Intervista a Jason Derulo: “Everything is 4″ è un album necessario

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Con oltre 45 milioni di singoli venduti in tutto il mondo, Jason Derulo è tra gli artisti di maggiore successo degli ultimi anni. Fautore di un genere musicale fresco ed accattivante, a cui molti altri artisti pop-dance si sono rifatti dopo il suo successo, Jason è tra i più ascoltati sulle piattaforme musicali Spotify e Shazam. Le sue canzoni hanno tutte un particolare appeal radiofonico, senza dimenticare il fatto che Jason è stato anche invitato a partecipare nel ruolo di giudice alla prossima 12° stagione di “So you think you can dance”, il noto reality show americano sul mondo della danza.  In occasione dell’uscita del singolo “Want To Want Me”, Jason Derulo è arrivato a Milano per parlarci del suo nuovo album “Everything Is 4”, nei negozi dal 1° giugno, un lavoro composto da undici tracce in cui troviamo sonorità provenienti da generi diversi, quali pop, dance, urban e R’n’B, con numerose le collaborazioni importanti, tra le quali Stevie Wonder, Jennifer Lopez, Keith Urban, Megan Trainor e Matoma. Durante l’intervista l’artista ci ha parlato non solo del nuovo album e della propria musica, ma anche di sé e delle proprie emozioni.

Il titolo del tuo album è “Everything is 4”. Qual è il significato di questa scelta?

Tutto è per una ragione. Tutto è per mia madre, per i miei fan, per il mio futuro. Anche il numero 4 nel titolo ha un significato simbolico: le quattro gambe in un tavolo, il susseguirsi delle quattro stagioni, i quattro stati della materia.

Anche i generi musicali presenti nell’album possono essere ricondotti al numero 4?

In verità ce ne sono molti di più! C’è il country, il folk, il pop, l’R’n’B, l’alternative e tutta una serie di richiami a generi diversi.

Riallacciandoci a questa tematica, ci racconti come hai lavorato al brano, “Broke”, realizzato in collaborazione con Keith Urban  e Stevie Wonder?

Incredibile. Keith è un grande professionista. Stevie l’ho incontrato ad una cena alla Casa Bianca, ho parlato con lui, gli ho proposto di suonare l’armonica in “Broke” e lui ha accettato.  Quando è arrivato in studio ha portato con sé  dieci o quindici armoniche diverse per scegliere quella giusta per questa particolare registrazione, è un genio!

Come possono generi così diversi, come pop, il country, il soul andare d’accordo tra loro?

La musica è sempre musica. Credo che una canzone come “Broke” possa rompere le barriere perché non è solo country ed il risultato è stato sorprendente anche per me!

Nell’album ci sono altre collaborazioni importanti, come quella con Jennifer Lopez in “Try me”. Com’è andata?

J.Lo è una delle più influenti artiste femminili di tutti i tempi. Abbiamo cantato e ballato per due notti, l’obiettivo era trovare il mood più adatto per una canzone che parla di noi. Lei è fantastica, si è materializzata dal muro della mia stanzetta nel mio studio di registrazione. Ne siamo usciti fuori con una canzone House stile caraibico che è davvero entusiasmante.

Jason Derulo

Jason Derulo

Potresti dirci qualcosa di più riguardo ai testi e ai contenuti dell’album?

Ogni canzone è davvero diversa dalle altre. Per esempio, “Painkiller”, il duetto con Metghan Trainor, parla di come le avventure di una notte possano aiutare a dimenticare la sofferenza per la fine di una relazione, anche solo per un po’, proprio come fanno gli antidolorifici. Non riesco a scrivere di cose che non mi capitano e a me capita questo. Anche se per un breve tempo, le avventure fanno bene.

Da cosa nasce un pezzo come “Want To Want Me”, che hai scelto come singolo?

Credo sia frutto della sperimentazione, anche perché non penso mai «ora farò così». Gli anni ’80 sono stati un periodo meraviglioso. C’è molto di Michael Jackson e di Prince in questo album. Quando ero piccolo, non capivo Prince  e non capivo perché alla gente piacesse. Quando sono diventato più grande, sono riuscito ad apprezzarne pienamente il genio. Quindi sì, ogni cosa arriva dalla sperimentazione.

Come descriveresti il tuo album, con una sola parola?

Necessario. Ci sono canzoni per chiunque e per ogni situazione, sia che tu stia attraversando la fine di una relazione, sia che ti stia innamorando di qualcuno. Ogni canzone è speciale in modo diverso.

“Want To Want Me” è il tuo sesto singolo ad entrare nella Billboard Hot 100. Cosa serve per arrivarci?

Il talento, naturalmente. Credo anche che per continuare ad essere nella Billboard serva saper scrivere le proprie canzoni e non dipendere da altri. Il talento è la vera chiave del successo e quindi mi piace pensare che chi si scrive le cose da solo non debba dipendere dal talento altrui.

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Come hai deciso di diventare una pop star?

Ho cercato me stesso per molto tempo. Volevo cantare. Volevo fare rap, R’n’B, soul, country e jazz. I musical hanno avuto una parte importante nella mia vita, finché non ho finalmente ottenuto un ruolo a Broadway e ho capito che non era la cosa giusta per me. A quel punto ho deciso di fare la mia musica che, giorno dopo giorno cambia volto in maniera camaleontica e direttamente proporzionale al mio umore. Di sicuro non sarà mai noiosa, perché ci sono così tanti “gusti” tra cui scegliere.

Sarai in “So You Think You Can Dance”, il famoso talent show americano sul mondo della danza, nel ruolo di giudice al fianco di Paula Badul e Nigel Lythgoe. Senti una certa responsabilità verso coloro che dovrai giudicare?

Certo! Ero in quella posizione non molto tempo fa, so come ci si sente a fare audizioni di fronte a tre o quattro persone. Sento la responsabilità di non dire solamente «no», penso sia importante spiegare le ragioni del rifiuto.

Nei tuoi video appari spesso come un sex symbol. Tu ti vedi così o semplicemente ti diverti ad interpretare questo ruolo?

Sarebbe davvero strano vedere me stesso come un sex symbol! Ma sono felice di rivestire questo ruolo, mi piace il sesso. Ad ogni modo vengo da Miami e a Miami non abbiamo molti vestiti addosso!

C’è qualcosa di specifico che ispira i tuoi testi?

A volte penso di essere guidato da Dio per le idee che ho in testa. Mi piace la sperimentazione, vengo da Miami dove ci sono tanti stili musicali e a me piace mischiarli. A questo aggiungo il mio approccio evolutivo alla musica.

Quale sarà il tuo prossimo singolo?

Non lo so, sto ancora decidendo. Ho messo online tre o quattro canzoni, sperando che questo mi indicasse le preferenze del pubblico ma sono piaciute tutte e il compito della scelta non è stato facilitato come speravo. Questo è un disco che vale nella sua interezza, vorrei fare un video per ogni pezzo perché non vorrei essere ingiusto con le canzoni, non vorrei lasciarne indietro nessuna!

Raffaella Sbrescia

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Video: “Want to want me”

Intervista a Floraleda Sacchi e Maristella Patuzzi: “Vi raccontiamo le nostre emozioni in Intimamente tango”

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Nel disco “Intimamente Tango” Floraleda Sacchi e Maristella Patuzzi rivisitano le composizioni di Astor Piazzolla in un tango inconsueto che si fonde con i caratteri poetici ed intimi della musica classica.

Le composizioni di Astor Piazzolla sono riproposte negli arrangiamenti originali e creativi firmati da Floraleda e Maristella che fondono armonicamente malinconia, speranza e sensualità in una nuova chiave musicale, tra tradizione e innovazione, tra classico e jazz, tra improvvisazione e world music.

Cosa vi ha spinto a lavorare insieme e perché avete scelto di concentrarvi proprio sul repertorio di Piazzolla?

Perché entrambe amiamo la sua musica, perché non esisteva per il nostro duo e dunque questo ci obbligava ad essere più personali e ad arrangiare tutti i brani. Ci è sembrato il modo migliore per fare veramente duo e trovare un accordo.

In che modo avete interpretato un genere così particolare come il tango?

Cercando di metterci tutto il sentimento possibile. Il Tango è così, ti coinvolge e  ti fa sentire vivo perché ti emoziona. Dato che Piazzolla è stato anche un compositore colto e raffinato, con studi tradizionali,  abbiamo pensato molto a come valorizzare la sua ricerca sonora e la sua raffinatezza, elementi che spesso passano in secondo piano.

Cosa significa fondere malinconia, speranza, sensualità in un unico progetto?

Significa parlare delle  sfaccettature del vivere quotidiano.

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Quali sono le tappe che hanno scandito il percorso legato a questo disco?

Abbiamo dapprima scelto di suonare insieme, poi abbiamo scelto la musica da suonare attraverso un grande lavoro di ricerca e selezione dei brani di  Piazzolla da trascrivere (ce ne piacevano troppi). Abbiamo lavorato agli arrangiamenti  ad ogni ora del giorno con  giornate di prove intense,  le registrazioni e le valutazioni finali del risultato a due mesi di distanza dalla fine dei lavori.

 Com’è andato il concerto dello scorso 9 maggio al Loggione de La Scala?

Molto bene, abbiamo suonato anche un po’ di brani operistici di Donizetti e Paisiello e il pubblico si è molto divertito. Ci hanno detto che li abbiamo fatti sognare e che era un concerto pieno di poesia.

Che sensazioni avete provato suonando al Museo del Legno?

Il concerto è andato molto bene. E’ stato molto particolare suonare su un tavolo (per noi palco) di legno Kauri vecchio di 48.000 anni. Il legno risuonava meravigliosamente e ci ha fatto da cassa armonica. Dovendo suonare senza scarpe, lo sentivamo vibrare sotto i piedi e abbiamo avuto la sensazione che abbia gradito e quasi sognato che potesse rifiorire.

Floraleda, hai suonato in tante sale importanti, sei stata solista con tante orchestre… come cambia di volta in volta il tuo approccio allo strumento?

Cambia in base al repertorio che suono e posso suonare molto diversamente. Cambia ancor più l’approccio in base alla sala in cui si suona, all’acustica e al pubblico che frequenta il luogo. Ma proprio questo è quello che rende ogni concerto diverso dall’altro e il lavoro del musicista così bello.

Quali sono le differenze tra l’arpa antica e quella moderna? Quale tipologia di strumento preferisci suonare?

Gli strumenti antichi così come l’arpa sudamericana sono caratterizzati dalla minor tensione delle corde, questo (chiaramente con stili molto diversi) porta ad una grande velocità e leggerezza nell’esecuzione. L’arpa moderna è più potente e più aggressiva e la amo per quello. So suonare anche le arpe celtiche, ma sarebbe meglio avere le unghie più lunghe perché l’unghia è richiesta nel pizzico, un po’ come sulla chitarra. Questo è un po’ un problema perché per le altre serve rigorosamente solo il tocco con il polpastrello.  Mi diletto anche a suonare il Koto e la Kora… insomma ho un feeling con le corde.

Sei autrice delle musiche del monologo “donna non rieducabile” , in scena con Ottavia Piccolo… di cosa parla l’opera e come vivi i successi di ben 100 repliche?

Bene, ormai lo spettacolo sta nel piacere di incontrarsi con i  colleghi. Dopo 100 repliche potrei suonare tutto anche in condizioni proibitive. Il tema dello spettacolo è estremamente importante e serio e mi tocca ogni volta che lo porto in scena: si parla infatti della libertà di stampa, di comunicazione ed espressione, insieme alla volontà di portare il proprio lavoro fino in fondo, restando fedeli ai propri ideali anche a costo di rischiare la propria vita. Non a caso la figura che guida questo percorso è quella della giornalista Anna Politkovskaja, che è stata uccisa per non essersi piegata alla censura. La sala stampa della Comunità Europea, infatti, è intitolata a lei.

Maristella, come ti trovi a suonare con Floraleda e quali altri progetti hai in programma?

Adoro suonare con Floraleda perché è sempre creativa e suona con entusiasmo. Per quanto mi riguarda mi divido tra la musica e la politica, la musica mi segue fin da bambina, la politica è capitata per caso, ma quasi senza che lo volessi, sono diventata prima consigliera a Lugano e da qualche giorno parlamentare al gran consiglio del Ticino. Mi piace immensamente cercare di fare qualcosa per gli altri. Per me, che ho genitori italiani e nazionalità italiana, ma sono nata in Svizzera e ho anche questa nazionalità, è bello potermi dedicare ad entrambi i paesi, perché mi sento di appartenere ad entrambi.

Che emozioni provi suonando lo Stradivari Ex Bello 1687?

Bellissime, suonai questo strumento per la prima volta a New York e me ne innamorai. Dopo il concerto dovetti ovviamente restituirlo, dopo qualche mese fu lui a venire a Lugano, dove abito, nelle mani di un collezionista privato che me l’ha affidato. L’ho sempre visto come un segno del destino e poi l’87 è il mio anno di nascita, 300 anni più di me… Le coincidenze sono troppe!

Che tipo di riscontro state ricevendo dal pubblico?

Finora siamo state accolte molto favorevolmente e abbiamo ricevuto solo complimenti e critiche positive. Questo ci sprona ovviamente a continuare a dare il massimo per soddisfare il nostro pubblico.

Raffaella Sbrescia

Peole Keep Talking, Hoodie Allen presenta l’album d’esordio

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Steven Adam Markowitz, in arte Hoodie Allen,  è un giovane artista, classe 1988, bianco, ebreo, laureato in un’università della Ivy League che, dall’alto delle sue autoproduzioni, presenta il suo album d’esordio “People Keep Talking” insistendo subito su un concetto chiave come l’autenticità: “Per me autenticità significa accettare il fatto che non sono Kendrick Lamar e non vengo dal ghetto. Ognuno ha il dovere di raccontare la propria storia. E la mia è questa qua”. A metà strada tra rapper e pop star 2.0. Hoodie Allen negli Stati Uniti ha raggiunto la seconda posizione nelle classifiche Rap e R&B, l’ottava in quella generale ma è dal 2009 che il egli distribuisce in modo indipendente mixtape – il più noto è forse “Pep rally” del 2010 – ed EP come “All American” del 2012: “Mi piace scrivere, raccontare storie divertenti, costruire canzoni. All’inizio era un hobby poi ho imparato a usare internet per diffondere la musica e ho trovato un vero pubblico”. Dopo aver lavorato nel 2010 nel programma AdWords di Google, a Mountain View, Hoodie ha deciso, infine, di dedicarsi solo alla musica: “Lì ho imparato a pensare in modo critico, ad avere la mente aperta, a essere creativo. Ma fra Google e la mia musica, lavoravo venti ore al giorno. Lasciare l’impiego per dedicarmi al rap è stato un atto di fede”.

Hoodie Alllen ph Matty Vogel

Hoodie Alllen ph Matty Vogel

Ed ecco, dunque, “People keep talking”, un lavoro non propriamente esaltante che al suo interno contiene, comunque, un paio di messaggi interessanti: Il primo chiude il brano che dà il titolo al disco e riproduce la voce tremante una fan emozionantissima: “È un modo sarcastico per prendere in giro i superfan, quelli che dicono che ti amano e non sanno nemmeno i titoli delle tue canzoni”, spiega Hoodie, mentre il secondo messaggio è contenuto in “Sirens” dove un finto discografico – Todd Ferman della Gigantic Records – dice a Hoodie Allen che lo adora e lo vuole mettere sotto contratto, non prima di averne snaturato la musica: “È ispirata a un vero discografico, di cui non dirò il nome. Quando diventi popolare su internet gli A&R cominciano a chiamarti non perché credono in te, ma perché vogliono essere i primi a ‘scoprirti’ o per dire al capo di averci almeno provato”, conclude Hoodie. Da evidenziare anche la collaborazione con Ed Sheeran per il singolo ed il video di “All about it”: “Con Ed si è amici da tre anni, eppure non avevamo mai fatto musica assieme. Il video l’abbiamo girato l’ultimo giorno del suo tour nordamerican, pensare che lui non voleva nemmeno apparire poi l’ho convinto io a mostrare il suo lato più leggero, quello che la gente non conosce, ed il risultato è stato molto divertente”.  A dispetto dei ritornelli catchy e dell’ atmosfera easy che caratterizza album, Hoodie Allen è in ogni caso, piuttosto serio nel difendere le proprie scelte e la propria autonomia. Il senso è: potete dire quel che volete di me, ma non cercherò di compiacervi e continuerò a fare musica a modo mio, restando coi piedi per terra”.

Raffaella Sbrescia

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Video: All about it

 

Intervista a Kwabs: La mia musica racconta emozioni eterne al passo coi tempi”

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Il suo canto è un verace e genuino, la sua voce è un prisma multisfaccettato, un lamento blues  in grado di  trasmettere emozioni a tutto tondo, il suo nome è Kwabs e, dopo aver conquistato la critica con gli Eps, rispettivamente intitolati “Pray For Love” e “Wrong or right”, il giovane artista, tra i più quotati del momento, si prepara alla pubblicazione del nuovo atteso album “Love + War”, prevista per maggio 2015, nella cui tracklist sarà inserita anche la cliccatissima “Walk”. L’abbiamo incontrato a Milano lo scorso 9 marzo.

Kwabs, quali sono gli elementi che caratterizzano la tua musica?

Le tappe del mio percorso rispondono ad un unico obiettivo: fare un tipo musica in grado di mantenere intatta una certa profondità emotiva. Ho studiato jazz ma questo non  influenza direttamente la mia musica, si tratta di un elemento che fa parte della mia formazione, ho una voce soul con un timbro retrò eppure riesco a tenere vivo un quid contemporaneo.

Youtube e i social media hanno avuto un ruolo importante per lo sviluppo della tua carriera, come interagisci con queste realtà virtuali? 

I social rappresentano una parte importante del motivo per cui oggi sono qui. Sono grato a  SoundCloud, Twitter, Facebook, mi hanno consentito di raggiungere molte più persone di quante la mia mente avesse mai potuto immaginare eppure mi rendo conto che c’è sempre un doppio lato della medaglia, a volte vorrei tenere qualcosa per me ma mi rendo conto del fatto che man mano questo diventerà sempre più difficile.

Com’è essere in tour in Europa insieme a Sam Smith, quale sono state le prime impressioni sul palco? 

La prima sera che ci siamo esibiti, sono rimasto davvero senza parole quando, giunto il momento della ballata, tutto il pubblico, che a stento mi conosceva, ha alzato cellulari ed accendini accompagnandomi a tempo di musica… Quella  è stata un emozione stupenda, sicuramente il momento più bello per me!

Kwabs

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Nel 2010 ti sei esibito a Buckingham Palace, cosa ti ha colpito in quell’occasione?

Avevo preso  parte a un documentario su giovani musicisti in UK e l’ultima tappa era stata organizzata in un grande spazio a Londr;a; quando ho scoperto che si trattava di Buckingham Palace sono rimasto basito! Ho anche conosciuto il principe Harry, davvero gentile e molto simpatico.

Quali sogni custodisci nel cassetto?
Mi piacerebbe suonare nelle line up di grandi festival e poi, perché no, anche agli Oscar o ai Grammy … Nella vita penso sia positivo avere dei sogni! Per quanto riguarda le collaborazioni vorrei semplicemente lavorare con chiunque faccia musica che mi emozioni.

Chi sono i tuoi eroi?

Adoro  Aretha Franklin, Stewie Wonder, The Strokes, Artick Monkeys ma anche altri artisti. Non posso dire che uno sia più importante dell’altro, devo ringraziarli tutti perchè mi hanno ispirato ognuno allo stesso modo.

Quali sono le tre canzoni che descriverebbero al meglio la tua vita in questo momento?

 “Best Friend” di Brandy, perchè gli amici sono importanti, poi la mia “Walk”, che mi descrive benissimo, e per concludere la carica energetica di “It’s not right but it’s ok” di Whitney Houston.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Kwabs”

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