Quattro importanti appuntamenti, nella sesta giornata di Umbria Jazz.
La mattina, alle ore 12, come di consuetudine, la giornata si apre alla Galleria Nazionale dell’Umbria, con un attesissimo Daniele di Bonaventura: presenza costante nella rassegna perugina, questa volta il bandoneonista si presenta con la sua formazione, la Band’Union, con cui porta avanti da 15 anni uno dei progetti probabilmente più riusciti di contaminazione in ambito Jazz, almeno per quello che riguarda la produzione nostrana.
Il bandoneon è uno strumento che appartiene alla tradizione folkloristica più “aulica” (basti pensare che nasce come strumento di accompagnamento delle processioni sacre), e Daniele è riuscito a farne un mezzo di comunicazione espressiva assai raffinato, affrancandosi dal cliché che lo vuole legato esclusivamente al mondo del tango argentino.
L’incipit della performance, è una dedica a Mario Dondero, fotografo e fotoreporter milanese, scomparso nel 2015, politicamente impegnato, cui viene rivolto un pensiero con l’esecuzione di “Hasta Siempre” e de “El Pueblo Unido”, tratti dall’ultimo lavoro del gruppo, “Garofani Rossi. Musiche della Resistenza e delle rivoluzioni”. A conferma che il jazz tutto può, se lo vuole.
Un tocco di eleganza arriva dalla chitarra a 10 corde di Marcello Peghin, raffinato interprete di musica barocca, (importante la sua trascrizione per chitarra de “Il clavicembalo ben temperato” di J. S Bach), mentre a contribuire al brio frizzante e al divertimento della performance c’è la batteria di Alfredo Laviano, insospettabile cinquantenne, con lo spirito e la freschezza musicale di un adolescente.
Dietro tutti, spina dorsale della formazione, Felice del Gaudio e il suo contrabbasso, da poco reduce dalla prima pubblicazione da “protagonisti”, dopo aver percorso una lunga carriera al “soldo” di importanti artisti. Uno per tutti: Lucio Dalla.
La Band’Union spazia a 360 gradi nel panorama musicale, con disinvoltura e compiacimento. Fa musica all’insegna del divertimento, 15 anni di attività, 4 dischi, tutti ben riusciti.
Il risultato è un intenso feedback da parte del numeroso pubblico che affolla la sala, che esplode, alla fine dell’ora abbondante di musica, in una standing ovation, che impone il bis. Bis che accarezza i cuori in un dolce commiato con l’esecuzione di “Bella di Notte”, composizione, appunto di Felice del Gaudio.
Secondo appuntamento cui approcciamo con grande curiosità, è quello al teatro Morlacchi con Igor Butman e l’Orchestra Jazz di Mosca.
Igor Butman è indiscutibilmente il più importante sassofonista russo. Grande talento, grande energia, forte personalità, è stato da subito (sin da tempi “non sospetti”), oggetto dell’attenzione di grandi star statunitensi, come Grover Whashington e Wynton Marsalis, che lo hanno sostenuto, affinché potesse affermarsi sulla scena del Jazz internazionale. La sua Big Band si formò nel 1999, e nel 2012 è divenuta la Moscov State Jazz Orchestra. Già presente in una recente edizione di UJ, sul palco centrale di Piazza IV Novembre, quest’anno ha trionfato al Morlacchi. Componenti giovanissimi, la band ha un’età media molto bassa. Un lavoro corale di singole unità talentuose, che, a turno, danno saggio delle proprie capacità, senza mai perdere di vista però il senso unitario della band. Come lo spirito sovietico educa. Esecutori perfetti, arrivano a toccare l’anima ed il cuore della platea (che ci sarebbe piaciuta più numerosa, per la verità), con la precisione di cecchini, e fanno centro con le esecuzioni, forse un poco ruffiane, ma ci sta, di Oleg Akkuratov, giovane pianista e vocalista, che in patria è considerato, e a ragione, una star.
Sono felici di essere qui a Perugia e al Morlacchi, questi ragazzi, che alternano brani originali a standard americani, con estrema disinvoltura, omaggiando Duke, Goodman, Quincy Jones. Sembrano così distanti i tempi della guerra fredda, e commuove pensare che, quando i due blocchi si contrapponevano, era sempre la musica a scaldare i muri di ghiaccio, e a stimolare la fantasia e il talento di personaggi come Butman, che oggi possono esprimersi al meglio delle loro potenzialità. Pubblico in delirio, bis generosamente elargito, e piena soddisfazione per aver scelto di far parte della platea. Uno spettacolo davvero coinvolgente.
All’Arena, alle 21, fa l’ingresso sul palco, accompagnata da tre validi supporti, la voce potente di Somi, che crea un fil rouge tra le radici africane del blues, e il contesto del soul e del Jazz Americano. Americana di nascita, con genitori africani, raffinata e colta interprete, viene considerata una sorta di Miriam Makeba dei nostri giorni. Però qui, a farla da padrona, sono un’estensione vocale e una potenza incredibili. E’ nella vocalità assolutamente naturale, che ricorda per certi aspetti la spontaneità di Mina, tanto è evidente che non prevale l’impostazione didattica, ma il puro talento, che l’artista trova la sua forma espressiva più felice, nel raccontare al pubblico di temi d’impegno sociale e civile in cui è personalmente coinvolta. Un’ora e mezza di musica non facile, ma resa estremamente approcciabile proprio dallo straordinario talento melodico di Somi.
A seguire Benjamin Clementine, gigionesco e carismatico, nonché imprevedibile artista londinese, che, portata sul palco una scenografia particolarissima, e sicuramente teatrale, si diletta con il pubblico dell’Arena, interagendo direttamente, chiamandolo sotto palco, dialogando a ritmo serrato e scherzoso. Il pubblico ci sta, e lui improvvisa uno spettacolo, citando Pavarotti, interpretando brani originali, con sonorità che frammentano il rock, il soul, il progressive, addirittura, e ricompongono tutto un insieme da seguire con attenzione e disponibilità. Un espressionista in piena regola. Come ama, del resto, definirsi. Qualche purista storce il naso. A noi piace.
JR