Esce su etichetta Sugar, “Semplice”, il nuovo album di Motta. Un disco che fin dalla traccia di apertura palesa l’ urgenza di Motta di crescere sia come persona, sia come artista, semplicemente accettandosi e riappacificandosi con le proprie contraddizioni attraverso un processo di semplificazione e di ritorno alle cose semplici. Per il suo nuovo disco Motta riparte dall’attenzione nei confronti delle piccole cose, dall’importanza di ogni attimo vissuto, dalla quotidianità in quanto dimensione che sfugge, ma sempre presente e fondamentale per quel che sarà. Il suo volto non compare in copertina: siamo a una sintesi che è in sé una nuova fase in cui l’autore compie un passo indietro per lasciare che a parlare siano le canzoni, parole e musica che cogliendo stati d’animo, emozioni, immagini fugaci, più che raccontare una storia tratteggiano un’interiorità che dialoga con se stessa e riflette sulle proprie incongruenze per accoglierle in un abbraccio.
Musicalmente “Semplice”, prodotto dallo stesso Motta, nel suo studio di Roma, insieme a Taketo Gohara, è un disco suonato, energico e potente dietro al quale c’è stato un grande lavoro di produzione volto ad ottenere un suono stratificato, pieno e di respiro internazionale, con una grande cura per i dettagli e un modo originale di arrangiare attraverso gli archi curati da Carmine Iuvone.. Una produzione articolata nella quale emerge chiara, semplice ed in primo piano, la voce e che, rispetto ai due lavori precedenti, rispecchia la volontà di avvicinare sound e arrangiamenti alla dimensione live intesa come fondante. Tra i musicisti coinvolti, molto presenti nella registrazione, il percussionista brasiliano Mauro Refosco (David Byrne , Red Hot Chili Peppers, Atom For Peace,…) e il bassista Bobby Wooten (David Byrne) che han lavorato con Motta da remoto da New York.
Ecco cosa ci ha raccontato Motta in occasione della presentazione del disco:
“Semplice” è un lavoro iniziato a partire da 3 anni fa. Ci sono alcune canzoni che ho scritto mentre stavo scrivendo “Dov’è l’Italia”. Per la prima volta ho avuto tanto tempo per stare dietro a queste canzoni. Ci sono brani nati prima della pandemia che non hanno proprio retto il colpo. “Qualcosa di normale”, invece, pur essendo nata prima della pandemia, ha acquisito importanza con le vicende che sono successe dopo. Altre canzoni non ce l’hanno fatta non perché non fossero legate alla realtà ma perché c’è stato un acceleratore che mi ha portato a vedere e a scremare gli errori.
A gennaio 2020 sono andato a New York a vedere un concerto di David Byrne, l’ultimo suo progetto è stato una cosa incredibile. L’ ho reincontrato Mauro Refosco con cui avevo lavorato in “Vivere o morire”. Mi ero ripromesso di fare una jam session in studio con lui e Bobby Wooten.
Questo non è successo ma ha portato a un’organizzazione del disco di cui sono particolarmente contento. Con Mauro alla fine ho lavorato a distanza ma su tutte le canzoni, ci sono produzioni di elettronica e abbiamo avuto tempo di lavorare con il violoncellista Carmine Iuvone. Una delle prima cose che avevo in mente era proprio trovare un modo di concepire gli archi in un modo diverso da quanto fatto prima. Nel live del tour con Les Filles de Illighadad ci siamo trovati a fare rock con il violoncello, per questo abbiamo creato un modo di interagire che in questo disco ho voluto sviluppare con tutto il quartetto. Sugli arrangiamenti c’è stato tantissimo tempo dedicato, l’anno scorso ho sentito la mancanza delle persone e quindi, mentre su “Vivere o morire” mi sono sforzato per creare una situazione di vertigine, l’anno scorso la vertigine era dovuta non solo a quello che stava succedendo ma nel mio mettermi in gioco. Il lavoro in studio con la band è stato un punto focale rispetto al lavoro precedente. In questo lavoro le canzoni dal vivo e su disco si avvicinano molto ma non è un risultato facile da ottenere.
Sulla scrittura dell’album mi ha dato una mano Gino Pacifico. Per la prima volta ho continuato a lavorare con delle persone con cui avevo già lavorato, come è successo anche con Taketo Gohara. Questo ha creato una sensazione di divertimento nel fare musica da parte mia. Guardami intorno, a sto giro, non potevo davvero lamentarmi. Mi sono reso conto che sono fortunato a fare questo mestiere, a prescindere dalle pacche sulle spalle e dai live che per me sono dei festeggiamenti.
La verità è che ho fatto questo disco per me. Cito volentieri Colle Der Fomento: “Io faccio il mio e non lo faccio ne pe loro ne pe l’oro. Lo faccio solamente perché sinno me moro”. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono chiesto perché faccio questo mestiere, ho vissuto per qualche mese in campagna e caitava che passavo davanti alla mia chitarra e a volte mi dava pure noia. Ho lavorato su me stesso, c’è stata una fase in cui non riuscivo più a stare in città perché stava diventando lo specchio di quello che non potevo fare. Io e mia moglie Carolina abbiamo vissuto dei mesi in campagna e mi sono fatto questo grande regalo di fare un percorso personale che sicuramente mi servirà. L’anno scorso ho sentito l’urgenza di far sì che ci fossero dei bei ricordi e non è stato facile. Ascoltavo poca musica nuova in quanto dal momento in cui ascolti una canzone, quella ti creerà un ricordo che ti poterai dietro. Ho quindi ascoltato musica fino al’75, a parte di il nuovo di Paul Mc Cartney, il disco di Bianconi. Per questi artisti è stato faticoso far uscire queste canzoni. L’ascoltatore era impaurito dal creare un ricordo. Per questo ho cercato queste cose altrove, solo piano piano sono tornato a riprendere il disco e a tornare con lucidità a concluderlo in un nuovo modo
Ecco perché in questo disco c’è un racconto a prescindere dal fatto che l’ascolteranno in quattro, per me è importante che ci sia un racconto. Un po’ come quando metti insieme la scaletta dei concerti: è fondamentale come inizia e come finisce. La conclusione del disco è molto nera, quello tribale è un mondo che sto esplorando e mi piace pensare che il prossimo disco ripartirà da lì. Sono veramente convinto che una traccia strumentale possa avere un racconto. “Quando guardiamo una rosa” l’ho scritta insieme a Dario Brunori con cui mi sono trovato benissimo. Siamo amici ma non avevamo mai lavorato insieme. Avevo il sogno di trovare un altro punto di vista. Dal mio canto sentivo l’urgenza di raccontare un periodo nero collettivo. Ho pensato che forse non c’erano le parole giuste per raccontarlo, perciò ho preferito il suono prendendo come esempio il Bolero di Ravel.
“Semplice” è nato come un cercare di arrivare all’essenziale ma non è minimale,anzi è molto corposo. La cosa più difficile da fare è stata andare ad eliminare il superfluo, cercare di concentrarsi sulle cose importanti. Questo lavoro alla fine mi ha fatto sentire contento del risultato ottenuto. Ci sono tante canzoni in cui accetto di dire che va tutto bene e non me ne vergogno. Sono molto attaccato alla cose che mi fanno stare bene, non sono tantissime ma ho finalmente capito quali sono.
Nel brano “Qualcosa di normale” canto con mia sorella Alice. Volevo che ci fosse accanto a me una persona scelta nel profondo. Questa cosa implica che a seconda di come e con chi canti, i significanti cambiano significato. La canzone ha cambiato volto e significato cantandola con lei.
Al titolo del disco, invece, sono arrivato alla fine. Mi sono accorto che la semplicità era il focus. Mi sono letto le lezioni di Calvino sulla leggerezza e ho capito che quello che ho sempre cercato di dire è che la leggerezza è una conquista, non un punto di partenza. Rispetto alle altre volte, sono partito concentrandomi sugli arrangiamenti e sulla musica. I testi sono stati faticosi come al solito ma mi sono sentito più libero nel processo. Prima avevo molta paura di fermarmi, nei due lavori precedenti c’era paura del tempo, ero legato al passato e mi giudicavo molto. Non capivo perché esistevano tante contraddizioni nelle cose che avevo fatto, adesso invece per la prima volta le accetto. Nel momento in cui rimani fermo a pensare, riesci a realizzare come stai, durante questo processo mi sono preso un momento per immaginarmi un futuro, per capire dove volessi andare, per accettare di essere presente in una città. Prima mettevo sempre la provincia nelle canzoni, mi sono accorto che Trastevere ha tante cose in comune con Pisa e finalmente ho preso coscienza del fatto che Roma sia la mia città. Prima c’era la sensazione di essere stato adottato, ad un certo punto, dopo dieci anni, mi sono resto conto che questa è la mia città. Non sono molto attaccato alla Toscana, anche nel brano “Qualcosa di normale” mai avrei pensato di usare la parola sanpietrini. In questo ha inciso avere uno studio di registrazione a Trastevere. In Via Ettore Giovenale avevo uno studio molto piccolo e tante percussioni, poi c’è stato il passaggio a Torpignattara. Ora questo studio mi ha permesso di dividere meglio la vita personale da quella artistica e riesco a far pesare di meno al mondo che mi circonda il fatto che io stia scrivendo un disco. Da questo punto di vista sono migliorato, più sopportabile e credo che anche musicalmente si senta molto che ci sia un luogo esterno che è diventato il mio centro focale.
Video: E poi finisco per amarti
Pensando al discorso dei live, egoisticamente dico che tutto ripartirà da noi, mi guarderò a destra e a sinistra, vedrò la mia band e tutto partirà da un sorriso. Questo non significa che ci si debba nascondere per forza dietro a un sorriso, penserò tanto alle persone che hanno lavorato con me e non avranno la fortuna di salire sul palco perché fanno un altro mestiere. Mi sento fortunato perciò farò un sorriso a metà, è tanto tempo che non vedo la gente, deve partire tutto da un grande senso di responsabilità. Le condizioni sono quelle che sono, ci saranno posti limitati ma ho deciso che andrò a presentare il disco con la band a prescindere. Non è stato facile mettere insieme il tour con tutta una produzione, magari non ci saranno tante luci ma era importante andare in giro con i musicisti. Avere iniziato a 18 anni e non avere posti per suonare, suonando per strada e cercare di avere sempre un modo di fare questo mestiere a ogni costo, mi ha aiutato. Non sarà facile ma senza il palco, muoio; quindi ci sarò.
Raffaella Sbrescia
Motta tornerà questa estate dal vivo con un tour estivo a supporto del nuovo lavoro discografico. I primi due concerti, annunciati oggi, faranno parte del tour estivo e saranno il 21 luglio a MILANO al CARROPONTE e il 10 settembre a ROMA all’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA. Organizzato da Locusta Booking, i biglietti per i concerti sono disponibili in prevendita da oggi su www.mottasonoio.com.
Questa la tracklist del disco:
A te
E poi finisco per amarti
Via della Luce
Qualcosa di Normale
Quello che non so di te
Semplice
Le regole del gioco
L’estate d’autunno
Dall’altra parte del tempo
Quando guardiamo una rosa