Un tour attesissimo, quello dei Simple Minds in Italia. E attesissimo il concerto di Roma, penultimo del tour.
A distanza di quattro anni, uno dei gruppi che hanno segnato la storia musicale degli anni ’80 torna a esibirsi in Italia. Un tour purtroppo in ritardo sui tempi a causa delle ben note vicende sanitarie che hanno coinvolto il mondo intero, causandone il rallentamento in termini di attività, e anche parecchi cambiamenti epocali. Ma di questi cambiamenti epocali, ieri sera il pubblico romano per un paio d’ore ha perso memoria.
Fa caldo e nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, almeno tre generazioni attendono impazienti di scoprire cosa accadrà su quel palco. E, alle prime note di Act of Love risulta immediatamente chiaro: un salto di 40 anni indietro nel tempo.
Il gruppo, formato in Scozia a Glasgow da Jim Kerr e dal chitarrista Charlie Burchill, ha una caratteristica non comune: non ha mai ceduto al trasformismo. Nel corso di una lunga carriera fatta di successi internazionali, ha sempre mantenuto tanto in termini di contenuti quanto di sonorità, una linea coerente che non delude e non stanca: un evergreen. Quando si affacciarono alle soglie del successo internazionale, i Simple Minds rappresentarono per un’intera generazione una sorta di punto di svolta sotto il profilo dell’interpretazione musicale: poter portare sulla scena contenuti importanti, alleggerendoli grazie a un sound decisamente pop, ma altrettanto sofisticato.
Un sound caratterizzato dalla valenza compositiva di Burchill, e dall’estro interpretativo di Jim Kerr, che a distanza di tanto tempo è rimasto intatto. Generoso, empatico, Kerr entra immediatamente in contatto con il pubblico, scendendo dal palco e cantando tra la folla in delirio: un concedersi preannunciato dalla frase “Roma, è da tanto che manchiamo, non ci risparmieremo”.
Prende così vita uno spettacolo coinvolgente e intenso che ripercorre buona parte dei brani di successo della band: Colours Fly and Catherine Wheel, Waterfront , Book of Brilliant Things , Mandela Day, First You Jump, She’s a River, Let There Be Love, si susseguono a ritmo incalzante, incoraggiando cori e danze sottopalco, in origine non previste, ma assolutamente inevitabili.
Ne è passato di tempo da quel 15 marzo del 1983, quando, al teatro Lido di Roma, che li ha visti spesso protagonisti, proposero un nuovo sogno dorato a un pubblico che, in buona parte, era presente anche ieri sera: tuttavia sembra proprio di essere tornati a quel concerto a quella dimensione, a quegli anni, così diversi da quelli che stiamo vivendo oggi.
Il momento di maggiore intensità si ha sui nove minuti di Don’t You (Forget About Me), con un coro ininterrotto del pubblico di ben quattro minuti, durante il quale Kerr gigioneggia, gioca, dirige, fa scemare le voci, per riportarle ad un’esplosione finale che è una sferzata di energia incontenibile.
Quasi due ore di entusiasmo euforico, nessuna retorica verbale, nessun accenno o presa di posizione politica relativa alle attuali vicende, solo musica, come è nel loro stile. Un sentito Mandela Day, considerato anche il fatto che il giorno successivo, 18 luglio, è il compleanno di Nelson Mandela, e un finale Sanctify yourself, sanctify, che sintetizza tutto: liberati, è l’amore ciò di cui hai bisogno.
E mai come in questo momento questo vecchio brano conosciuto in tutto il mondo ci indica la strada per ritrovare un equilibrio e una serenità che vacillano.
Se la musica ha un potere catartico, sicuramente il concerto dei Simple Minds di ieri sera lo ha dimostrato.
Roberta Gioberti