Musicista, compositore, produttore e arrangiatore, Piero Fabrizi è attivo nel panorama musicale italiano sin dal 1980. Dopo aver prodotto, nell’arco di 23 anni, 14 album e due DVD della cantante romana Fiorella Mannoia, nel 2002 Piero Fabrizi ha fondato l’etichetta discografica indipendente Brave Art Records, con la quale realizza progetti dedicati alla musica strumentale. Lo scorso settembre il chitarrista e produttore romano ha deciso di pubblicare “Primula” (un album d’esordio arrivato dopo una lunga carriera e oltre cento dischi), per raccontarsi senza limiti. In questa intervista, l’artista si è raccontato a 360 gradi dedicando un ampio approfondimento non solo a questo lavoro ricco di prestigiose collaborazioni, ma anche alla situazione generale del contesto musicale contemporaneo, offrendo numerosi spunti di riflessione.
Nel corso della tua carriera, iniziata nel 1980, hai ricoperto il ruolo di produttore, chitarrista, autore lavorando alla realizzazione di più di cento album. Quale di queste vesti senti più tua e perché? Come cambia il tuo ruolo a seconda della funzione che svolgi?
Mi sento soprattutto un musicista, la produzione è uno dei lati del mio fare musica, forse il più coinvolgente lavorativamente parlando, molto simile al ruolo di un regista nel cinema, una figura di riferimento che può realmente affiancare un’artista dall’inizio alla fine di un progetto, una figura importante in America o in Inghilterra, in Brasile perfino…un po’ meno da noi, dove il produttore è visto come colui che realizza un disco e lo consegna all’artista o alla casa discografica. In realtà, a mio avviso, non è questa la funzione fondamentale del produttore. La produzione parte a monte, con la scelta delle canzoni, interpretando al meglio l’orientamento dell’artista, aiutandolo il più delle volte a cercare il percorso ideale per esprimersi al meglio, attraverso le canzoni migliori, con quel filo di distacco che l’artista non potrebbe mantenere fino in fondo, nei confronti del proprio materiale. Il produttore è il vero alter ego dell’artista, colui che vede oltre e coadiuva nelle scelte importanti, con chiarezza e determinazione, fuori da ogni logica che non sia prettamente artistica. In tutto questo, il suonare, comporre e arrangiare, diventano elementi indispensabili per comunicare con il giusto linguaggio e per veicolare al meglio l’emozione trasmessa dall’artista nelle sue interpretazioni. Il rispetto della personalità artistica, unito al senso critico, alla creatività e ad una visione d’insieme, fanno di un musicista, chitarrista e autore… un buon produttore.
Hai lavorato per tantissimi anni con Fiorella Mannoia… ci racconti come hai vissuto questa speciale sintonia artistica con lei e come l’avete alimentata nel corso degli anni?
Lavorare per oltre 23 anni con Fiorella Mannoia è stato relativamente facile perché ci ha uniti la profonda passione e l’altrettanta sintonia, su tutto ciò che abbiamo deciso di fare, ma soprattutto, direi, la stima reciproca, che sancisce sempre le unioni creative e umane. L’essere due persone molto diverse – ma con grandi affinità – ha sicuramente arricchito ed alimentato per molto tempo il nostro rapport rendendolo molto speciale.
Nel tuo album d’esordio hai racchiuso i tuoi riferimenti musicali, i tuoi sogni di una vita e gli hai dato forma insieme ad alcuni nomi di spicco della scena musicale internazionale come Chico Cèsar, Tony Levin, Jacques Morelenbaum, Morneo Veloso, David Binney, Mauro Pagani, Maurizio Giammarco… Quando e perché ti è venuta voglia di lavorare ad un progetto tuo? Qual è stato l’elemento scatenante e quali sono le storie, i messaggi e le prospettive di questo lavoro così eterogeneo?
Era da tempo che sentivo l’esigenza di avventurarmi in qualcosa di personale e specifico come la progettazione di un mio album. In verità la musica ha preso il sopravvento sulla razionalità, nel senso che ho iniziato a registrare un paio di brani che avevo provato insieme al mio caro amico e mirabile batterista Elio Rivagli. Abbiamo improntato un ensemble molto scarno: chitarra elettrica, batteria acustica e percussioni elettroniche per appuntare delle idee ritmiche. Da lì a breve ci siamo ritrovati in studio con Dario Deidda al basso elettrico per registrare la prima traccia dell’album che dà il titolo a tutto il lavoro: “Primula”. Sono molti i momenti da ricordare, legati alle registrazioni del disco: ho ripreso gran parte delle sessioni in studio e vorrei riuscire a farne una sorta di “making of”, cosa sempre interessante dal punto di vista dell’ascoltatore che, in questo modo, può avere la possibilità di cogliere una maggiore “umanizzazione” dell’importante, (ma a volte oscuro) lavoro svolto in studio di registrazione. Non ci sono messaggi in questo mio lavoro, direi, piuttosto un pensiero costante: fare musica in piena libertà. Questo è il vero e unico intento, che io, insieme ai musicisti che hanno partecipato alle registrazioni, abbiamo perseguito fino in fondo. Ora c’è la voglia di portare questo progetto ambizioso fuori dallo studio, suonare dal vivo è il mio vero obiettivo, il più naturale e consequenziale, certo, ma anche il più gratificante.
Non solo musica ma anche solidarietà, con questo album sostieni la Onlus fondata da Barbara Olivi “Il sorriso dei miei bimbi”. Di cosa si occupa questo ente e in che modo il tuo album intende sostenerne i progetti?
Il lavoro svolto da Barbara Olivi e dagli altri volontari è proteso soprattutto alla scolarizzazione dei bambini (ma anche dei più adulti) in una realtà molto dura qual è la favela di Rocinha a Rio de Janeiro, (la più grande favela di tutto il Sud America), dove il degrado è visibile e tangibile ad ogni angolo, e dove i ragazzi vengono continuamente a contatto con tutto ciò che di più dannoso e deleterio si possa immaginare in un “inter regno” costituito e gestito da spacciatori senza scrupoli, armati fino ai denti, impegnati in continue lotte intestine, feroci e sanguinose, per il controllo del territorio della favela. L’associazione di Barbara e compagni, garantisce per alcune ore giornaliere un cuscinetto ideale, per poter dare spazio e aree di pace e di aggregazione, gestite da insegnanti qualificati e psicologi, i quali si preoccupano del benessere dei bambini/ragazzi che aderiscono al progetto. Oltre alla scuola, ci sono corsi di danza, uso del computer, ginnastica e perfino un corso di botanica. La Onlus è una realtà che va sostenuta e difesa, questi volontari hanno cuore e coraggio da vendere!
Tu sei il fondatore della “Brave Art Records”, un’etichetta che si dedica alla musica strumentale. Come ti muovi all’interno del contesto contemporaneo italiano? Quali sono i filoni che ritieni interessanti? Cosa dovremmo assolutamente ascoltare in questo periodo secondo te?
Il contesto contemporaneo in Italia non consente ottimismi di nessun genere, resiste la passione e la caparbietà di molti di noi che, nonostante la totale assenza di un vero mercato discografico, continuano a pensare alla musica come un’idea più alta, un modo di pensare e di vivere che coinvolge e accomuna. Ritengo che tutto sia cambiato radicalmente con l’avvento di internet e della rete, si deve convivere con una maggiore promiscuità musicale e un minore talento creativo, c’è molta più offerta che richiesta di musica, ci sono molti più performers che compositori, i veri artisti sono addirittura difficili da scovare, dietro questa cortina fumogena formata da orde di prodotti e sottoprodotti musicali…difficile, orientarsi (da parte del consumatore) verso un prodotto qualitativamente alto. Gli stessi format televisivi (X-factor, The voice, ecc..) sono, a mio avviso, fuorvianti ed inefficaci, se pensati con la prospettiva di far ripartire un settore, ormai in caduta libera. Ci vorrebbe onestà e rigore per riuscire a ridare valore e vigore alla musica italiana. La mia etichetta Brave Art Records, così come anche la Route 61 music, si impegnano a cercare di dare voce alle cose di qualità, qualunque sia la direzione e la tendenza espressa nei dischi prodotti, che vengono scelti esclusivamente sulla base di una proposta qualitativa alta. Se posso consigliare l’ascolto di un disco italiano, consiglierei sicuramente il disco di Tosca – “Il suono della voce”, un lavoro di grande classe, che alza di netto il livello degli album usciti in questo 2014 in Italia.
Come nasce il passionale intreccio di corde e di pelli vibranti de “La Mirada del Che”? ( Bellissimo il solo di Mauro Pagani al violino… intenso, drammatico e straziante!)
Il brano mi è stato ispirato dalla lettura di una bella biografia di Ernesto Che Guevara, scritta dal francese Pierre Kalfon. Mi hanno colpito soprattutto gli appunti personali del Che e la drammatica imboscata che gli fu fatale a la Higuera in Bolivia, il pezzo vuole descrivere emozionalmente l’atto conclusivo della vita di Guevara. Il bellissimo solo di Mauro Pagani credo racchiuda in sè tutta la drammaticità e la tensione di quel momento, trovo che l’intervento di Mauro sia davvero eccezionale, egli è riuscito ad interpretare alla perfezione l’andamento e l’intensità del brano. Lo considero un generoso regalo, fattomi da uno dei migliori musicisti italiani.
E la dedica ai “Meninos da rua” in “Clandestino”?
Questo è un brano che da sempre avrei voluto tradurre e riarrangiare e l’occasione di poterlo realizzare su un mio disco non poteva andare sprecata. Chico Cèsar ha scritto questo pezzo venti anni fa, e oggi più che mai, le sue note e le sue parole risuonano attuali, inneggiando al senso di libertà e fratellanza che lega e unisce questi figli della strada. Chi ha visto e conosce questa dura realtà brasiliana può apprezzare ancora meglio il senso di questa canzone, che è al contempo dura denuncia e accattivante filastrocca. Quando mandai a Chico la mia versione, lui mi scrisse subito, proponendomi di cantare il pezzo insieme a lui, inutile dire che questa collaborazione è motivo di grande orgoglio per me.
La title track rappresenta davvero il punto di partenza di questo tuo progetto?
Si, “Primula” è stato il primo pezzo registrato (con Elio Rivalgi alla Batteria e Dario Deidda al Basso elettrico) e da qui il titolo emblematico del brano. Qualcosa che nasce in maniera spontanea e inattesa.
Come hai scoperto la meravigliosa voce di Elsa Lisa, che hai poi inserito in “Buzet Me Ishin Thare” ed in “Qan Lu Lja per Lulen”? Di cosa parlano questi brani così delicati e magici?
Elsa Lila è una cantante albanese di grande talento, ritengo che la sua voce sia oggettivamente una delle più belle al mondo. Il suo timbro è unico e la sua vocalità riesce a toccare corde emozionali profonde, con eleganza e sobrietà. Quelle cantate da Elsa, sono due canzoni d’amore…”Quan lulia per lulen” è un canto popolare, il cui titolo tradotto dall’albanese è: “Piange il fiore per il fiore”, ovvero il canto di addio di un padre ad una figlia che va in sposa ad un giovane, il quale la porterà via per sempre dalla casa dei genitori, dai suoi affetti, dalla sua infanzia. Il pezzo è stato totalmente rielaborato e riarrangiato da Elsa Lila e da me per cercare di realizzarne una versione più internazionale, meno legata alla scrittura tradizionale del brano. Melodicamente e armonicamente la nostra versione è molto diversa dall’originale. Questo, comunque, è, in assoluto, uno dei miei pezzi preferiti dell’album.
L’estrema varietà del disco è confermata dalla presenza di “Uncle Frank”, il tuo tributo a Frank Zappa, dalla scelta di chiamare dei musicisti brasiliani ad interpretare “Kashmir”, dall’autentico blues di “Jff”…cosa ti ha spinto ad agire con tutta questa libertà?
La naturale propensione a fare soltanto ciò che mi piace è stata la vera costante che ha pervaso le registrazioni dell’intero album. Ho sempre pensato al fatto che ci fossero troppi luoghi comuni da sfatare (ad esempio) riguardo ai musicisti brasiliani. Ho voluto dimostrare che una band composta all’80% da musicisti brasiliani, potesse suonare in modo magistrale un classico del rock come “Kashmir”. Joao Viana (figlio di Djavan) è un batterista rock eccezionale e Jaques Morelenbaum, si è prestato a sottolineare i riff storici del brano con il suo violoncello. Il mio tributo a Zappa è nato dal cuore; la sua musica mi ha sempre affascinato. “Uncle Frank” è una dichiarazione d’amore dedicata al genio iconoclasta del rock. L’arrangiamento dei fiati, ad opera di Maurizio Giammarco, è in perfetto stile zappiano mentre il solo al violoncello, suonato da Jaques Morelenbaum, è una vera perla.
Il brano conclusivo del disco è “Now that you’re gone” un brano che hai scritto pensando a Michael Mc Donald. Se avessi la possibilità di incontrarlo come gli descriveresti questa canzone?
Si tratta di una canzone d’amore molto semplice. La musica non si descrive, si suona e si ascolta! Oltre la morbida voce soul di Lily Latuheru, c’è il notevole apporto sonoro di Tony Levin che sorregge con il suo riff di basso l’intero brano, insieme ad Elio Rivagli alla batteria. Gli archi dal malinconico sapore retrò – scritti e diretti da Maurizio Abeni – rappresentano l’ideale chiusura di questo viaggio personale, attraverso musiche e stili diversi.
Quali saranno i progetti collegati a questo nuovo album e quali, invece, quelli inerenti alla tua carriera da musicista e produttore?
Ho intenzione di fare una serie di concerti per portare dal vivo la musica di “Primula”. Parallelamente ho un paio di progetti, molto interessanti, da produrre nel corso dei prossimi mesi; si tratta di due cose molto diverse tra loro ma entrambe di grande spessore.