Abituato ad ammaliare il pubblico sui palchi di tutta Italia, Fabrizio Bosso è uno dei trombettisti italiani più amati dal panorama musicale internazionale. In occasione della pubblicazione del suo ultimo album “Duke” , omaggio al grande Ellington, l’abbiamo intervistato per conoscere più a fondo una personalità artistica così vivace e così ricca di spunti.
Il tuo ultimo album “Duke”, pubblicato lo scorso 26 maggio, nasce da un preciso input: la rinascita dello swing…
L’idea è partita dal Festival Jazz di Roma di un anno fa. Mi fu proposto di mettere su un progetto ad hoc pensando al tema dello swing e da lì è partita l’idea di fare un tributo a Duke Ellington, uno dei più importanti compositori del ‘900. Già da piccolo ascoltavo i suoi dischi ed è quindi uno degli autori che ho assimilato meglio. Suono spesso suoi brani e durante i miei concerti “In a sentimental Mood” è nei bis.
Come hai lavorato con Paolo Silvestri per gli arrangiamenti?
L’idea di allargare l’organico viene dal presupposto che non avevo mai fatto qualcosa con i fiati. Ne parlavo da un po’ con Paolo Silvestri, ho scelto la musica che avevo voglia di suonare, i brani che sentivo più vicini a me, li ho proposti a Paolo e lui ha iniziato a lavorarci senza che dovessi dirgli praticamente nulla. Sono molto felice del risultato perché Paolo è riuscito a mettere a proprio agio tutti i musicisti e a valorizzare il loro contributo.
Perchè “In a sentimental Mood” suscita in te particolare emozione? E’ vero che se avessi avuto occasione di suonare insieme al “Duca” ti sarebbe piaciuto suonare proprio questo brano?
Si tratta di una melodia così forte che, ogni volta che la suono, a prescindere dalla location in cui trovo, mi emoziono. Sento che questo brano arriva in maniera diretta alle persone e penso che questa sia la forza dei grandi. Riuscire a comunicare così tanto con della musica strumentale è una cosa incredibile. Tra l’altro quando ho proposto a Paolo Silvestri di riarrangiare questo brano, lui era un po’ terrorizzato all’idea di dover andare a toccare della musica praticamente perfetta, invece io penso che sia riuscito a darci modo di esprimerci al meglio.
Per suonare la tromba ad un certo livello c’è bisogno di orecchio, studio, emissione, muscolatura, respirazione e… cos’altro?
Tanta pazienza! La tromba è uno strumento lento! Prima di riuscire a fare qualcosa di accettabile o di piacevole all’ascolto ci vuole un bel po’. Chiaramente anche la predisposizione ed il talento incidono molto però non si tratta di uno strumento immediato. Un’altra cosa fondamentale è la continuità: se stai una settimana senza suonare, quando riprendi lo strumento in mano non suonerai certamente come prima; i muscoli facciali si indeboliscono, il diaframma lavora meno bene per cui dopo due o tre giorni qualcosa la si deve fare…
La tua ricerca del suono è ancora un alternarsi di amore e odio?
Penso che sarà così per sempre! E’difficile che si possa essere appagati dal proprio suono, è importante cercarlo sempre, ascoltare altri suoni, lasciarsi ispirare da altre cose. Ci sono giorni in cui magari ci si sente più vicini al suono ideale, altri in cui ci si allontana molto.
La tua matrice è jazz ma porti il tuo linguaggio in tanti generi e contesti. Come hai acquisito questo tipo di versatilità e come cambia di volta in volta il tuo approccio allo strumento?
È stato tutto abbastanza naturale perchè, pur essendo cresciuto con il jazz, ascoltavo anche Mina, Ornella Vanoni, Fabio Concato e tutti i grandi cantautori. Forse l’unico genere musicale che mi sono un po’ perso è il rock, magari perchè non mi ha mai veramente appassionato e non l’ho mai approfondito. Alla prima occasione di collaborazione con un cantautore, il primo è stato Sergio Cammariere, è stato subito tutto molto naturale. Mi veniva da ridere quando mi veniva chiesto se i jazzisti puristi potessero giudicarmi per questo tipo di collaborazioni. Io sono un musicista e penso sia importante valutare la qualità delle cose, preferisco fare un bel concerto pop piuttosto che fare un brutto concerto jazz.
Qual è la formula della miscela musicale che hai creato con Julian Oliver Mazzariello?
Io e Julian abbiamo un background comune; anche lui è un jazzista appassionato di vari generi musicali, ha studiato bene la tecnica del pianoforte quindi cerca di sfruttare il più possibile tutto il range del suo strumento e questa cosa si sente quando suoniamo insieme. Riusciamo entrambi ad utilizzare tutte le dinamiche dei nostri strumenti, proponiamo musica da film, brani italiani, standard jazz, brani inediti. Quando abbiamo messo su il duo non ci siamo preoccupati di quale direzione intraprendere, abbiamo deciso soltanto di suonare la musica che ci facesse stare bene e che ci divertisse.
E’ vero che ti sei fatto costruire una nuova tromba?
Il cambio degli strumenti testimonia un po’ l’irrequietezza che contraddistingue noi musicisti. A volte cerchiamo un certo tipo di suono, altre volte siamo solo stanchi e con poche idee. La scusa dello strumento, a volte può sembrare un po’ stupida però magari racchiude un reale stimolo. Un suono leggermente diverso o anche una forma diversa possono aiutarci a superare piccoli momenti di crisi. In questo periodo sto usando uno strumento artigianale che fanno vicino a Milano, il suono che esso produce mi appaga e mi fa avvicinare un po’ a quello che ho in testa però la ricerca dello strumento perfetto non avrà mai fine…
Lo sanno ormai tutti: hai iniziato a suonare con tuo padre, è stato il tuo primo modello e ancora oggi suonate insieme…
Sì, ogni tanto vado a suonare in qualità di ospite nella Big Band in cui sono cresciuto e dove ho iniziato a suonare quando avevo nove-dieci anni. Ogni volta è davvero emozionante suonare con un gruppo in cui si vede una fortissima passione per la musica e lo faccio sempre molto volentieri.
Ti piacerebbe che anche tuo figlio suonasse un giorno?
L’importante è che lui ami la musica e l’arte in generale; se vorrà fare qualcosa seriamente, io lo appoggerò però di sicuro non lo forzerò mai! Dovrà essere lui ad avere veramente questo desiderio.
Se a qualcuno venisse l’idea di lanciare un talent show per musicisti, che cosa ne penseresti?
Sarebbe carino, perché no! A me la cosa che non piace sono le liti, trovo che ci sia una dispersione inutile di energia. Sarebbe bello fare vedere ai giovani quanto impegno serve per arrivare a raggiungere un traguardo e imparare a suonare per bene. Se abituiamo il pubblico a dei contenuti seri e importanti, penso non ci sia neanche bisogno di tutto il resto per fare audience.
Sei direttore artistico del Festival Note d’Autore.Con quale spirito hai vissuto l’edizione di quest’anno?
L’obiettivo è sempre quello di portare un po’ di buona musica a Piossasco coinvolgendo anche gente che viene da altrove. L’idea è quella di dare la possibilità a giovani musicisti di stare sul palco con artisti più importanti e farsi conoscere da un pubblico più vasto. La finalità generale è quella di far respirare musica tutto il giorno per tre giorni.
Nell’ambito del Progetto Etiopia Onlus Lanciano, hai partecipato all’inaugurazione di una scuola in una località a pochi chilometri di distanza da Addis Abeba…che ricordi hai delle tue esperienze africane?
Ho molta voglia di tornare in quei luoghi, lo farò presto! Questo è un tipo di emozione che va al di là della musica, quando arrivi in questi posti e vedi com’è la situazione, la dignità e la voglia di vivere di queste persone ti fa riflettere sui valori della vita. Presto andremo anche ad inaugurare un acquedotto, anche questo frutto del lavoro della Onlus di Lanciano e già penso all’emozione che troverò negli occhi dei bambini e dei capo villaggi che, non hanno niente, ma che sembra abbiano tutto.
Sei molto seguito anche in Giappone…come cambia il tuo approccio sul palco e con il pubblico?
Quando suono penso prima di tutto a creare la giusta sinergia sul palco con i miei musicisti per arrivare al cuore degli spettatori. I Giapponesi sono un pochino più riservati ma se riesci a coinvolgerli possono diventare anche caciaroni. La cosa bella di lavorare lì è che funziona tutto alla perfezione, puoi pensare davvero a fare solo il musicista senza magari doverti mettere a fare il fonico come accade ogni tanto dalle nostre parti. Lì arrivi e suoni. Un’altra cosa che mi sorprende che è che sei giapponesi sono tuoi fan, ti mettono allo stesso livello di qualsiasi altra star.
Che cosa suoneresti se avessi la possibilità di incontrare Stevie Wonder?
Certamente “Overjoy”…
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Quando viaggio ascolto spesso musica brasiliana, mi piace molto Nana Caymmi e, in particolare, “Sangre de mi alma”. Il suo timbro mi fa stare bene, il suo modo di cantare, malinconico e speranzoso al contempo, mi avvolge.
Cosa ci racconti del progetto “Shadows. Le memorie perdute di Chet Beker” con Massimo Popolizio?
Si tratta di una sintesi di”Come se avessi le ali” , un libro di memorie di Chet, che va dal periodo del militare fino a poco prima che morisse. Popolizio è un grande attore e si immedesima veramente bene in questo ruolo. Abbiamo già fatto 4-5 repliche di questo spettacolo ed è andato molto bene.
C’è un progetto che prima o poi vorresti realizzare?
Ogni tanto mi torna in mente l’idea di fare un disco con dei rapper. Non ho ancora le idee molto chiare a riguardo, devo ancora capire bene se portare loro nel mio mondo o se immergermi io nel loro… Non è semplice trovare un equilibrio per creare un buon prodotto però ci proverò; jazz e rap non sono neanche tanto lontani, c’è un modo di diverso di improvvisare ma sarebbe carino fare incontrare questi due mondi musicali…
Raffaella Sbrescia