andavamo a suonare nei localini e si tornava alle 3 o 4 del mattino; lo stesso avviene anche adesso anche se le cose sono ovviamente organizzate diversamente”.
Immediatamente dopo arrivano le domande dei giornalisti:
Questi grandi palchi arrivano dopo anni di serate in giro…
Pensate che i Modà ci vedevano suonare 5 anni fa a Le Scimmie e una volta, addirittura, in un locale di Melzo erano gli unici spettatori. Stasera ci sentivamo a casa, qua compravamo la mozzarella da rivendere (legalmente) nel negozio di mio padre in zona San Babila. Tornare qui dopo due anni per un nostro concerto è stata una vera botta al cuore.
“Il mondo” è l’unica canzone italiana inserita in scaletta. Come mai?
Durante il programma era la nostra prova del nove. Oggi, invece, vedere delle adolescenti cantare una delle pietre miliari della musica italiana come fosse una canzone uscita ieri, ci riempie d’orgoglio.
Quali sono i vostri riferimenti musicali?
Amiamo i “classici” e li intendiamo come i colori primari della musica: Beatles, Led Zeppelin, Michael Jackson e Pink Floyd. Ascoltiamo anche gruppi alternative come gli inglesi XTC e i belga Soulwax. Rispetto ai DJ cui, noi, con l’acustico non potremmo mai tenere testa, abbiamo scelto di contaminarci con qualcosa di più contemporaneo. I nostri riferimenti sono anche i Depeche Mode e la scena elettronica francese.
E Andy dei Bluvertigo?
Andy è un riferimento musicale ed umano. Lui ci ha visto a Le Scimmie nel 2010 e ha subito capito che volevamo rappresentare un mix tra Gang of four, Soulwax e il pop anni ’80 di Michael Jackson.
A cosa si deve la scelta di aver voluto inserire anche tante cover fatte ad Amici?
Tante persone non ci conoscono solo per il tormentone e lo spot Vodafone ma anche perché ci ha visti in Tv e noi vogliamo regalare loro qualcosa che li leghi a quel contesto.
Alcune band campane vi hanno inviato messaggi di elogio, cosa ne pensate?
A tutti i nostri colleghi vorrei inviare un messaggio: non è vero che se vai ad Amici ti fanno fare solo cose alla Marco Carta (con tutto il rispetto per lui). Ad Amici abbiamo trovato un ambiente molto rock and roll perché ci hanno lasciato fare quello che volevamo. I discografici ci dicevano: “In Italia l’inglese non funzionerà mai”; ultime parole famose, seppellite oggi da oltre 120mila copie vendute.
Stash, stasera c’erano i tuoi genitori?
No, preferisco non farli venire, avrei la sensazione di essere al saggio di fine anno. Ovviamente qualora avessero voglia di venire mi farebbe molto piacere.
Come identifichereste il vostro gruppo?
Siamo sicuri di non essere una boy band tipo Backstreet Boys, Take That o One Direction. Se poi mi chiedete se ci saremo ancora tra tanti anni… non lo so. È successo tutto così in fretta e non mi rendo conto di niente, non riesco a pensare.
Come e dove ricercate le nuove tendenze musicali?
Londra rappresenta la nostra fonte di aggiornamento per la musica. Appena abbiamo dei giorni off siamo lì.
Stash, qual è il tuo approccio alla musica?
Sono cresciuto con chitarre in casa e mio padre che faceva concerti, ma mi ha subito detto che dovevo trovare la mia strada. Non mi ha influenzato. A 12/13 anni ho iniziato a fare concerti con la mia band ma ero sempre il figlio di, e questa cosa mi stava sulle palle. In seguito sono venuto a Milano perché qui ci sono le persone giuste e le case discografiche. Ora mio padre è felicissimo perché, attraverso di me, vede anche la sua realizzazione.
Cosa pensate delle canzoni nelle pubblicità visto che ora con “Everytime” ci siete finiti anche voi?
La pubblicità di Vodafone è il sogno di chi fa musica. A me è capitato una volta di stare 40 minuti in attesa ed è così che ho scoperto Malika Ayane! A volte chiamiamo Vodafone per ripassare la canzone e, a questo punto, chiediamo agli operatori di aumentare il tempo di attesa nel servizio clienti, così le persone ci ascoltano di più… (ride ndr)
Jovanotti @ Stadio San Siro ph Maikid Michele Lugaresi
“Grazie per avermi fatto giocare al gioco del rock’n’roll, mi sono sentito un supereroe anche se noi tutti abbiamo un superpotere: l’amore che, mosso dal desiderio, è il superpotere più forte”. Così Lorenzo Cherubini Jovanotti saluta, commosso, il pubblico dello stadio San Siro di Milano in occasione dell’ultima delle tre date meneghine, tutte sold-out. Il Peter Pan della musica italiana porta a casa non solo un record ma una soddisfazione che va oltre le aspettative. Merito, forse, di uno show veramente strabordante da ogni punto di vista. Lorenzo è vita, gioia, speranza, emozione, energia, ispirazione e nel suo live ciascuno di questi elementi trova una precisa collocazione rimpinguando vuoti e mancanze di cuori afflitti da un mondo troppo pieno di brutture. Richiamato dal futuro grazie a una sfiziosa clip a metà tra “Guerre stellari” e “Ritorno al futuro”, Jova utilizza la sua passerella –fulmine come strumento per instaurare un intimo processo di connessione con il pubblico.
Jovanotti @ Stadio San Siro ph Maikid Michele Lugaresi
Carico ed instancabile, proprio come un supereroe, Lorenzo catalizza l’attenzione su di sé ballando, correndo da un lato all’altro del palco, saltando, rotolandosi o, più semplicemente, toccando le corde del cuore con i successi che hanno scandito la sua carriera e la nostra vita. Capace di cambiare registro, linguaggio, mise e messaggio, Lorenzo è un artista trasversale. La sua musica, che sia quella recente proveniente dall’ultimo “Lorenzo 2015 CC” o quella più lontana nel tempo di “Lorenzo 1994”, racchiude la nostra essenza umana, senza trascurare eccessi e contraddizioni.
Jovanotti @ Stadio San Siro ph Maikid Michele Lugaresi
Le canzoni in scaletta scorrono via una dopo l’altra, come se ci trovasse sulle montagne russe. Impossibile restare fermi, specie sulle note di “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang”, l’ultimo brano ritmato prima di una seconda parte dedicata a brani più lenti, pronti a lacerare le fibre dei cuori più sensibili: una versione reggae di “Bella” introduce “Stella cometa” perfettamente arrangiata per entrare in fusione con “Ora”. Particolarmente toccante l’interpretazione di “Fango”, soprattutto grazie alla bellissima clip sul mega schermo tratta dal film Lousiana di Roberto Minervini.
Jovanotti @ Stadio San Siro ph Maikid Michele Lugaresi
L’energia del pubblico si fa incontenibile con “L’ombelico del mondo” “L’estate addosso”, “La notte dei desideri”. Lacrime, luci, laser e battiti colorano di emozione lo stadio per una splendida versione minimal de “Le tasche piene di sassi”. Jova è un “Ragazzo fortunato” perché ha trasformato il suo sogno in realtà e, forse, per proprietà transitiva, anche noi potremmo considerarci fortunati se riusciamo ancora a credere che la musica possa regalarci gioia e ispirazione. Lorenzo si è dato una possibilità e quel che ne è conseguito lo conosciamo. Ora, a luci spente, tocca a noi fare la nostra parte e lottare fino alla fine per realizzare i nostri sogni.
“No Place in Heaven”, il nuovo lavoro discografico di Mika è un album artigianale e leggero al contempo (Virgin/Emi per Universal Music). Le melodie dolci e sinuose si sposano con sonorità che riecheggiano di pop vintage ma che non dimenticano la chanson d’amour. La dolcezza pungente e la disarmante onestà con cui Mika ha cesellato le 17 tracce (nella versione deluxe) che compongono il suo quarto album sono il risultato di due anni intensi di lavoro creativo, in collaborazione con Gregg Wells. Registrato a Los Angeles, prima in uno studio con accanto Pharrell Williams, poi in una grande casa degli anni ‘50 dove Mika si è rinchiuso per qualche mese, “No Place in Heaven” elenca il pantheon del cantautore anglo-libanese che, se da un lato abbandona il ben noto falsetto, dall’altro mischia colori, suoni,e sentimenti contrastanti e lo fa attraverso un sottotesto ispirato agli anni ’70, il primo Elton John, il primo Billy Joel, Carole King e il Laurel Canyon. Il basso pulsante e ritmico di “Talk about you” introduce il cantato dolce ed ovattato di “Good guys” in cui Mika cita i suoi punti di riferimento, a seguire la dance bohemienne di “L’amour Fait ce qui’il veut” . Intensamente intimo ed incredibilmente trasparente “All she wants”, il brano in cui l’artista mette a nudo i pensieri reconditi ed il rapporto con sua madre. Tra brani ritmati e ballate malinconiche “Hurts”, “Last party”, Les baisers perdus”, “No place in heaven” è la preghiera senza filtri in cui Mika si apre al mondo con una deliziosa delicatezza: “For ever love I had to hide and every tear I ever cried. J’m down on my knees, I’m begging you please cos there’s no heaven for someone like me”. Suadente e calda la melodia di “Boum boum boum”, corale e coinvolgente il ritmo di “Oh girl, you’re the devil”, disincantato ed estroso il country pop di “Rio”. Questo nuovo album è, in sintesi, una sorta di definitiva liberazione per Mika. Una libertà che gli è servita per affrontare temi importanti nel disco come la sessualità, la paura di come gestirla e l’amore. Ecco cosa ci ha raccontato l’artista in occasione dell’incontro con la stampa a Milano, prima delle prove del concerto sold-out al Fabrique.
Mika, come sei arrivato a “No place in Heaven”?
Volevo liberarmi da tante paure. Ogni cd ha rappresentato un passaggio importante nel mio percorso. L’ultimo, “The Origin of Love”, è stato un punto di rottura, ha segnato un solco che mi ha permesso di cambiare e ripartire da zero e lavorare in totale libertà. Così è stato anche in questo disco, attraverso queste canzoni sono andato dritto al punto, senza giri di parole o metafore. Insomma, non mi nascondo più.
Perché hai scelto questo titolo?
Il titolo non rappresenta una frase triste, al contrario, è gioiosa. Se troverò posto in paradiso, bene, altrimenti non c’è problema, io non voglio andarci a tutti i costi. Questa affermazione in realtà va contro la cultura orientale con cui sono cresciuto. La parte libanese che c’è in me include una buona dose di paranoia nell’affrontare le faccende personali, solitamente considerate volgari. Ora che sono riuscito ad abbattere il muro, esco finalmente dal guscio. Adesso ho capito che la vera vergogna è tenerle dentro certe cose. Anni fa parlavo di niente, tenevo tutto a distanza. Ora è il momento del coming out dell’anima. Per di più il momento in cui un disco viene pubblicato è quello in cui una cosa personale e intima, che finora è stata mia, diventa di tutti.
“All She Wants” è un testo autobiografico?
Certo, la madre che sogna per il figlio una moglie, un buon lavoro e una posizione sociale, come nella tradizione più classica, è proprio la mia. Invece, altro che casa e nipoti: mia mamma si ritrova a organizzarmi il guardaroba per gli show. Si è trasformata in una zingara senza accorgersene! (ride, ndr)
Tante tracce in francese ma nessuna in italiano…
Ci ho provato ma i tentativi sono stati tutti bocciati: la pronuncia è troppo difficile! Il francese lo parlo da una vita e, a dire il vero, mi ha aperto le porte all’italiano. Senza il francese non avrei mai potuto imparare questa lingua così velocemente.
Tra le canzoni spicca “Good Guys” in cui citI artisti e intellettuali come Andy Warhol, James Dean, Arthur Rimbaud, Walt Whitman, Ralph Waldo Emerson, Rufus Wainwright. In che cosa ti hanno delle personalità così diverse tra loro?
Erano tutti profondamente controcorrente. Anzi, hanno cambiato la direzione del vento, avevano una spinta culturale ed emozionale quasi punk.
Aggiungeresti qualche italiano?
Senza dubbio, Dario Fo. Poi c’è Morgan, quando è di buon umore, quando non lo è, lo toglierei (ride ndr).
È vero che farai un disco con Morgan?
Siamo stati in studio assieme durante il periodo di X Factor. In quel contesto ho visto un ragazzino che, lontano dalle pressioni dei media, giocava con gli strumenti con gioia pura. Qualcosa con lui mi piacerebbe farla, prima o poi accadrà. Intanto ha preso una canzone che ho scritto con Guy Chambers, l’ha sistemata e l’ha trasformata in “Andiamo a Londra” (la prima nuova canzone dei Bluvertigo).
Ti occupi di tante cose per poter fare quello che desideri in musica. Questo discorso vale anche per il libro che stai scrivendo per Rizzoli?
Io sono prima di tutto un musicista, quasi tutto il resto lo faccio per potere fare il disco che voglio io, senza vincoli. Il libro sarà un diario intimo, divertente e duro. In un capitolo parlo della mitologia siriana di mio nonno, in quello dopo della mia frustrazione in un supermarket…
Mika
Cosa ti piace del nostro Paese e cosa no?
Da evitare le spiagge perché ovunque ci sono teleobiettivi pronti a riprenderti e gli aeroporti sono veramente pessimi. Amo invece il Piemonte, con le sue colline verdi e misteriose e la sua gente che si nasconde un po’ per poi rivelarsi cordiale. E poi c’è il vino, non solo quello piemontese.
Cosa ci anticipi del tour?
La copertina del cd dà un’idea del progetto: mi sono ispirato al Futurismo italiano. Sarà uno show fatto a mano, nel senso che non ci saranno effetti speciali; nessun ledwall, per intenderci. Mi piace sempre creare con la fantasia ma attraverso oggetti reali, che recupero dalla strada. Insieme al mio team sto realizzando i disegni, adopereremo la carta. Anche la mia musica è fantasiosa, spesso si tratta di un modo tutto mio per reagire al dolore. A questo proposito, ho scritto “Relax” a Londra quando ci hanno fatto evacuare dalla metropolitana per gli attacchi terroristici; sono andato a casa e ci ho scritto una dance song!
La tenacia, la sicurezza e l’intraprendenza di Conchita Wurst ( all’anagrafe Tom Neuwirth) rappresentano un importante barlume di speranza per tutti coloro che nel cuore hanno un sogno da realizzare ma anche un fitto percorso ad ostacoli da affrontare. Accolta con clamore dalla stampa italiana, Conchita ha presentato il libro Io Conchita. La mia storia, uscito il 15 maggio per Mondadori Electa e il suo disco di debutto “Conchita”, pubblicato da Sony Music lo scorso 19 maggio, nella Sala Reale della Stazione Centrale di Milano. Un album molto variegato, forse troppo, che spazia dalla dance alle ballate drammatiche senza farsi mancare spruzzate di swing. Un lavoro sicuramente impegnato, ricco di importanti messaggi ma che parla anche di cuori spezzati e storie d’amore dal triste epilogo. Con il suo allure da gran diva, Conchita dimostra di essere in realtà una persona semplice e affabile, nonché un’intensa interprete dalla voce potente e carismatica.
“Conchita” è il tuo album d’esordio. Come hai lavorato a questo progetto così importante per te?
Ho realizzato questo album in modo egoistico, perché volevo che prima di tutto piacesse a me. Ho ricevuto più di 300 canzoni da vagliare e ascoltarle tutte ha richiesto non poco tempo. Non mi importa chi scrive le canzoni, sono molto precisa e quando si tratta di scegliere una canzone da cantare, deve esserci subito almeno una parte di me nel brano, di solito mi colpisce la melodia, poi passo al testo. “The Other Side of Me”, ad esempio, è stata scritta da un autore svedese, Erik Anjou, a cui l’ispirazione è venuta guardandomi sul palco dell’Eurovision. Questa canzone per me è speciale perché Eric è rimasto così ispirato da mandarmi la canzone, senza pensare ad altro. Più in generale sono felice che il disco sia così colorato e sfaccettato, ‘Conchita’ abbraccia tutti i miei generi musicali preferiti e per questo spazia dalle ballate drammatiche ai brani dance.
Quando hai capito di voler fare musica nella vita?
A 7 anni giocavo a fare la cantante e sognavo di essere famosa, perché – credetemi – essere famosi è divertente. Sono sempre stata molto determinata nel perseguire i miei scopi e, dato che il mio sogno è vincere un Grammy, non ci sono scuse, quando si ha un obiettivo bisogna lottare per raggiungerlo!
E che cosa cantavi a 7 anni?
Shirley Bassey era il mio punto di riferimento. Non conoscevo la lingua l’inglese ma in una compilation di mia madre c’era “Goldfinger “, un brano che cantavo in continuazione cercando di imitare la voce di Shirley che mi ha inconsapevolmente dato lezioni di canto.
A cosa attribuisci il tuo successo? Non hai paura che il clamore creatosi intorno al tuo personaggio possa presto esaurirsi?
La cosa più importante per me è essere autentici. Ho creato questo personaggio e porto sul palco una mia verità. Sono a mio agio, mi diverto, sono la persona che avrei sempre voluto essere. All’Eurovision ci sono stati diversi fattori che mi hanno aiutato: la canzone, la performance, certamente anche il look, ma soprattutto persone che hanno creduto in me. La scelta che ho fatto è di essere felice nella vita, quindi so che se anche tutto questo dovesse finire troverei ugualmente il modo di esserlo.
Conchita Wurst Ph Mischa Nawrata
Oltre al disco è uscita anche una biografia. Com’è nata l’idea di raccontare la tua storia in un libro?
Dopo la mia vittoria all’Eurovision un editore mi ha fatto questa proposta ma all’inizio ero del tutto contraria! Ho 26 anni, mi sembra un po’ prematuro scrivere le mie memorie. In seguito mi hanno chiesto di ripensarci e mi sono detta: “Se proprio devo farlo allora deve essere il genere di libro che comprerei”. A me piacciono quelli con molte foto e, proprio per questa ragione, in questa biografia ce ne sono tante. In quattro giorni ho raccontato la mia vita ad un ghostwriter ed ho avuto la possibilità di scoprire e riscoprire tante cose di me.
Che rapporto c’è tra Tom e Conchita? Che cosa hanno imparato l’uno dall’altra?
Conchita ha imparato da Tom a essere più rilassata e orgogliosa di quel che fa, mentre Tom ha imparato da Conchita a lavorare sodo per riuscire nella vita ed avere successo.
Cosa faresti se avessi modo di incontrare Putin?
Vorrei incontrare Putin per capire cosa vuol dire essere Putin. Potrei imparare tanto da lui anche se ha preso decisioni che non mi hanno reso felice. Discutendo con lui vorrei capire i suoi ragionamenti per poi provare a fargli cambiare idea.
Com’ è Conchita nella vita di tutti i giorni?
Ho una vita privata normale e non mi prendo troppo sul serio. Senza ciglia finte e parrucche non mi riconoscereste. Vado al supermercato, prendo i mezzi pubblici e nessuno sa chi sono.
Quando potremo ascoltarti dal vivo?
Al momento sto promuovendo l’album e il libro in tutto il mondo. In fondo non sono Madonna, perciò non posso aspettarmi un pubblico di migliaia di spettatori ad un mio show, però ho la possibilità di cantare nel corso della promozione. Andrò in Australia, Giappone, Stati Uniti e poi farò qualche concerto: non sarà un vero e proprio Conchita Tour, però un giorno ci sarà!
Max Pezzali sviluppa e sviscera i dettagli di quel “Il mio secondo tempo”, risalente alla pubblicazione di “Terraferma”, nel 2011, con un nuovo album di inediti metaforicamente intitolato “Astronave Max”, un luogo/non luogo da cui guardare il mondo da una nuova prospettiva, più consapevole, eppure possibilista. Max canta, scrive e descrive ciò che conosce meglio e, attraverso la descrizione puntuale e malinconica delle cattedrali dei giorni nostri, dei nuovi luoghi/non luoghi di aggregazione/disgregazione della società, repliche l’uno dell’altra, si addentra nei meandri del logorio della vita moderna. Il disco rappresenta, dunque, un viaggio gradevole nell’universo di Max, un universo che difficilmente tratta dei massimi sistemi ma che, proprio per questo, si presenta così vicino al nostro. Prodotto da Claudio Cecchetto e Pier Paolo Peroni con Davide Ferrario, Astronave Max si compone di 14 tracce che lo stesso Max ci ha spiegato in occasione della presentazione dell’album. Una lunga chiacchierata in cui l’artista si è raccontato senza filtri mettendo tutti i presenti a loro agio in un contesto davvero amichevole e alla mano.
Max cosa rappresenta per te l’astronave che dà il titolo al tuo nuovo album?
L’astronave può avere una doppia interpretazione: da un lato è l’astronave madre che racconta quel luogo non luogo simbolo del nostro tempo, ovvero il centro commerciale. “Astronave Madre”, ad esempio, è un pezzo psichedelico in cui parlo di questo luogo in cui vado spesso, un teatro in cui sono rappresentate le vicende umane di persone che diventano quasi degli automi. Da qui l’idea di intitolare l’album Astronave Max: il tema centrale è l’allontanarsi dalla Terra e vedere le cose in prospettiva. A 47 anni vedo ancora in un modo abbastanza simile a prima, ma l’età ti porta ad avere una diversa prospettiva, ciò che vedi è messo in un contesto più largo, da cui riesci a comprenderne la relatività. La vita è un gioco di prospettive e di allontanamenti, di rimettere tutto al proprio posto e l’età di dà un maggiore distacco, ma sempre con l’idea che le cose finiranno sempre bene. Tutto sommato la contemporaneità, con tutti i suoi difetti e limiti, rappresenta il punto più avanzato che l’umanità, fino a questo momento, ha raggiunto.
Sei stato il cantore della provincia degli anni ’90. Secondo te con internet e la tecnologia c’è ancora questo senso di comunità, di provincia?
Io credo di sì, ma ho notato che la provincia che conoscevo io è molto cambiata perché molte zone sono diventate aree dormitorio. La crisi ha colpito i piccoli centri più delle città e la gente ora lavora a Milano, le persone non sono più fisicamente lì in provincia, ci arrivano la sera tardi e se ne vanno la mattina presto, senza vivere i luoghi. La provincia negli anni ’90 aveva la consapevolezza di non sapere cosa succedeva altrove. C’era l’immaginazione, la provincia doveva creare una propria identità per immaginare cosa succedeva fuori. Chi arrivava in città dalla provincia il sabato sera, si riconosceva subito anche da come era vestito. I milanesi ci riconoscevano subito perché noi eravamo quelli sempre con la taglia sbagliata: se volevi il Chiodo, al negoziante ne erano arrivati due, una L e una XL. Se aveva già venduto la L, ti diceva che la XL ti andava bene, bastava metterci un maglione sotto. Così noi di provincia eravamo quelli con il Chiodo troppo grande. In più la provincia creava l’obbligo di coesistenza tra persone diverse. Se eri a Pavia e ascoltavi il punk, al massimo c’erano altre due o tre persone come te e non c’era un locale dove incontrarsi. Il ritrovo era insieme a tutti gli altri, paninari, metallari e vecchi che si bevevano il bianchino. Tutti allo stesso bar. Non potevi rivolgerti alla tua nicchia, dovevi sviluppare un linguaggio che ti permettesse di comunicare con tutti. L’alternativa era che venivi menato… o menavi! Oggi anche chi in provincia rimane comunque connesso con tutte le altre nicchie d’Italia e può creare un punto d’incontro digitale con chi la pensa come lui. All’epoca dovevi fidarti di chi non era come te, ma ti aiutava a non essere dogmatico, a mischiarti. Oggi internet, invece, permette ad una nicchia isolata di comunicare a distanza in luoghi non fisici.
Il tema centrale dell’album è connesso con questo discorso?
Osservare tutto a distanza è qualcosa legato al tempo, non allo spazio. L’allontanamento non è esprimibile in chilometri ma in anni. La relativizzazione delle cose è l’unica cosa positiva dell’età. In 47 anni di vita certi corsi e ricorsi li hai già visti 7/8 volte e così capisci che è un movimento circolare. Se non ci fosse l’esperienza di avere già visto il cambiamento avvenire e poi annullarsi, avvenire e poi annullarsi di nuovo, questa prospettiva non l’avresti. La canzone “Generazioni” spiega proprio com’è arrivare in un club senza essere preparato. Io che ero abituato alla discoteca degli anni ’90, all’inizio mi sembrava un inferno in terra! Poi mi sono reso conto che infondo non è cambiato molto: gli atteggiamenti di quei ragazzi e quello che stanno cercando sono le stesse cose che volevi tu. Le generazioni di oggi non sono né meglio, né peggio di noi. Per quelli della mia età il casino era esattamente come oggi. Non c’è unicità nella sofferenza: il nostro disagio l’ha già provato qualcuno e qualcun altro lo proverà di nuovo dopo di noi.
Cos’è che aliena i giovani di oggi?
Penso sia più che altro un problema di comunicazione. È come se si fosse demandata la socializzazione a luoghi non fisici: la gente si conosce già prima e si mette d’accordo ancora prima di vedersi. Prima se l’appuntamento era alle 8 al bar e arrivavi tardi, eri fottuto, non avevi idea di dove fossero li altri e arrivavi all’1 di notte senza aver combinato niente.
Oggi i ragazzi arrivano in un posto che hanno già socializzato, arrivati nel club diventa importante solo l’esperienza sensoriale. I luoghi sono diventati posti per consumare beni e servizi e non per parlarsi e raccontarsi del più e del meno. Quello si fa dopo.
Max Pezzali
Nel disco c’è una netta maturazione nella scrittura. Sei riuscito a mantenere intatto lo stile ingenuo, passionale e sognatore che ti appartiene dai tempi degli 883, con quello di Max Pezzali uomo adulto e padre?
Penso ci sia un’evoluzione naturale. Mi sono trovato nella condizione di chiedermi che cosa scrivere e se ciò che canto interessa a qualcuno. È la sindrome del foglio bianco, quando vorresti scrivere tutto, poi ti rendi conto che l’unica cosa che sai fare è raccontare quello che conosci, quel tuo centimetro quadrato. Non puoi parlare di tutto, ma solo di ciò che conosci e ti è vicino. E questo sblocca il meccanismo, è la consapevolezza. Raccontare del mio immediato anche a 45/47 anni, non esistono argomenti da giovani o da vecchi, esiste la realtà, qualunque essa sia, ma è la tua che ora riesci a raccontare con la lente della tua età.
Hai mai pensato di prendere sotto la tua ala un giovane artista per produrlo e scrivere per lui e tramandare in questo modo lo “stile 883″?
Una volta ho scritto un testo, “100.000 parole d’amore”, per un ragazzo di X-Factor, Davide Merlini che ora fa musical. Mi piaceva molto l’idea. Sicuramente mi sarebbe più facile scrivere per un ragazzo giovane piuttosto che per uno della mia età o più vecchio. Non riesco ad entrare nell’immaginario di un cantante di mezza età!
Sergio Carnevale (batteria) e Luca Serpenti (basso) fanno parte della tua band. Come influenzano la tua musica?
Loro erano con me in tour già con Max 20. Sergio viene fuori dai Bluvertigo. La band con cui sono in giro penso sia veramente una benedizione di Dio perché oggi c’è bisogno di sonorità di questo tipo per uscire dalla dinamica del concerto scontato con musica perfettamente eseguita, ma priva di anima. Io voglio musicisti che siano anche autori, per perdere qualcosa in tecnica e precisione, ma guadagnare molto di più in impatto emotivo. Voglio comunicare ogni volta qualcosa di diverso. Tutti i musicisti arrivano da scenari diversi e, mettendo insieme queste cose, si riesce ad ottenere un suono moderno e contemporaneo. Già ascoltare un disco dall’inizio alla fine è dura, se poi c’è un suono scontato, roba vecchia… hai già perso la battaglia in partenza..
Il nuovo singolo “Sopravviverai”rappresenta il proseguimento naturale diOdiare che hai scritto lo scorso anno per Syria?
Si, è come se lo fosse. Fino ai 35 anni siamo tutti convinti che, quando finisce una storia, non ci si rialza più. Invece ci si rialza sempre. Siamo come delle barche inaffondabili: anche se si ribaltano, tornano sempre dritte. Il vero problema della fine di una storia è l’autocompiacimento. Io non sopporto neanche me stesso quando mi compatisco! Tendo ad avere nostalgia di qualsiasi cosa. Basti pensare che a 27 anni ho scritto Gli anni… di che cosa avevo nostalgia, di quando avevo 15 anni? È un sentimento quasi di maniera, mi piace l’idea di rimpiangere qualcosa, ma devo dirmi “ma vaffanculo”! Il continuo torturarsi è la ricerca del compatimento degli altri, mentre la voce razionale nel cervello ci dice di non rompere i coglioni, di smetterla di pensare alle immagini bucoliche del tempo che se ne è andato, la voce razionale ti dice di dormire che domani hai una giornata lunga. E più vai avanti, più la parte cinica diventa enorme e ti dice “ma sei scemo”?!
Come stai lavorando al tour, quali canzoni ci saranno?
Dopo le 33 date tutte sold out del tour di due anni fa, mi piacerebbe che venissero rappresentati tutti i successi del passato, ma c’è abbastanza tempo per far ascoltare al pubblico le nuove canzoni. Cercherò di capire quali sono quelle che piacciono di più alla gente per individuare quali sono le 4/6 che si possono fare, ma voglio che il peso maggiore sia dato alle vecchie canzoni. Se fai un tour incentrato sull’album nuovo la gente si rompe le pa**e perché non conosce le canzoni. Non voglio però neanche un tour celebrativo. Voglio evitare il ‘Che pa**e’ e quindi in questi mesi voglio capire quali canzoni piacciono di più alla gente. So che è brutto a dirsi, ma ci sono canzoni che non posso non fare, altrimenti non scendo dal palco vivo. Il concerto è un evento collettivo e le persone vogliono cantare le canzoni che hanno rappresentato una parte della loro vita.
Quali concerti andresti tu oggi a sentire?
Vasco Rossi, Lorenzo Jovanotti negli stadi… mi piacerebbe vedere Nek e Cesare Cremonini.
Tu sei sempre stato molto avanti, la tua attitudine nello scrivere era simile in qualche maniera a quella dei rapper. Nel 2012 hai rifatto il tuo primo disco, “Hanno ucciso l’uomo ragno” rendendolo attuale nel sound con la collaborazione di diversi elementi della scena rap italiana. E’ un esperimento che avrà un seguito?
Mi piace la contaminazione. Ora è tutto rap + pop, è il momento in cui tutto è featuring di tutti. È la rapper mania senza costrutto, ed è un peccato. Bisognerebbe essere più cauti nelle uscite, perché si arriva facilmente alla saturazione, perché la gente si rompe le palle facilmente. Mi piacerebbe fare un discorso di collaborazione, ma non un featuring. Qualcosa che nasca insieme al rap, al rock indipendente, miscelare musicisti diversi e realtà diverse in un solo album, ma non è ancora il momento.
Oggi ti senti di più un utente della rete attivo o passivo? E alla fine qual è la soluzione per sopravvivere in questo mondo?
Io sono uno dei primi utenti e sono sempre stato attivissimo nel trovare una connessione con il resto del mondo. Oggi cerco di essere attivo, ma mi sento un po’ come il metallaro… quello che ascoltava metal che scopre che la sua band preferita adesso la ascoltano tutti. Non è più il mio giocattolo! Internet è commerciale e ora mi sta sui coglioni, perché è diventato fruibile anche dai non tecnologicamente alfabetizzati. Cerco di essere critico nei confronti degli strumenti tecnologici: non tutto è figo, utile e divertente. La tecnologia non è solo Facebook e Facebook mi fa letteralmente schifo! Trovo sia un luogo dove la gente scarica addosso agli altri le proprie frustrazioni, c’è un traffico di roba inutile e tutta quella larghezza di banda è occupata da minchiate! Mi piace twitter, perché c’è un limite di caratteri. Ma l’italiano medio non lo ama perché in 140 caratteri non è neanche uscito di casa. Mi piace Instagram perché è una foto e basta. Internet mi piace quando è sintetico e arriva subito.
Quanta rete c’è nel tuo disco?
Non avrei mai potuto fare questo album senza l’utilizzo intenso della rete. Davide preparava le basi e me le mandava, io le cantavo e gliele rimandavo su dropbox. Questa è la figata! Essere liberi di trasmettere le cose. Abbiamo fatto un album in remoto e me ne vanterò sempre. Siamo all’interno di un frullatore mediatico in cui ci vengono fatte credere delle verità preconfezionate e ho paura che seguire troppo le regole e i consigli vengono dati sia una limitazione. Non bisogna credere troppo a quello che ci dicono, nel bene e nel male. Le spiegazioni troppo semplici di solito non sono vere perché la realtà è complessa. Bisogna seguire le proprie attitudini indipendentemente da quello che dicono gli altri. C’è sempre spazio per realizzare la tua strada. Non bisogna credere troppo al buonsenso comune.
Vent’anni di musica costruita passo dopo passo, album dopo album, concerto dopo concerto. Oggi Cesare Cremonini rappresenta un punto di riferimento per la musica italiana e, a pochi mesi di distanza da un fortunatissimo tour, l’artista apre una finestra sul suo futuro con “Più che logico (live)”, un triplo album, un progetto curato nel dettaglio e molto ambizioso, contente la registrazione del concerto di Torino dall’ultimo tour e ben quattro canzoni nuove che lo stesso cantautore definisce come “Un passo avanti nel mio percorso”. ”Più che logico, spiega Cremonini, non è il classico live che prende tempo tra un progetto e l’altro. Certo, chi fa un disco dal vivo tende a non mettere canzoni importanti o troppo nuove che svelino troppe cose, io, invece, ho voluto inserire canzoni nuove ed importanti, che intendono aprire una finestra su quello che posso e voglio fare discograficamente.
Entrando nello specifico degli inediti si parte con la già nota “Buon viaggio (Share the Love), un brano dal sapore estivo con un refrain catchy, pensato per infonderci propositività e coraggio. Decisamente interessante è il sound di “Lost in the weekend”, un fedele affresco metropolitano di un modus vivendi difficile e complesso che Cesare ha definito “una preghiera elettronica” eleggendola a colonna sonora del prossimo #PiùCheLogicoTour2015. Dolce e tormentata “Quasi quasi”¨”una canzone d’amore perfetta per essere bisbigliata all’orecchio di una ragazza”, come ha raccontato Cesare alla stampa, durante la presentazione del disco a Milano, aggiungendo, “Noi cantautori dovremmo ricordarci più spesso dell’esigenza di vivere un momento a due, senza condivisioni obbligatorie come, invece, avviene sempre più spesso per l’ influenza dominante dei social networks”. L’ultimo degli inediti è l’energica “46”, già inno per lo Sky Racing Team VR46, una canzone ispirata da Valentino Rossi, amico di Cremonini e dall’amore di Cesare per i motori: “Sono affascinato dal mondo dei motori e in particolare dai campioni delle due ruote”, ha spiegato, “Sono loro le vere rockstar: hanno una vita al limite e rischiano sul serio ogni volta che gareggiano. Il loro pubblico ha un sapore di festival rock (sembra un nuovo Woodstock) e quando sono con loro mi sembra di avere a che fare con i nuovi Mick Jagger e Vasco Rossi”.
Un altro elemento importante di più “Più che logico” è il booklet: 60 pagine per raccogliere, spiegare, condividere l’essenza di un mutuo scambio di emozioni, quale è il concerto, un momento che Cesare vive con particolare trasporto, conseguenza di una naturale predisposizione: “Ho la presunzione di dire che so stare su un palco: è una cosa che amo fare da sempre”, racconta l’artista, che a ogni data propone un momento solo voce e piano perché :”È come se tornassi indietro nel tempo: mi ricorda quando avevo 6 anni e mia madre mi diceva: ‘Suona per noi!’. Sono 16 anni che ho iniziato a fare il musicista ma dopo i Lunapop la mia strada è ricominciata da capo. Sull’avambraccio ho tatuato Freddie Mercury quindi capite come sia naturale per me essere attratto dall’idea di cavalcare grandi palchi. In questo mestiere la passione è tutto e io ho quella di un ragazzino: quando hai la possibilità di incontrare dal vivo tanta gente ti dà grande energia”. Nato da un’idea del produttore Walter Mameli, il booklet assume la valenza di vero e proprio valore aggiunto al progetto: “Pensavo fosse una fatica inutile, invece poi mi è venuta una voglia pazzesca di raccontare le mie impressioni e l’intera giornata di un concerto, da quando mi sveglio a quando arriva l’ora di pranzo e non ho per niente fame perché sono agitato. Questo libretto è come se fosse il pezzo in più, anzi il sangue in più, quella parte di passione che non sta dentro la pelle”.
“Ad oggi, ha aggiunto Cesare, mi sento finalmente dove voglio stare. Non è sempre stato così, a volte mi sembrava di avere un grande seguito di pubblico ma di aver poco da condividere con lo stesso. Ora non è assolutamente così. Io mi sento un intrattenitore, non solo uno scrittore di canzoni. Non ho preclusioni verso il cinema o la televisione. Mi piace giocare con il mio mestiere e il mio mestiere è meraviglioso perché concede una grande fortuna: puoi tranquillamente morire ma ogni concerto è un’occasione di rinascita, di ripartenza”. Si tratta, quindi, di un periodo ricco di energia, entusiasmo e aspettative per Cesare, il giusto premio giunto dopo sei lunghi mesi di lavoro solitario e certosino che sfocerà nelle date del prossimo “Più che Logico Tour 2015”: “il secondo tempo del tour precedente, ma senza la sensazione di aver già vinto la partita”, ha concluso Cremonini.
Queste le date del Più che logico tour:
Ottobre
23 TORINO – Pala Alpitour
24 GENOVA – 105 Stadium
27 ROMA – Palalottomatica
30 PESARO – Adriatic Arena
31 BOLOGNA – Unipol Arena
Novembre
3 FIRENZE – Mandela Forum
5 EBOLI (Salerno) – Palasele
7 ACIREALE (Catania) – Palasport
10 BARI – Palaflorio
13 MILANO – Mediolanum Forum
17 MONTICHIARI (Brescia) – PalaGeorge
19 PADOVA – Palafabris
21 CONEGLIANO (Treviso) – Zoppas Arena
22 TRIESTE – PalaTrieste
24 VERONA – Palasport
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Con il nuovo album “Beyond”, Mario Biondi va davvero “Oltre”, attraverso un sound che supera le ballads jazz per rendere protagonisti funky e soul in un progetto che si avvale della presenza di nomi eccellenti tra i quali i Dap-Kings, gruppo musicale funk/soul di Brooklyn e band di Sharon Jones, che ha collaborato con Amy Winehouse ed altri artisti. Tra gli autori dei brani troviamo, invece,Bernard Butler (ex chitarrista degli Suede), D.D.Bridgewater , Max Greco e David Florio. A distanza di due anni da “Sun”, questo lavoro apre un nuovo capitolo all’interno della discografia di Biondi che, ispirandosi liberamente alle sonorità dei Coldplay, ha scelto di sperimentare la sua voce realizzando, così, un variegato prisma sonoro. Le tredici tracce che compongono il disco sono il frutto di grandi amicizie che l’artista ha portato avanti negli anni ed il risultato, fresco e moderno, conserva l’eleganza e la ricercatezza che da sempre contraddistinguono la progettualità discografica di Biondi.
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
La tracklist si apre con “Open Up your eyes”, “All my life”, “Love is a temple”: una triade incentrata sui sentimenti, espressi in maniera prima concettuale poi più esplicita in “All I want is you” e “I choose you”. “You Can’t Stop This Love Between Us” viene dalla collaborazione con due DJs degli anni novanta come Bini & Martini e racchiude tutto il gusto per la miscela soul/funk tanto cara all’artista siciliano. Eletto a manifesto di rinnovamento e cambiamento dallo stesso Biondi, “Come down” è l’altro brano da segnalare, insieme a “Where does the money go”, un brano insolitamente vicino al raggae, che chiude il disco lasciando una sensazione di sorpresa e stupore nell’ascoltatore.
Raffaella Sbrescia
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Queste le date in corso del tour “Mario Biondi Live 2015” (prodotto e organizzato da F&P Group):
Il 22 maggio a Bari (Teatro Team)
Il 24 maggio a Palermo (Teatro Politeama)
Il 25 maggio a Catania (Teatro Metropolitan)
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Dopo i concerti in Italia, l’ormai consolidato successo internazionale di Mario Biondi porterà l’artista in tour anche in Europa e in Asia. Queste le prime date confermate: il 27 maggio a Londra (Regno Unito), il 28 maggio a Vienna (Austria), il 30 maggio ad Amburgo (Germania), il 31 maggio a Zurigo (Svizzera), il 2 giugno ad Amsterdam (Olanda), il 6 giugno a Baku (Azerbaigian), l’8 giugno a Mosca (Russia), il 10 giugno a Bruxelles (Belgio) e l’11 giugno a Parigi (Francia).
“On stage” con Mario Biondi: Alessandro Lugli alla batteria, Federico Malaman al basso, Massimo Greco alle tastiere e programmazione, David Florio alle chitarre, Marco Scipione al sax, Fabio Buonarota alla tromba e Romina e Miriam Lunari, cori, danze e coreografie.
Photogallery a cura di: Roberta Gioberti. Foto realizzate durante il concerto tenutosi lo scorso 20 maggio 2015, presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
Mario Biondi live @ Auditorium Parco della Musica ph Roberta Gioberti
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