Lollipop 50s torna all’Estathé Market Sound in una domenica a tutto vintage per salutare quest’estate indimenticabile a suon di swing e rock and roll!
Sul palco del village ci sarà il travolgente Matthew Lee performer, pianista e cantante innamorato del rock’n'roll, che ha fatto propri gli insegnamenti dei grandi maestri del genere. Un vero talento, che, nonostante la giovane età, ha già sulle spalle circa 1000 concerti suonando in tutta Europa: Italia, Belgio, Inghilterra, Francia, Svizzera, Slovenia, Olanda, Germania, e si è inoltre esibito negli Stati Uniti ed in Africa. In quest’intervista Matthew Lee ci parla di “D’altri tempi” (Carosello Records). L’album, realizzato con l’intervento di autori e produttori sia italiani che internazionali come Luca Chiaravalli, Claudio Guidetti, Mousse T e Chris, racchiude 12 tracce (6 in italiano e 6 in inglese), tutte legate da un inconfondibile ritmo rock’n’roll rivisitato in chiave moderna.
Matthew, qual è il mood che attraversa l’album?
Questo è il mio primo “vero” lavoro discografico. Fin dal principio ho curato ogni canzone ed ogni dettaglio insieme ad alcuni dei più importanti produttori italiani ed internazionali. Il disco è stato registrato in tre paesi diversi (Italia, Inghilterra e Germania), ed è un lavoro in cui ho racchiuso tutti i lati della mia personalità: da quella rock’n’roll a quello più blues, fino al mio lato più romantico. Quello che mi ha dato maggiore soddisfazione è stato entrare in studi di registrazione veri e lavorare con eccezionali professionisti.
“E’ tempo d’altri tempi” è il tuo manifesto artistico?
Ho vissuto diversi anni suonando dal vivo il rock’n roll, il blues, lo swing, indie hop, boogie- woogie, tutti generi che son tornati in voga da poco tempo. Ho sempre guardato a questi ritmi con molto interesse per cui, quando mi hanno proposto di lavorare al disco, ho pensato di scrivere sulla base di quanto avevo fatto fino a quel momento. Tutto il disco è interamente pensato per il live, la cosa che mi interessa di più in assoluto.
Matthew Lee
Con più di 1000 concerti alle spalle, come affronti oggi il palco?
Con passione e spensieratezza. Nella mia vita ho girato davvero tanto. In tempi non sospetti caricavo video su Internet e sfruttavo la visibilità del mio canale su Youtube. Mi hanno contattato spesso dall’Inghilterra, poi mi hanno chiamato in Olanda, in , fino ad arrivare in America (New York, Ohio) e persino in Africa (Tunisia e Capo Verde). Le cose sono andate sempre meglio anche se le mie idee vengono sviluppate dal mio ottimo management che lavora alacremente.
Come hai concepito l’arrangiamento de “L’isola che non c’è”, così distante da quello originale di Bennato?
Questo brano mi è sempre piaciuto molto; credo sia uno dei capolavori della musica italiana in generale. La prima cosa che ho fatto quando ho iniziato a lavorare a questo album è stato proprio riarrangiare questo brano con il mio stile ed è stato un processo davvero molto naturale.
Quale versione preferisci tra quella in italiano e quella in inglese?
Le due versioni hanno due storie. Quella italiana è quella che ho inventato, l’altra è giunta poco prima della chiusura del disco perché Bennato, dopo aver ascoltato la registrazione della versione in italiano, mi ha chiesto di farne una in inglese con un testo fornito da lui stesso. L’ho realizzata subito, lui l’ha ascoltata, gli è piaciuta e l’abbiamo inserita. Visto che mi piacciono tutte e due, nei concerti ne faccio una ma la divido in due.
Cosa ci dici di “Così Celeste” di Zucchero?
In questo caso ci ho lavorato molto di più perché la canzone nasceva come un’autentica ballata. Ci ho dovuto ragionare molto ma per fortuna anche questa è piaciuta molto all’autore.
“Can I take a bit” è un pezzo molto energico.
In questo caso abbiamo fatto un lavorone. Siamo andati in Germania, ad Hannover, nello gigantesco studio di Mousse T, abbiamo ragionato pur senza avere un’idea ma alla fine è stata un’esperienza super.
Quanto c’è di te in “Place that I call home”?
Ho scritto questa canzone in Inghilterra durante una session prima delle registrazioni del disco. Di solito vivo con la valigia già pronta ma, per quanto mi piaccia stare in giro, la vita vera è un’altra cosa. Quando sei in tour sei sempre di corsa, dormi in orari strani ed è sempre bello tornare nella mia Pesaro.
Come affronti questa vita così frenetica?
Non saprei, è talmente divertente che a volte non mi soffermo a pensare. Mi appaga fare il musicista, si tratta di una passione che sono riuscito a trasformare miracolosamente in lavoro che non definirei neanche tale. Alla fine sono una persona abbastanza quadrata per cui cerco di bilanciare le cose.
Che aspettative hai per questo album?
Sono contentissimo. Mi piace portarlo in giro perché ci abbiamo messo il cuore e tutta la passione possibile. Non ho paura, c’è tanto di me qui dentro ed è una bella sensazione.
Come ti rapporti con chi ti segue da tempo?
Cerco di parlarci, di essere partecipe e di tenermi in contatto il più possibile. Mi piacerebbe organizzare un bel raduno- incontro con tutti loro.
Sono passati cinque anni da “Casa 69” e, da allora, i Negramaro non hanno mai smesso di cercare e trasmettere emozioni. Con “La rivoluzione sta arrivando”, un album interamente composto da brani inediti che li riporta nella veste di produttori, Giuliano Sangiorgi e compagni compiono un’ evoluzione che non snatura la loro identità. Questo nuovo lavoro è connotato da sonorità meno aggressive e testi particolarmente ricchi, visionari, per certi versi temibili per la loro immensa forza espressiva. In ogni angolo di ogni canzone, i Negramaro raccontano i sentimenti umani e il mondo circostante in modo semplice eppure fortemente impattante. Sono temi forti quelli che stanno alle base de “La rivoluzione sta arrivando” ed giusto così perché questi anni sono stati particolarmente ricchi di eventi e vicissitudini per tutti loro. Partiti da una masseria in Salento, i sei salentini sono finiti su una highway di Nashville alla ricerca del suono perfetto, un viaggio che ha fatto crescere l’album, attimo dopo attimo, fino al risultato finale che ci lascia col fiato corto ed il cuore gonfio. Anticipato da “Sei tu la mia città” e “Attenta”, lanciati rispettivamente ad aprile e agosto, “La rivoluzione sta arrivando” è un disco malinconicamente lucente ed è ricco di visioni e suggestioni che colpiscono l’anima. “Lo sai da qui”, ad esempio, è una piccola preghiera in cui qualcuno che abbiamo perso continua ad esserci e a mostrarci il cammino. Speciali anche le strofe de “L’ultimo bacio” in cui il flusso di coscienza per un amore finito, rappresenta, in realtà, un nuovo punto di partenza . Il nucleo dell’album è racchiuso, però, tra i versi de “Il posto dei santi”, brano in cui testo e musica si intrecciano intorno al difficile tema della morte offrendone una chiave di lettura speranzosa. Morte e rinascita si ritrovano anche in “Onde”. Bello anche il gioco di immagini in opposizione in “L’amore qui non passa”, brano che Giuliano ha voluto dedicare al gruppo nella sua interezza e che, con quegli archi in chiusura, ci lascia con la sensazione di aver vissuto un sogno da cui non vorremmo svegliarci.
Il resoconto della conferenza stampa tenutasi al Museo Nazionale della Scienza e della tecnologia di Milano
«Questo album è la nostra evoluzione di questi anni. I titoli sono dei veicoli che devono far riflettere. Non siamo così presuntosi da credere che ci sia una rivoluzione in questo disco, eppure c’è una piccola rivoluzione in ognuno di noi. Durante la realizzazione dell’album mi sono più volte chiesto se fosse giusto affrontare le questioni personali che io e i miei compagni abbiamo vissuto in questi anni, compresa la scomparsa di persone care, e ho capito che la morte è solo una sfumatura dell’esistenza e ti porta a vivere il mondo esterno in maniera ancora più forte e intensa. La rivoluzione per me parte proprio da questo concetto: portare la vita al centro di ogni cosa – spiega Giuliano Sangiorgi. Visto che viviamo in un’epoca segnata da 140 caratteri, dove spesso contano solo i titoli, vorremmo far riflettere, anche solo per un momento, sull’idea che la rivoluzione possa essere messa in atto ogni singolo giorno da ciascuno di noi – aggiunge il cantante – Nel nostro piccolo ci piacerebbe una piccola rivoluzione contro il cinismo culturale devastante che ci sta infettando».
I Negramaro durante la conferenza stampa a Milano
«Da molto tempo condividiamo vita musica, storia, esperienze. La nostra vita musicale è passata per tante stagioni. “Casa 69” è di cinque anni fa, il discorso musicale era molto diverso. Da lì siamo arrivati a “La Rivoluzione sta Arrivando” attraverso un best off con sei inediti. Siamo stati per mesi in una masseria nel Salento e abbiamo iniziato a parlare e stare insieme tra rivoluzioni ed evoluzioni: ci siamo approcciati a questo disco in maniera tecnicamente diversa, con un discorso musicale immediato e scarno che non significa misero perché il lavoro di costruzione è stato pazzesco – racconta Andrea Mariano –“La rivoluzione sta arrivando” ha girato il mondo per arrivare al sound finale: dal Salento ci siamo spostati a Milano, nelle Officine Meccaniche di Mauro Pagani e in seguito a Madrid, New York e Nashville. Qui abbiamo collaborato con Jacquire King (Kings Of Leon, Bon Jovi, James Bay), un fonico straordinario che, dalla sala prove al mix, ha mantenuto un equilibrio incredibile».
«Per quando riguarda il tour – spiega Lele Spedicato – si tratterà di uno spettacolo, organizzato da Live Nation (in partenza il 4 novembre da Mantova) e sarà raccontato da immagini e visuals che seguiranno il concept grafico del disco. Stiamo lavorando molto sui contributi video, il 15 luglio avevamo già la scaletta pronta e questo non ci era mai successo».
Negramaro
Tornando a parlare dei cardini del disco, molto spazio è stato dedicato al brano intitolato “Il Posto dei santi”: «Questo è un brano in cui mi sono misurato con la metrica del rap, genere che ho sempre amato. Quando avevo 8 anni, il sabato scappavo dal catechismo e mi andavo a comprare i 45 giri rap di quel momento. “Mentre tutto scorre”, “Nuvole e lenzuola”, “Via le mani dagli occhi” racchiudevano un rap in rock e anche questo brano riprende un tipo di metrica rap con sonorità anni ’70», specifica Giuliano. Interpellato in un momento successivo, anche Ermanno Carlà ha commentato il brano in questione: «Il vestito di questa canzone è così diverso da quello che abbiamo sempre fatto, da essere diventato il punto di riferimento per un cambiamento effettivo senza snaturare quello che siamo stati in passato. Per un gruppo il vestito musicale è molto importante, quindi si gioca sempre su quello che si può indossare più facilmente. Quando il pezzo è venuto fuori sembrava quasi non appartenerci – aggiunge Ermanno – Ora, invece, è come essere consapevoli che un centimetro di pancia in più o una ruga sul viso possono anche esibiti con naturalezza seguendo una prospettiva moderna».
In merito al concept grafico, il bassista del gruppo racconta: «L’uomo e la celebrazione della vita sono il perno intorno a cui si sviluppano le nuove tracce dei Negramaro. Il logo ridonda il titolo stesso del disco e i simboli che vi si leggono sono legati all’ im maginario che Giuliano ha sognato e tradotto in musica. Così è nata questa sintesi grafica tra morte, vita e ironia. Questo tipo di lavoro grafico è una cosa che avevo in mente da tanto tempo. Affascinato anche dal lavoro che fecero un po’ di tempo fa i Gorillaz, ho giocato un po’ con le metafore, quindi è come se i nostri sei alter ego fossero una traslazione del genio e della follia umana. Tutto questo vorrebbe offrire uno spunto di riflessione sul percorso che l’uomo ha compiuto dall’ età della pietra al microchip e far riflettere sul contrasto tra moderno e antico. Il concept vorrebbe essere uno stimolo a recuperare il contatto con la natura, che è vita e che comprende tutto. Nonostante il fatto che a volte si possa provare un sentimento di paura verso il cambiamento, noi attraverso la musica siamo pronti ad affrontarlo. Certo, non siamo immuni alla sensazione di timore ma da noi in Salento si dice: “Metti un ramoscello lì dove riesci ad arrivare”, ovvero metti il segno dove sai che puoi arrivare perché quando segni un tuo limite stia già lavorando bene per riuscire a superarlo» – conclude Ermanno.
Immanuel Casto, all’anagrafe Manuel Cuni, torna in scena con un nuovo album inediti, il quarto per esser precisi, intitolato “The Pink Album”, pubblicato il 25 settembre 2015 per Freak&Chic/ Artist First. Composto da undici brani, il disco rappresenta un’evoluzione musicale, ma soprattutto contenutistica, per l’artista ormai riconosciuto come re indiscusso del porn groove. Sonorità dance e synth pop sono le note che scandiscono testi intrisi di ironia ma anche di coraggio. Pronto e sagace nel riconoscere le tematiche più in vista nel nostro quotidiano, Immanuel rivela una forte sensibilità, associata a prontezza di spirito e genuina irriverenza contro gli schemi dettati dall’ ipocrisia Made in Italy. Abbiamo incontrato l’artista all’interno dello Studio Know How di Milano, il più grande sexy shop gay friendly d’Europa; ecco quello che ci ha raccontato.
Partiamo dai forti rinnovamenti testuali e sonori contenuti in “The Pink Album”.
Questo è un disco diverso dai miei precedenti. La sfida era creare qualcosa di nuovo rimanendo fedele a me stesso, ho voluto costruire su quello che è avevo fatto in precedenza. C’è stata un’evoluzione musicale, mi sono avvicinato a suoni più materici, più acustici. Ho sempre amato l’elettronica e la disco anni ’80 ma sentivo la voglia di qualcosa di un po’ più concreto, che si distaccasse dal pop più patinato e bidimensionale. Tutto questo si sente in brani come “Uomini veri”, “Male al cubo” e soprattutto in “Deepthroat Revolution”, il cui arrangiamento è, a mio parere, uno dei più belli che abbia mai fatto. Per quanto riguarda i contenuti, è paradossale dire che questo è il mio disco più coraggioso perché parla poco di sesso.
In che senso?
Di solito sono i contenuti forti richiedono molto più coraggio perché tuttora sono difficili da veicolare, soprattutto attraverso i media convenzionali. In questo lavoro mi sono esposto tanto, soprattutto emotivamente. Certo, non è una cosa che non abbia mai matto in precedenza ma , di solito, i brani più intimi li mettevo sempre in fondo al disco quasi per non guastare l’ascolto a chi si voleva divertire con brani goliardici, divertenti, provocatori. In questo caso, invece, ho voluto che brani ironici e sbarazzini si compenetrassero con altri più significativi.
L’esempio tangibile potrebbe essere “Uomini veri”?
Esatto. Questa è una canzone di Joe Jackson. Il tema del brano è abbastanza vicino a quello di “Da grande sarai fr**io” anche se, a differenza di quest’ultimo brano, in cui sono rimasto molto più fedele al mio stile politicamente scorretto, estremamente ironico e sfacciato, nel caso di “Uomini veri” sono molto più serio e canto con il cuore in mano.
Come vivi il fatto che la tua musica e la tua immagine riscontrano pareri anche molto discordanti tra loro?
Sicuramente è la prova che ci sono dei contenuti presenti, questo è ciò che fa scatenare delle reazioni. Quando si prendono posizioni o, più semplicemente, si dice qualcosa, immediatamente si va a scontentare qualcuno e viceversa. Se non si vuole disturbare nessuno, l’unico modo è non dire niente. Ci sono moltissimi artisti che agiscono esattamente in quest’ultimo modo, non dicono niente e la cosa funziona perfettamente. La mia è una scelta personale e non potrei fare altrimenti.
Questo discorso rientra perfettamente nelle dinamiche e nei riscontri che sta ottenendo il singolo “Da grande sarai fr**io”.
Mi rendo conto che si tratta di un brano politicamente molto scorretto ma lo difendo a spada tratta. Il testo dà un messaggio molto importante: è la voce di un omosessuale adulto che si rivolge ad un ragazzino, addirittura quasi un bambino, i cui atteggiamenti tradiscono quello che sarà il suo orientamento sessuale. Il brano è forte perché nega di fatto tutte le sciocchezze secondo cui l’omosessualità è una scelta. Si tratta di un fatto legato alla natura di una persona che, con l’età adulta, verrà fuori. L’adulto protagonista del brano dice al ragazzino di accettarsi con autoironia, la difesa più grande che abbiamo. Riguardo ai toni goliardici, quasi come se si trattasse di una presa in giro, in realtà metto me stesso nel pezzo quindi posso permettermelo. A questo aggiungo che, se avessi fatto una canzone contro l’omofobia, molti avrebbero detto sono d’accordo con il testo però poi non credo che avrebbero veramente apprezzato il brano. In verità, io ritengo che questo pezzo abbia reso un servizio ancora maggiore al messaggio che volevo trasmettere. Alcuni hanno anche sostenuto che io volessi far passare un messaggio secondo cui tutti i gay siano così come li descrivo in questo brano. Primo: Anche se fosse? Quel ragazzino effeminato non merita di essere accettato? Secondo: Non è vero. Non ho mai detto che questa storia rappresenta tutti. Io racconto una storia e, proprio chi dice questo, parte dal presupposto che esista qualcosa per rappresentare tutti. Siamo diversi, tutti meritiamo di essere rispettati, io ho scelto un aspetto di questa diversità e ho raccontato quello.
Immanuel Casto
Alla fine cerchi l’amore…
Sì, molti brani parlano d’amore e questa per me è la più grossa novità. Un esempio è “Male al cubo”, un brano che nelle strofe si propone con cinismo per poi riscattarsi nel ritornello; mai come nel dolore incrociamo noi stessi per cui nulla è veramente perduto.
Il brano “Rosso, oro e nero” con i Soviet Soviet è molto diverso dagli altri
Sì, in effetti è così. Si tratta di uno dei due adattamenti. L’originale è un pezzo tedesco e ho voluto realizzarlo per omaggiare la mia storia con un tedesco. Anche questa, di fatto, è una canzone d’amore, è capitato un po’ a tutti di stare una persona con cui si faceva fatica ad essere felici.
Immancabile la collaborazione con Romina Falconi
Assolutamente! Ormai siamo veramente legatissimi. Ogni tanto l’accuso di essere una dolce Pollyanna. Se, per esempio, sto frequentando una persona ed è evidente che stia andando tutto male, lei interpreta sempre tutto in chiave positiva.
Perché avete scelto di duettare in “Horror Vacui”?
Non ricordo come è nato, stavamo parlando e avevamo deciso di collaborare in questo pezzo. Io ho scritto le mie parti, lei ha scritto le sue e, insieme, abbiamo scritto i ritornelli. Tra tutti i nostri duetti, il brano è più vicino al suo “Eyeliner” o al mio “Sognando Cracovia”.
“Alphabet of Love” si conclude in modo esilarante…
Ci stava! L’autoironia salverà il mondo!
Sesso, sangue e soldi sono ancora i protagonisti della cronaca e dell’intrattenimento?
Le tre S sono sempre attuali.
Il primo titolo provvisorio del disco era “Disco Dildo”, perché l’hai cambiato?
Il cambiamento è stato dettato dal fatto che non volevamo avere problemi legati alla distribuzione del disco ma è stata una beffa perché poi abbiamo avuto difficoltà con i firmacopie nelle grandi catene ed eccoci qua a parlare in un sexy shop. In realtà sono comunque contento di averlo intitolato “The Pink album” perché era la prima idea che avevo ma soprattutto perché forse “Disco Dildo” avrebbe eclissato i contenuti più emotivi dell’album.
E i richiami al “White album” dei Beatles e al “Black album” dei Metallica?
Anche in questo caso spero che la gente percepisca l’ironia della cosa. I riferimenti culturali sono molto forti ma il mi rosa è un sorriso da affiancare alle icone.
Tra i tanti progetti paralleli alla musica c’è il gioco di carte “Squillo”. Un successo che non conosce sosta…
Si tratta di una fantastica avventura. Dopo aver concluso “La trilogia del piacere” ( “Deluxe Edition”, “Bordello d’Oriente” e “Marchettari sprovveduti”), iniziamo un nuovo capitolo con “Time travels” in cui andiamo a scoprire la prostituzione nelle varie epoche della storia. Si parte con l’Antica Grecia di Satiri e Baccanti, il tema è molto divertente e le stupende illustrazioni sono realizzate da Jacopo Camagni, in arte Dronio, che lavora anche per la Marvel. La cosa divertente è che quando ci si stancherà delle proprie squillo le si potrà anche vendere come schiave o ci si potrà appellare all’Oracolo per richiedere l’intervento dei vari dei.
Immanuel Casto
E la biografia in uscita il prossimo 2 ottobre?
Il titolo è “Tutti su di me”, l’ho proposto io e sono contentissimo di questo volume perché il curatore Max Ribaric ha realizzato un lavoro molto accurato. Sono stati recuperati tutti i miei post sul sito e sui social per una ricostruzione storica dettagliata e che non perde mai di vista l’ironia. Leggendo il libro, mi sono divertito ed emozionato, si tratta di un bel modo per scoprire tutto il mio percorso.
Hai collaborazioni in mente?
Ci sono dei progetti in testa ma ancora non so a quali di questi mi dedicherò.
Hai mai pensato ad un palcoscenico come quello di Sanremo?
Sì, certo. Mi piacerebbe, è un tentativo che si fa e, come molti artisti fanno, si prova diverse volte prima di riuscire ad avere questa occasione. Sanremo è probabilmente l’unico contesto istituzionale che mi interesserebbe per dare uno schiaffo in faccia all’ipocrisia.
Quali sono i tuoi interessi?
Fondamentalmente sono un nerd. Le mie passioni sono principalmente i giochi, naturalmente c’è la musica, poi ci sono le serie tv e la lettura.
Alla luce del grande rinnovamento presente nel nuovo album, apporterai cambiamenti anche all’interno del nuovo tour?
In verità continuerò sulla linea del tour precedente quindi avrò grande cura e attenzione per i dettagli, a livello musicale avrò un batterista elettronico che suonerà dal vivo, ci saranno ovviamente dei visuals grafici realizzati da me per ogni video, le coreografie, una nuova corista e non mancheranno svariate guest stars come Romina Falconi, Soviet Soviet e Tying Tiffany.
IMMANUEL CASTO firmerà le copie del disco e incontrerà i fan anche sabato 26 settembre a Roma alla Ludoteca TORA STORE (Via dei Galla e Sidama, 57 – ore 16.30),domenica 27 settembrea Bologna allaGalleria Ono (Via Santa Margherita, 10), sabato 3 ottobre a Bologna al RED durante il party di gay.it, venerdì 9 ottobre a Torino alla Libreria Luxemburg.
Petra Magoni e Ferruccio Spinetti ph Simone Cecchetti
Musica Nuda è un progetto che racchiude due anime speciali, quelle di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti. Una voce sublime ed un contrabbasso magico e versatile uniti da dodici anni nel nome dello sconfinato amore per la musica. Lo scorso 31 marzo i due artisti hanno pubblicato “Little Wonder” (Warner Music), un album fatto di rivisitazioni di canzoni più e meno famose, la tangibile dimostrazione che nonostante lo scorrere del tempo, i dischi pubblicati e migliaia di concerti, la curiosità e la passione possono portare a volersi rimettere nuovamente in gioco senza limiti. Alle porte del tour che li porterà a girare l’Europa in lungo e in largo, Petra e Ferruccio si sono raccontati a cuore aperto.
L’intervista
“Little Wonder” è un regalo che avete fatto a voi stessi?
Ferruccio: Questo album ripercorre artisticamente quello che è successo nel corso di dodici anni: 7-8 dischi, più di mille concerti in giro per il mondo e tante belle esperienze. Dopo aver realizzato due album di inediti, che erano “Banda Larga”e “Complici”, abbiamo deciso di fare nuovamente un disco di cover per vedere con dodici anni di esperienza e, si spera, con una certa maturazione artistica in più, cosa ne sarebbe venuto fuori. Mantenendo intatte libertà e istinto, e in questo mi riferisco alla scelta dei brani, abbiamo scelto delle canzoni che ci piacevano, che ci emozionavano e le abbiamo trasformate in Musica Nuda.
Cosa vi ha sorpreso di questo lavoro? C’è qualche elemento che dopo tanti anni vi ha messo alla prova?
Petra: Sì, certo. A partire dal modo in cui è stato realizzato questo disco; l’abbiamo registrato sul palco del teatro di San Casciano, a porte chiuse, senza cuffie, in presa diretta e senza la separazione che c’è nello studio di registrazione, il tutto per ritrovarci nel nostro habitat naturale. Tutto il lavoro è stato molto immediato. Per esempio, la versione che abbiamo inciso di “Is this love” di Bob Marley è la prima e unica. Questo disco è simile al nostro primo album, anche quello fu registrato in presa diretta. Abbiamo scelto di fare cover di tutti i tipi, compreso un nostro stesso brano, con la curiosità di scoprire quale fosse stato il risultato. Little Wonder può sembrare un titolo presuntuoso ma in realtà “wonder” è anche lo stupore, la meraviglia di scoprire qualcosa di nuovo dopo 12 anni. La meraviglia di voler fare nuove cose con più maturità ma con lo stesso entusiasmo.
Come mai hai avete scelto di rifare “ Io sono metà”?
Quella è la prima canzone che abbiamo scritto insieme, un giorno la stavamo suonando, ci è venuta in una nuova versione e ci siamo detti: “perché no?!”
Dopo 1000 concerti e tanti palchi, fareste un parallelo tra le locations italiane ed estere? Come cambiano le vostre aspettative di volta in volta?
Ferruccio: Quando si va a fare un concerto è difficile avere delle aspettative, la sorpresa spesso giunge anche durante il concerto stesso. Come dice Petra, il live si fa in due: noi sul palco e il pubblico giù. Quando andiamo a suonare in una città che non conosciamo come può essere Lima, Buenos Aires, Charleston o Belgrado siamo molto curiosi di vedere quale sarà la reazione del pubblico a questo strano duo. A dire il vero la scaletta che proponiamo potrebbe scatenare lo stesso tipo di reazione anche se all’estero ci chiedono di fare più pezzi in italiano perché il pubblico è curioso nei riguardi della nostra lingua madre.
Petra: Nonostante le differenze nel mondo è bello vedere che la gente ride per le stesse cose, si emoziona per le stesse cose. La musica è davvero un linguaggio universale che va oltre le parole.
Petra, usi la voce in tutti i modi possibili, dal sussurro al virtuosismo. Questa è una dote che in tantissimi ti riconoscono e che fa del tuo live un’esperienza da non perdere…
Petra: E’ una cosa di me che avevo intuito da molto tempo però, in effetti, fin quando non ho incontrato Ferruccio non avevo proprio gli spazi per poter fare quello che faccio adesso. Con un gruppo normale, ma anche solo con un chitarrista, non avrei la possibilità di far sentire tanti piccoli dettagli. Noi abbiamo tantissime dinamiche, andiamo dal pianissimo al fortissimo e cambiamo spesso repertorio. Tutto questo fa sì che un concerto contrabbasso e voce, che io per prima sulla carta definirei palloso, in realtà poi non lo sia affatto. Abbiamo una grande curiosità da ascoltatori e cerchiamo di trasmetterla anche in qualità di interpreti. L’uso che faccio della mia voce è frutto di necessità e virtù, anche Ferruccio si è dovuto inventare un nuovo modo di suonare. La prima volta che è venuto ad ascoltarci Peppe Servillo, con cui Ferruccio ha suonato per sedici anni negli Avion Travel, Peppe gli ha detto:“Ferrù ma tu suoni così?”
Ferruccio, a proposito degli Avion Travel, c’è qualche novità in vista?
L’anno scorso siamo stati in tour con 20 date, ricordo con particolare affetto il concerto al Castel Sant’ Elmo di Napoli. Quest’anno cercheremo di inventarci qualcosa di nuovo.
Parlando di sperimentazione, ci parli del progetto Inventa Rio?
Ferruccio: Inventa Rio è un gruppo che esiste dal 2010 formato da me, Giovanni Ceccarelli al piano, Francesco Petreni alla batteria, Dadi Carvalho alla chitarra. Alla base c’è l’idea di fondere la musica italiana con quella brasiliana in maniera innovativa. Il primo disco è uscito nel 2010 con brani in italiano e qualcuno in napoletano, nel 2012 abbiamo omaggiato Ivan Lins, con altri artisti compresa Petra, Bungaro, Maria Pia De Vito, Samuele Bersani, Chico Buarque. La cosa bella è che Ivan è stato dieci giorni con noi a registrare il disco. L’anno scorso l’album è stato anche candidato ai Latin Grammy, tra i cinque migliori dischi della musica popolare brasiliana; questo, però, in Italia non l’ha saputo quasi nessuno.
Tornando a voi due, dopo la lavorazione di “Little Wonder” avete continuato a scrivere e comporre?
Petra: Sono conscia di essere più forte come interprete che come autrice quindi non ho l’ansia di voler per forza scrivere cose mie. Ferruccio invece è più prolifico.
Ferruccio: Non mi definisco un compositore come prima professione. Già con gli Avion Travel, da strumentista lavoravo principalmente sulla musica. Oggi per i testi collaboro quasi sempre con Alessio Bonomo. Magari per un anno non scrivo niente poi magari in venti giorni vengono fuori tre pezzi. Non c’è una regola fissa. Io e Petra abbiamo registrato molte canzoni inedite, scritte da tanti bravissimi autori, per cui il prossimo album è già quasi pronto. Questo “Little Wonder” è stato voluto perchè negli ultimi due album c’erano molte canzoni in italiano e, suonando tanto all’estero, il mercato esigeva un disco più internazionale.
Petra Magoni e Ferruccio Spinetti ph Pasquale Modica
Il palco è la vostra linfa.
Ferruccio: La prima promozione per un’artista è, in effetti, proprio il palco. Il live ti dà credito anche tra gli organizzatori e ti fa circolare negli ambienti musicali giusti.
Petra: Confermo. All’inizio venivano a sentirci dieci persone che ci hanno aiutato molto con il famoso passaparola. Non abbiamo avuto chissà quale battage pubblicitario; anche in tv non ci chiamano spesso.
Avete qualche collaborazione in programma o nel cassetto?
Ferruccio: Punto in alto. Per l’estero dico Sting e Paul McCartney. In Italia cerchiamo le collaborazioni che sentiamo più vicine a pelle: per esempio Joe Barbieri, sempre presente nei nostri ultimi dischi, Pacifico con cui abbiamo collaborato in passato. Per il resto, vedremo…
Petra: Io aggiungo Fausto Mesolella e Benjamin Clementine!
Sab 26 Settembre MUSICA NUDA – Teatro Brancaccio – ROMA
Merc 7 Ottobre MUSICA NUDA – Maison de Georges Sand -Nohant -FRANCE
Gio 8 Ottobre MUSICA NUDA – Auditorium Jacques Coeur- Bourges-FRANCE Sab 10 Ottobre MUSICA NUDA – Centre Culturel Jean-Arp- Clamart-FRANCE
Lun 19 Ottobre MUSICA NUDA-Istittuto Italiano di Cultura- Belgrado – SERBIA
Mar 20 Ottobre MUSICA NUDA – Jazz Festival – Pancevo – SERBIA
Ven 30 Ottobre MUSICA NUDA – Teatro delle Ali – Breno – BRESCIA
Sab 31 Ottobre MUSICA NUDA-Reims JazzFestival-Caveau Mumm-FRANCE
Lun 9 Novembre Pippo Delbono, Petra N Magoni, Ilaria Fantin ‘IL SANGUE’- Liege – BELGIQUE
Mar 17 Novembre Delbono, Magoni e Fantin ‘IL SANGUE’ – PRATO
Merc 18 Novembre MUSICA NUDA – Teatro Puccini – FIRENZE
A due anni e mezzo di distanza da “Pazienza”, Vacca ritorna in pista con “L’Ultimo Tango”, dal 18 settembre nei negozi per Produzioni Oblio/Sony Music. L’album è stato registrato a Kingston, in Giamaica, dove l’artista si è trasferito in pianta stabile. In questo lavoro, il quinto ufficiale, Vacca fonde tutte le sue passioni musicali utilizzando un linguaggio particolarmente ruvido e senza filtri, decisamente in linea con lo scenario socio-politico contemporaneo. In “Trust No One”, l’ultima traccia del disco, l’artista si cimenta, inoltre, per la prima volta, col “Patois” (la lingua creola giamaicana) e si propone al pubblico in una nuova chiave alludendo all’inizio di un nuovo percorso professionale che si prospetta all’orizzonte. Ecco tutto quello che l’artista ci ha raccontato qualche giorno negli uffici di Ma9Promotion a Milano.
In che senso questo album rappresenta l’inizio di una nuova era?
Non penso che all’interno della durata del ciclo della vita una persona possa riuscire a raggiungere la perfezione in termini musicali o artistici. Può esistere la perfezione in un certo periodo ma, arrivati ad un certo punto, bisogna accettare il fatto che la ricerca debba essere continua. La mia perfezione deve ancora arrivare.
Come valuti l’attuale situazione della scena rap italiana?
Apro una piccola parentesi: in Italia ci sono stati tanti rapper, nomi anche molto importanti che hanno fatto la storia di questo genere. Quello che è cambiato oggi è che tutte le regole e le strutture che si erano venute a creare, oggi non ci sono più. Adesso tutto è cambiato, sono arrivati artisti che se ne fregano di determinate regole, hanno fatto sì che il pubblico si abituasse ad un suono più vero, meno finto. Adesso il web è in grado a dare la giusta visibilità a determinati artisti; io sono uno di quelli nati e cresciuti con il web. Ho regalato davvero tanta musica attraverso la rete e questo mi è servito tanto a diventare quello che sono oggi. Il rapper è un tipo di artista che ha sicuramente più dignità di altri. Certo, a tutti e capitato di scrivere la hit per la radio ma, ad oggi, nessuno ti può dare la certezza che un singolo popolare possa facilitarti l’ingresso in determinati canali. Alla luce di quanto detto, la mia filosofia è: io faccio questo tipo di musica, se non ti piace, bene, se ti piace mi ascolti, non ho bisogno di scendere a compromessi.
Vacca ph Paifo
Come hai lavorato alla costruzione dei suoni di questo album insieme a Big Fish e Mastermind?
Con Fish lavoro ormai da un po’ di tempo, l’ultimo lavoro che abbiamo fatto insieme era “Sporco” nel 2010. Con Mastermind mi aveva prodotto “Faccio tutto quello che voglio” nel 2008. Per quanto riguarda le basi, tutto nasce da una richiesta mia in termini di genere. Solitamente fornisco una direzione in cui andare, poi è tutta farina del produttore. A quel punto posso scegliere il tipo di struttura, dire se voglio partire con la strofa invece che con il ritornello, posso apportare determinate modifiche sulla traccia dopo che ho registrato. Una volta mandata la voce in Italia, dato che io registro in Giamaica, i produttori hanno tutto il tempo per fare le modifiche, trovare i suoni più adatti alla mia voce.
Per quanto riguarda le tematiche che affronti in questo lavoro, quanto ha influito il fatto che tu l’abbia scritto in Giamaica?
Scrivo i miei dischi in Giamaica dal 2009. Il posto in cui vivo, le problematiche dell’isola, la gente, la lingua, il vivere in maniera diversa mi aiuta, mi dà ispirazione, mi fa vedere cose che non avrei modo di vedere altrove. Per quanto riguarda gli argomenti, in ogni lavoro cerco di essere diverso. Questo è l’ album più rap di tutta la mia storia. Di solito mischiavo il rap con il raggae, la dancehall, inserivo canzoni d’amore, robe che magari gli altri rapper non facevano. Qui ho trovato altri topic, diversi argomenti. C’è un pezzo che ho dedicato a tutti quanti i miei amici, uno che parla dei sogni in un modo diverso da quanto fatto in passato, un brano leggero, come “Il Ragazzo coi dread”, che parla di quello che sono io fisicamente. C’è un brano dedicato a mia figlia, una canzone dedicata all’amore in modo ironico e un pezzo semplice m molto tecnico come “Abc”.
Per “L’Ultimo Tango” ti sei avvalso di collaborazioni importanti…
Sì. Ho scelto un artista nuovo, il cui nome è Paskaman, perché non mi piace dar spazio solo ed esclusivamente ai nomi che tutti quanti conoscono. In ogni mio disco c’è sempre qualche nuova realtà. C’è Jake La Furia, membro storico dei Club Dogo, con cui non collaboravo dal 2004. Undici anni dopo abbiamo deciso di omaggiare i nostri fan con questa collaborazione, poi c’è un pezzo con Jamil, il mio figlioccio artistico, e uno con Egreen , anche lui presente nella mia crew Vooodo Cod. Con Danti dei Two Fingerz abbiamo raccontato la situazione italiana in un modo più attuale. Poi c’è un altro ragazzo che si chiama Cali, un emergente veramente talentuoso. C’è Enrico dei Los Fastidios, il cui genere è lo ska. Il brano realizzato con lui parla dello stadio perché Enrico è uno dei responsabili della curva della squadra di calcio Virtus Verona, una squadra che milita in serie D la cui curva è molto impegnata contro il razzismo, contro l’omofobia. Si lotta contro duemila cose a favore dei diritti della gente. Quando sono in Italia spesso vado a seguire le partite della squadra. In curva ci sono punk, rappers, insomma un po’ di tutto; più che una curva, si tratta di un piccolo centro sociale da dove partono tante iniziative.
Come è stato cantare utilizzando il Patois, la lingua creola giamaicana?
Questo è il primo brano che ho registrato in Patois. Per questo motivo ci sono particolarmente affezionato e ho voluto che fosse in questo disco. Non è tecnicamente perfetto, si sente tanto l’accento italiano ma mi fa piacere che, pur avendo cambiato lingua, sono riuscito a mantenere intatta la mia tecnica.
Si tratta del primo passo verso qualcosa di nuovo?
In effetti abbiamo un album pronto, mancano due/ tre pezzi da registrare ancora. Sto lavorando affinchè il prossimo anno si provi ad andare in Europa. Cambierò tutto, si tratterà di un altro Vacca, quello che faccio ora non c’entra niente, sarà musica super leggera, con tanto reggae. C’è un team che sta lavorando su una serie di singoli, che mi aiuta a scrivere, a pronunciare perfettamente, che mi fa le basi e che mi obbliga ad andare in studio in determinate situazioni. Si tratta di un progetto pensato per uscire dall’isola, tutti i pezzi sono fatti uno alla volta, ognuno ha la propria storia e potrebbero anche non fare parte di un unico album. Il fatto di cantare in patois mi ha fatto venire la voglia di ricominciare, sto ritornando a 12 anni fa. Nessuno mi ha mai messo limiti o paletti. Non c’è stato mai nessuno che abbia potuto dirmi cosa dire, cosa fare, come dovermi presentare; ho sempre fatto tutto di testa mia ma sempre insieme al mio team. Ovviamente c’è gente che investe su di me mi hanno sempre lasciato libero.
Vacca ph Paifo
Qual è il legame tra questa cover così aggressiva con il titolo dell’album?
Guardando la forma del coltello, si evince la somiglianza con il cinque romano, ovvero il mio quinto disco. La forma simboleggia anche la V di Vacca. “Arancia meccanica” è stata una delle più grosse ispirazioni. Il coltello simboleggia anche un taglio: è finita un’ era, è finito un periodo. Tutto quello che volevo fare, l’ho fatto. Con questo non significa che non voglia fare altro, voglio fare molto di più ma a un certo punto bisogna anche essere capaci di rimettersi in gioco. Questa, per ora, è la mia ultima danza italiana.
Come porterai tutto questo dal vivo?
A questo giro voglio creare uno show come non ho mai fatto prima. Voglio riuscire a portare ad un ottimo livello tutta la produzione e mi piacerebbe coinvolgere tutti coloro che hanno fatto parte di questo progetto e della mia storia negli ultimi 10 anni. In scaletta ci sarà tanto di questo disco ma darò spazio anche al rap del mio passato, cercherò di accontentare tutti con due ore e mezza di super show.
27/09 Agrigento – Mondadori c/o C.C. Le Vigne ore 19.00
28/09 Bari – Feltrinelli ore 17.00
La tracklist del disco:
“INTRO (NON UN PASSO INDIETRO)”, Prodotta da Zef; “L’ULTIMO TANGO”, Prodotta da Rik Rox ; “ABC”, Prodotta da Mastermaind e Kermit; “IL RAGAZZO COI DREAD”, Prodotta da Mastermaind; “MANCHI SOLO TU FEAT Enrico Los Fastidios”, Prodotta da Kermit; “NOI VS TUTTI”, Prodotta da David Hoover; “TRENDSETTER FEAT JAKE LA FURIA”, Prodotta da Rik Rox; “FINE DI UN SOGNO” Prodotta da Kermit; “ANCORA QUA FEAT JAMIL”, Prodotta da A&R; “MONA LISA”, Prodotta da A&R; “LEAD NEVA FOLLOW FEAT PASKAMAN”, Prodotta da Zef e David Hoover, “REVOLUTION” feat DANTI, Prodotta da David Hoover; “SANGUE DEL MIO SANGUE” , Prodotta da Mastermaind; “JORDAN” feat Cali, Prodotta da Kermit; “AKA” feat EGREEN, Prodotta da David Hoover; “TRUST NO ONE”Prodotta da BigFish.
“Kiss kiss bang bang” è il nuovo album di Baby K. Prodotto da Tagagi e Ketra, l’album si compone di 14 tracce in cui l’artista svela per la prima volta il suo lato più intimo ma sempre con uno stile diretto e grintoso. Il filo conduttore di questo nuovo lavoro è il concetto della dualità, fortemente tangibile nella contrapposizione di tematiche e sonorità. I due elementi che più emergono sono le carezze della femminilità, che si traduce nelle melodie, e la forza della determinazione che si ritrova nel rap. Dopo gli ottimi riscontri ottenuti del singolo platino “Killer” feat. Tiziano Ferro e dell’album “Una seria”, Baby K riparte con una nuova consapevolezza e con la grande forza derivante dallo straripante successo dell’irresistibile singolo “Roma-Bangkok”. Ecco cosa ci ha raccontato l’artista in occasione della presentazione dell’album a Milano.
Come nasce “Kiss Kiss Bang Bang”?
Dopo un anno frenetico mi sono fermata per un pò e ho riflettuto su cosa avrei voluto comunicare. Mi sono affacciata alla musica come emergente, quindi volevo creare un album che spiegasse a tutti chi fossi veramente, che parlasse non solo delle mie idee ma della mia vita con riferimenti molto precisi a quello che ho fatto e vissuto. Ho pensato molto a cosa volevo dire e a come il pubblico mi ha percepito fino ad oggi. Questo è il risultato ed è la mia rivoluzione.
Perché “Kiss Kiss Bang Bang”?
Il titolo si ricollega ad almeno tre film omonimi e rappresenta la perfetta sintesi di quello che volevo comunicare attraverso il disco: un gioco di contrasti.
A cosa ti sei ispirata per la cover e il booklet dell’album?
La cover si colloca a metà strada tra “Dirty Dancing” e “Flashdance”. Attualmente sono in fissa per gli anni 80 e 90 quindi mi piaceva l’idea che la cover avesse un mood vintage. Nei testi parlo delle cose che faccio, dello shopping online, dell’amore ai tempi degli hipster, della mia passione per la moda. Ho anche studiato per fare la stylist in una costosa scuola di Roma, poi ho scelto la musica ma mi è rimasta sempre una passione sfrenata per gli abiti. La maggior parte dei miei soldi li spendo per fare shopping, è una cosa che amo.
“Chiudo gli occhi e salto” è un brano in cui ti esponi tanto…
Se in “Roma – Bangkok” racconto la voglia di viaggiare e di divertirsi, in “Chiudo gli occhi e salto” evidenzio le sofferenze degli addii. Mi sono messa a nudo ed ho tirato fuori tutte le emozioni più intime che, per la prima volta, racconto ad alta voce: gli amici, la famiglia, i ricordi. Per il featuring di questo brano ho scelto Federica Abbate che, insieme ai produttori del disco, mi ha accompagnata in questo viaggio.
Baby K
Via libera alle fantasie in “Lasciati le sneakers”.
Ho approfittato di questo pezzo per prendermi una piccola rivincita. In questo caso la donna ha in mano le redini del gioco…
Non sei nuova a collaborazioni di successo eppure “Roma – Bangkok” rappresenta un caso eclatante. Come nasce questa canzone?
Avevamo il disco pronto ma ci mancava un brano d’apertura, un pezzo forte da lanciare per il mio ritorno. I produttori mi hanno mandato questo brano nel giro di cinque giorni e, appena l’ho ascoltato, mi sono messa a ballare. Ogni canzone del mio album gioca sui contrasti, quindi anche questo doveva farlo, ci abbiamo pensato un po’ su e poi abbiamo scelto Giusy Ferreri, un nome che nessuno si sarebbe aspettato. Lei in pochissimo tempo ci ha mandato il provino e, quando è arrivato, è nato subito grande affiatamento.
Il grande riscontro ottenuto da “Roma – Bangkok” ti pone in uno stato d’animo più rilassato rispetto all’uscita del disco?
Sinceramente il successo di un brano non garantisce nulla. Diciamo che inizio in maniera positiva, parto con il sorriso.
Di forte impatto è anche “Fakeness”, il brano in cui hai collaborato con Madh.
Ci siamo conosciuti dal vivo al Coca-Cola Summer Festival e ho subito pensato che la nostra collaborazione poteva essere interessante perché Madh ha gusti molto esterofili come i miei. Avevamo scritto ognuno una canzone molto simile dedicata alle persone che trovi in discoteca e sulle serate frivole. Abbiamo unito le due cose ed ecco fatto! “Fakeness” è un brano sui generis che fin’ora in Italia non abbiamo mai trovato e sono convinta che i fan di Madh lo apprezzeranno.
“Hipster Love” è un brano molto attuale…
Il brano racconta di una ragazza che porta a casa un hipster. È un gioco, è l’amore 2.0. Allo stesso tempo difendo e ironizzo su una delle figure più attuali e cult dei nostri tempi.
Ti senti più pop o più rap?
Da sempre coesistono in me sia lo spirito del rapper che quello della cantante. Più vado avanti con il tempo, più sono conquistata dalle melodie. Logicamente non potrò mai diventare una cantante in senso classico, ma sono anche convinta che a 50 anni non potrò presentarmi così come adesso. Quello che è certo è che conserverò il mio stile ed il mio modo di esprimermi.
La tua musica punta all’estero?
Ammicco a un sound estero perché ci sono cresciuta, è naturale. Mi piace l’idea di essere una novità e del fatto che magari sto rompendo le regole. Non mi precludo nulla ma, per ora, voglio focalizzarmi sul panorama italiano.
Ti esibirai alla finale di Miss Italia con Giusy Ferreri. Come vivi la cosa?
Sono contenta di partecipare! Io e Giusy abbiamo creato un connubio energetico e metteremo un po’ di grinta e un po’ di pepe al programma!
Cosa auguri a questo disco?
Spero che vi faccia entrare nel mio mondo pieno di colori ma sempre autentico e vero!
Una lunga gestazione, un meticoloso lavoro di ricerca sonora e musicale e messaggi pregni di significato caratterizzano “Le stelle non tremano”, il sesto album in studio di Dolcenera pubblicato l’11 settembre. L’album arriva a distanza di tre anni dal precedente “Evoluzione della specie” ed è interamente scritto, arrangiato e prodotto dall’artista. Gli undici inediti presenti nella tracklist trovano ispirazione in Kant, Platone, Gandhi, così come a Pasolini e Monicelli e si muovono tra suoni elettronici, canzone d’autore e contaminazioni orientali e africane confermando la natura eclettica di Dolcenera, sempre più cantautrice del nostro tempo. Tra filosofia, sentimenti e ricerca, Emanuela Trane disegna il percorso di un cammino che offre diverse piste da seguire. Il risultato è un’accattivante alchimia di generi che va dal pop più classico alla dance più esaltante, dal rock più graffiante al sound dell’estremo oriente. Con le sue debolezze, i suoi punti di forza e tutta la passione che la contraddistingue, Dolcenera è tornata con un progetto ambizioso, completo, innovativo che esorcizza il nostro demone comune: la paura del futuro.
Ecco quello che l’artista ci ha raccontato:
“Le stelle non tremano” è un album che non lascia niente al caso, a partire dalla data di uscita…
Tutti tendono a ricordare più facilmente la dichiarazione di guerra al mondo con il tragico attentato che ha coinvolto le Torri Gemelle di New York, invece della dichiarazione di pace nel mondo che fece Gandhi nel 1906 con la ‘Satyagraha’. Verso i tre quarti del processo di scrittura dei testi di questo album mi sono resa conto del fatto che parlavo sempre della stessa cosa, temevo che mi stessi ripetendo e mi chiedevo dove volessi arrivare. Alla fine ho capito che il filo conduttore era uno solo: combattere la paura del futuro. Mi sono resa conto che questa tematica era presente in tutti i pezzi, ognuno chiaramente prendeva un’accezione diversa però partiva sempre da una constatazione della realtà e del nostro periodo storico. Siccome l’11 settembre è il giorno in cui hanno voluto metterci paura, ho scelto questo giorno proprio per esorcizzare la paura. In “Niente al mondo”, ad esempio, ho scritto: “Abbiamo vinto/abbiamo perso ma/è il nostro tempo/per quello che ne so/ è tutto quello che ho”; c’è stata una fase in cui siamo stati bene e adesso siamo in crisi ma questo è il nostro tempo ed è tutto quello che abbiamo.
Perché contrapponi il sogno alla speranza?
Volevo scrivere una canzone sulla speranza per innescare un tipo di atteggiamento positivo. Dopo la rabbia di “Ci vediamo a casa”, un pezzo che non dava speranze in cui cantavo “La chiamano realtà questo caos legale di dubbia opportunità”, ho voluto trasformare questo sentimento in speranza contro precarietà e disgregazione. Mi sono ritrovata per caso a leggere qualcosa di Pasolini e guardare su Youtube un video di Monicelli, entrambi avevano detto in momenti diversi la stessa cosa: avevano contrapposto la speranza al sogno. La speranza è qualcosa di negativo e di passivo che ti porta a credere che ci sia qualcuno che ti possa regalare una via d’uscita; il sogno invece è attivo, porta a muoversi, ad agire. Ho capito che bisogna combattere la passività della speranza, non serve aspettarsi qualcosa se questo non viene cercato e conquistato.
Il testo di “Credo” gioca su alcuni atti di fede smontandoli subito dopo. Tu in cosa credi?
Credo nella passionalità, nella trasparenza , nella sincerità, nell’equilibrio dei sentimenti e delle forze della natura, nell’amore e nella capacità di raggrupparsi. Alla fine credo che tutto sia collegato dalle fogne fino al cielo stellato. Siamo tutti inscindibilmente collegati.
Come sei arrivata al titolo dell’album?
Il titolo nasce da una frase che è all’interno di “Fantastica”, una canzone dedicata a un amico che non c’è più e che mi ha insegnato a vivere con un sorriso, con ironia. “Le stelle non tremano” è arrivato anche perché lui studiava ingegneria aerospaziale e anche perché quando si pensa ad una persona che non c’è si tende a guardare il cielo. Un’altra motivazione è che questa frase è anche metafora di non avere paura, provare a guardare le cose da una diversa prospettiva.
Cos’è che ti fa sognare?
Mi appiglio ogni volta a qualcosa di diverso: all’amore, alla passione, allo sport (sono sempre stata una sportiva sin da bambina), alla musica. Le passioni possono essere cangianti ma ogni volta devo andare fino in fondo. Mi piace conoscere, sapere, scavare e la musica è qualcosa che ti consente di continuare ad imparare e conoscere per tutta la vita.
Dolcenera ph Paolo Cecchin
Quanto tempo ci voluto per realizzare questo progetto?
Ho scritto l’album in due anni e mezzo, quasi tre. Si tratta di un lavoro portato avanti a fasi, con tempi di pausa. Ho sempre cercato di mantenere una certa indipendenza artistica, lasciando alla persona il tempo di vivere per poter raccontare. Un lusso che mi sono concessa e che si paga in tanti modi. Ad esempio in famiglia non fanno altro che ripetermi che non mi si vede in tv. Che devo farci? Sto facendo quello per cui forse dopo andrò in tv (ride ndr).
A proposito di presenza in tv, l’esperienza del reality l’hai definita devastante…
Sì, quella sì. Sono stata la madrina di questo disastro (ride, ndr). Music Farm uno strano reality musicale con dei cantanti che avevano anni di carriera alle spalle. Fu una rivelazione il fatto che per ben due edizioni vinse ‘il giovane’ del gruppo. Quando ho fatto quell’esperienza, non avevo consapevolezza dell’età che avevo , ero più chiusa, più bambina. Anche da ragazzina non parlavo spesso, per me è stato molto difficile. In seguito ho dovuto cambiare approccio ma questo cambiamento è avvenuto solo recentemente. La cosa bella di quell’esperienza è stato il mio scoprirmi arrangiatrice. Per esempio quando c’era da fare una cover, potevo studiarla e farla mia. Mi ricordo soprattutto la mia versione di “I will survive”.
Ti capita di guardare i reality show?
Io non guardo assolutamente reality, guardo solo Super Tennis, DMax e Focus.
Parlando della minuziosa ricerca sonora che caratterizza il disco, ci racconti le tappe che hanno scandito la scelta degli arrangiamenti, in particolare quello di “Immenso”?
“Immenso” è una delle mie preferite del nuovo album. L’arrangiamento è molto particolare, moderno ma al contempo fedele alla tradizione della musica italiana. E’ un pezzo che ruota attorno a diversi punti di vista, c’è lo spazio che riempie il cuore, ma anche un vuoto che crea un abisso nell’anima. Ho lavorato veramente molto alla realizzazione di questo brano, circa due mesi. La grande scoperta è il synth suonato a reverse, una figata cosmica. Ho usato anche una tromba solista e, dato che mi è piaciuta molto, l’ho inserita in diversi pezzi. Anche il basso di questo pezzo è uno dei più belli dell’album; l’ ho programmato nota per nota al pianoforte ed è difficilissimo da suonare.
Dolcenera ph Paolo Cecchin
Come porterai tutto questo in tour?
Sono due anni che non faccio tour, non posso portare una trentina di elementi sul palco per cui dovrò capire come riarrangiare tutto con 4-5 elementi . C’è un uomo che renderà speciale la scenografia dello spettacolo, lui è Joe Campana, un super professionista che lavora con i più importanti nomi della musica italiana ma soprattutto un uomo concettuale. A dicembre ci sarà un tour teatrale e, sebbene, non si tratterà di un concerto acustico, non rinuncerò ad una parte piano e voce in cui potrò sbizzarrirmi e divertirmi di più.
Ci racconti come è nato il concept della cover e del booklet dell’album?
Conosco da anni Guido Daniele, un artista di fama internazionale, un uomo che fa parte di una generazione folle, che noi non possiamo capire. Guido mi proponeva da tempo un progetto artistico e, in quest’occasione, ha voluto coinvolgere anche il noto fotografo Paolo Cecchin lasciandomi comunque la libertà di scegliere cosa farmi dipingere sul mio corpo. Dato che per questo disco ho pensato all’elettronica contaminata da strumenti primordiali, ho pensato a circuiti e neuroni; sono un’aliena con tratti umani.
Come affronti la paura?
Riesco a superare la paura dei cambiamenti soltanto con la voglia di sorprendermi. Non posso pensare di poter fare una cosa uguale all’altra, devo poter crescere, questa è l’unica cosa che mi salva.
Il brano “L’anima in una lacrima” racchiude in sé una metafora che esprime un concetto molto intenso. A cosa o chi ti sei ispirata?
Avevo in testa questa frase a cui pian piano volevo dare un senso. Quando ho scoperto le parole di Herman Herman Hesse ho capito: “Le lacrime sono lo sciogliersi del ghiaccio dell’anima”. Parole diverse per esprimere un concetto simile e che possono raccontare sentimenti e situazioni differenti.
Ne “Il Viaggio” dici: “Cos’è che vedi in me tra miliardi di vite”. Un maestoso interrogativo…
Questa canzone ha una doppia dedica: in primis al mio compagno e poi ai ragazzi del mio Fanclub. Ho tradotto il tutto in forma musicale con le claps da stadio, i cori e la condivisione dei suoni che arrivano dal pubblico.
Quanto amore c’è in questo lavoro?
L’amore in questo disco è presente in tante forme: l’amore verso un progetto, verso un sogno condiviso, per la persona che ti sta accanto, colui che ti dà l’equilibrio e che ti tira fuori dalla depressione.
Dolcenera ph Paolo Cecchin
Perché hai definito il brano “Universale” come una sorta di testamento?
Questo è il mio pezzo preferito, oltre a “Immenso”. Chiaramente anche gli altri brani hanno una particolarità sia sonora che contenutistica. Questo, però, è un po’ più complicato. “Effimero è il destino di vivere sospesi” è l’intro ed è già chiaro che siamo su un altro livello. Adoro questo pezzo perché è complicato quanto lo sono io, è la sintesi totale di me. Nella terza strofa scrivo: “Determina le sorti/non è virtù dei fessi/ avere più fiducia/per credere in se stessi/ ma è come avere in mano un libro senza le parole”. Il senso è: va bene essere caparbi ma bisogna avere un contenuto, bisogna sforzarsi di riflettere, di avere un’opinione sul mondo, di studiare, di approfondire, avere la voglia di scrivere ogni giorno una frase nuova sul libro della vita.
Ogni giorno è un giudizio?
La capacità di autoanalisi è la nostra prova quotidiana. “Cerco di fare qualcosa di nuovo ogni giorno, senza paura”, così mi disse un miliardario che incrociai una volta in Sardegna. Alla fine è vero, l’attitudine a fare una cosa diversa al giorno può fare la differenza nel nostro piccolo.
Stai anche producendo dei lavori per altri?
Sì sto seguendo un ragazzo ma è ancora top secret.
Com’è lavorare con te?
Siccome io ho fatto tutto da sola, sono convinta che anche gli altri debbano fare da soli. L’ideale è scoprire qual è la caratteristica di suono più adatta alla propria scrittura. Insieme facciamo un percorso mentale e di scrittura poi chiaramente ci metto un po’ del mio per quanto riguarda gli arrangiamenti…
Quali sono i tuoi ascolti?
Non ho un gusto musicale preciso, a me piace tutto e cerco di prendere il meglio di ogni genere. Mi piace usare diverse applicazioni che mi consentono di spaziare. Non parlo solo di iTunes e Spotify, c’è anche Discover Music che mi permette di scoprire gruppi e cantautori che non hanno mai pubblicato.
Unicità, talento, sperimentazione sono le parole in cui è racchiusa l’essenza di John De Leo, una delle voci più particolari della scena musicale italiana. Il poliedrico musicista-cantante-compositore-autore è da ascriversi a pieno titolo in quella scia di grandi pionieri della strumentazione e della sperimentazione della voce. L’artista sarà questa sera sul palco del CarroPonte (Sesto San Giovanni) per presentare “Il Grande Abarasse”, il disco che segna il ritorno di De Leo sulle scene a sette anni di distanza dal suo ultimo progetto discografico, un concept album ambientato in un ipotetico condominio all’interno del quale ogni brano corrisponde ad uno dei suoi appartamenti.
Intervista
Nel 2014 pubblicavi “Il Grande Abarasse”, un lavoro che ha richiesto molto impegno ed una lunga gestazione. Qual è il percorso che questo album ha compiuto fino ad oggi?
Se parliamo di viaggio, posso dire che “Il Grande Abarasse” ha percorso quanto meno l’Italia. Siamo inaspettatamente riusciti, io e i ragazzi della banda, piuttosto cospicua, a portarlo in giro in diversi concerti. Dico inaspettatamente perché questi ultimi tempi di crisi consigliano di ridurre sempre di più le formazioni e i relativi costi. Come antidoto a questa crisi, ho pensato di premere l’acceleratore in senso opposto, soprattutto riflettendo su esigenze musicali che implicavano un numero importante di musicisti.
Come è stato possibile portare avanti questo tipo di discorso live così complesso e chi ti accompagna in questa avventura?
In effetti sono tutti musicisti molto bravi, in tutto siamo nove e siamo anche affiatati aldilà delle scene. Ho sempre pensato che dovesse essere necessario poter condividere qualcos’altro aldilà del lavoro; forse sono invecchiato però ho bisogno anche di una certa tranquillità dal punto di vista umano.
La scelta di una band numerosa in qualche modo vuole rendere merito ad un lavoro che ha richiesto uno sforzo creativo importante?
Senz’altro. Questa formazione vorrebbe restituire il suono del cd, in cui ha collaborato un’orchestra vera e propria composta da una trentina di elementi. L’occasione è stata possibile grazie al contributo di Arci che ha supportato tutta l’operazione sia dal punto di vista economico che promozionale. Per restituire quella massa sonora, tutti gli arrangiamenti e tutti i contrappunti che sono stati pensati, ho scelto di portare più persone in tour, riducendo comunque il tutto all’osso con una piccola rappresentanza delle varie sezioni.
Per quanto riguarda il Ghost album, cosa hai pensato per valorizzarlo?
Sono lieto del riferimento a questo lavoro. Ai tempi della presentazione credetti che con questo album nascosto, che si può sentire dopo le tracce ufficiali, avrei potuto spaventare i giornalisti. Questo è il mio lato più sperimentale, limito la mia vocalità, che forse fino ad oggi è stata anche la mia fortuna, proprio per misurarmi con quella che forse è la mia passione parallela ed identica all’aspetto vocale che è, per l’appunto, la musica. Più che cantanti io ascolto soprattutto composizioni strumentali.
Quali?
Ascolto molti compositori di musica classica del ‘900. Di certo non mi metto minimamente a confronto però posso dire che rappresentano un grandissimo stimolo per me. Cito Musorgskij, un compositore che trovo ancora geniale perchè tende non spettacolarizzare una musica comunque densa di esplosione.
A proposito di questo, tempo fa hai dichiarato: “Non canto quello che la gente si aspetta, il rispetto per il pubblico non sta nell’accontentarlo”. Un punto di vista in netta controtendenza con l’attualità…
Questo non è solo il mio motto, è il mio credo. Credo di aver parafrasato il discorso del pittore Baziotes che in altri termini ha detto qualcosa di simile. Da ascoltatore, mi piace essere sorpreso da quello che ascolto ed essere traghettato dove non prevedevo sarei finito. La mia musica va verso questa direzione: evita approdi consolatori e telefonati.
Infatti uno degli obiettivi che si pone la tua musica è proprio quello di innescare domande…
Mi metto sempre nei panni dell’ascoltatore, essendo io stesso tale, nonché un grande appassionato di musica. Mi piace poter ricreare l’opera che sto ascoltando e fantasticare in modo arbitrario e personale rispetto alle volontà del compositore. Quando il compositore dà l’opportunità di fare questo esercizio in modo naturale per me la composizione è perfetta.
È vero che molte idee che dovevano confluire in questo album compiute o quasi?
Nonostante siano passati sette anni dall’ultima pubblicazione, di cui quattro sono stati necessari per il compimento di questo album, tante idee sono rimaste fuori mentre altre cose che ho pubblicato le vedo ancora come incompiute. Menomale che c’è qualcuno che dice basta ed evita che si esca direttamente con un disco postumo (ride ndr). Altre idee incompiute, o che non sono confluite qui, serviranno certamente per un prossimo album perché “Il mercato vuole che si sia sempre presenti con dei prodotti nuovi”.
John De Leo ph Elisa Caldana
Per quanto riguarda la dimensione live, come presenteresti un tuo concerto? Per esempio quello che terrai questa sera al CarroPonte di Sesto San Giovanni (Mi)?
Al CarroPonte si cercherà di portare a casa il concerto nel senso che non siamo in un teatro e lo dico anche felicemente. Sarà bello misurarci con un pubblico diverso da quello che ci si aspetta in teatro. Di contro la scaletta sarà più misurata verso l’impatto anche se non tradirò me stesso e cercherò di immettere tra i brani più facilmente ascoltabili, anche delle inserzioni astruse.
La tua è anche arte estemporanea…
Sì, ci sono diversi momenti di improvvisazione, cerco di condensare alcuni aspetti di due linguaggi come quello del jazz e della psichedelia nel rock. Apro delle parentesi improvvisate sempre nuove che cambiano in base alla location e al pubblico che, in questo senso, ha in mano le redini del concerto.
Tutto parte dell’amore per il dettaglio?
Senz’altro. Spesso l’idea narrativa nasce proprio da un dettaglio, altre volte la canzone stessa parla di un dettaglio. Quello che mi indigna è che la cultura è pregna dei linguaggi modificati dalla crisi del mercato. Per quel che mi riguarda cerco di non mortificarmi, non posso e non ci riesco, in virtù dell’amore delle cose che ascolto, aldilà delle mie. Non so posso suonare o raccontare qualcosa il cui fine sia semplicemente quello di accattivare qualcuno.
Incontriamo Nesli nel megastore della Mondadori in Piazza Duomo a Milano per la presentazione di “Andrà tutto bene – live edition”( pubblicato per Universal Music) e del suo primo libro “Andrà tutto bene” (sottotitolo: quel che ho imparato dai momenti più difficili), in uscita il prossimo 8 settembre. Emozionato, felice, leggermente teso, entusiasta ma soprattutto umile. Francesco Tarducci dice di non non essere un vero scrittore, lui che della scrittura ne ha fatto uno strumento terapeutico, è, in verità, un “cacciatore di parole belle per spiegare quello che non si può dire”. In questo suo primo libro, l’artista ha portato avanti un lungo processo di autoanalisi, coadiuvato da Valentina Camerini. Si scrive anche a comando, scrive Nesli, ma più di tutto si scrive ciò che si prova; ed è esattamente così. Francesco si racconta a cuore aperto, senza filtri e butta fuori tutto il suo dolore, quasi esorcizzandolo proprio mentre lo consuma, una catarsi personale a cui assistiamo rapiti ed emozionati. Francesco scrive tanto e bene, cura i dettagli, inserisce dei distinguo tra maiuscolo e minuscolo dei versi tratti dalle sue canzoni, che tante volte sono più simili a delle poesie. La parola che ricorre più spesso in “Andrà tutto bene” è “onesto”: Onesto: sentirti dire che non funzioni è dura. Onesto, a quel punto comincio a cedere. Onesto. Dovrebbe essere il periodo più brutto della mia vita. E invece. Mi sento libero in maniera selvaggia, circondato da vita. E felice, nonostante tutto. Ecco, l’onestà è lo strumento chiave attraverso il quale Nesli rilegge se stesso, stimolando anche noi lettori a fare lo stesso. Senza dire di no a nulla, senza negarsi nulla, Nesli racconta di come ama perdersi nelle esperienze, avanzando seguendo semplicemente il proprio istinto, perennemente in conflitto tra parti diverse. Andando avanti per tentativi e sensazioni, l’artista è riuscito a scrollarsi di dosso i drammi del passato ma soprattutto ha sconfitto il pregiudizio, la dannata bestia nera con cui il cantante ha imparato a misurarsi per tutta la vita e che oggi rappresenta la base per una nuova e ferma consapevolezza.
Intervista
Come è nata l’idea di pubblicare il dvd live?
Sono reduce da una tournée pazzesca che mi ha permesso di cantare in location prestigiose con diversi sold out. Abbiamo deciso di pubblicare questo album per la band che c’era, per il suono, per la location e proprio per come è stato strutturato. Si tratta di una finestra sul mio mondo musicale.
E la scelta di pubblicare il libro?
Scrivere un libro è difficile, è un processo lungo, di elaborazione e bisogna avere un minimo di nozioni di narrativa e di ordine. Per me si è trattato di un bel processo di analisi che mi ha richiesto un anno di scrittura, poi l’ho lasciato in un cassetto per una serie di problematiche, e solo in seguito l’ho ripreso aggiungendovi l’ultimo capitolo. Non c’è un ordine cronologico, racconto la mia vita attraverso i passaggi chiave. Ci sono anche stralci di pezzi inediti, che probabilmente vedranno presto la luce. Il racconto è affrontato in maniera cinematografica, l’ho scritto in maniera diretta, la lettura è come quella di un dialogo.
Qual è la stata la parte più difficile da scrivere?
Il capitolo più intenso è quello sulle famiglia, ritengo che al suo interno sia racchiusa la parte formativa del libro: il rapporto con i figli, la vita in provincia e le relative prospettive; è la mia storia e mi emoziona.
Che rapporto hai con il pregiudizio?
Io sono figlio del pregiudizio. So già che molti mi aspetteranno al varco e lo trovo avvincente. Anni fa vivevo malissimo il mio rapporto coi preconcetti, oggi invece rappresentano uno stimolo, qualcosa da sconfiggere. Quello che mi aspetto è che questo libro venga capito e che le mie parole non vengano travisate.
Quanto coraggio ci è voluto per raccontare te stesso ?
Ho imparato ad essere follemente ancorato alle mie idee contro tutto e tutti.
Credi che la scrittura del libro possa influenzare quella delle tue canzoni?
La scrittura e la musica vanno di pari passo, ho sempre fatto un tipo di musica che parla tantissimo di me, ho scritto un libro che parla di una persona che fa proprio quella musica. Il mio modo di scrivere canzoni ha influenzato la scrittura e viceversa.
Ti è mai capitato di essere preda della sindrome del foglio bianco?
Mi è capitato quando facevo rap. Oggi non scrivo se non ho almeno un quarto di strofa figa in testa. L’aver ammesso di non fare più rap è stato utile in questo senso, sento di avere maggiore libertà creativa, il mio tipo di musica mi rendeva meno efficace nel mondo rap e capirlo mi ha aperto nuove prospettive.
Cosa rappresenta per te la farfalla? L’hai scelta per la copertina del libro ed era presente anche nella scenografia del tour…
Preferisco lasciare libera interpretazione… Posso solo dire che per me ha una doppia valenza: da un lato rappresenta una rinascita, dall’altro mantiene insita in sé il mio lato più dark.
Oggi vi presentiamo una giovane cantante toscana di venticinque anni. Il suo nome è Gloria Bennati e il suo brano d’esordio, “Vortice”, composto da Domenico “GG“ Canu, Sergio Della Monica, Sandro Sommella, con i testi di Roberto Angelini e di Marracash, è stato prodotto dai Planet Funk. Gloria Bennati ha iniziato la sua preparazione musicale frequentando l’Accademia di canto di Luca Jurman a Milano e di Luca Bechelli a Firenze, poi ha perfezionato gli studi seguendo lezioni di canto lirico, come soprano lirico puro, con Maria Luisa Bettarini, moglie del compositore italiano Luciano Bettarini (a suo tempo insegnante di Andrea Bocelli) e partecipando a numerosi concerti. Ha lavorato anche con il maestro e compositore Fio Zanotti. Attualmente è impegnata in studio, tra la Toscana e Londra, alla realizzazione di nuovi brani prodotti da Gigi Canu (P.Funk), con la collaborazione di Marco Baroni (P. Funk) e Roberto Angelini. Ecco l’intervista con cui avrete la possibilità di conoscerla meglio.
“Vortice” è il titolo del tuo singolo d’esordio. Una canzone che racchiude un punto di svolta dei tuoi ultimi anni e che vanta collaborazioni importanti come quella di Roberto Angelini per la stesura del testo, il featuring con il noto rapper Marracash e la produzione dei Planet Funk. Ci racconti in che modo hai vissuto l’approccio con questa canzone sulla tua pelle e i dettagli delle singole collaborazioni?
Questo brano è stato un fulmine a ciel sereno. Dopo diversi anni che lavoravo dietro le quinte provando, da interprete, a cantare canzoni scritte da altri, mi è arrivato questo pezzo tra le mani ed stato come se da un certo punto di vista avessero conosciuto la mia storia e quella esperienza che nel mio piccolo avevo vissuto. Ho conosciuto i Planet Funk tramite il mio manager Marco Marati, sono sincera, prima di conoscermi erano titubanti a lavorare con un ragazza alle prime armi come me, poi dopo un provino pianoforte e voce, per fortuna, sono riuscita a conquistarli. Così abbiamo iniziato a lavorare su “Vortice” dandole un’ impronta pop elettronica e ne sono felice perché adoro il loro tipo di musica. Dato che mancava ancora il testo, è stato proposto a Roberto Angelini di scrivere il testo; le sue parole hanno creato una sorta di magia. Quando ho letto il testo per la prima volta mi sono commossa profondamente, vivevo esattamente quelle emozioni, quel grigiore, quella speranza di vivere in modo migliore, la mia vita. La canzone può avere varie interpretazioni, può essere un amore finito male, una dipendenza da farmaci, la rincorsa verso un sogno difficile da realizzare. Alla fine ci ritroviamo nella speranza comune di uscire da questo vortice di sofferenza, che molto spesso ci creiamo da soli, con le nostre insicurezze e con le nostre paure. Cantare questa canzone per me è stata una liberazione da tutte quelle angosce che da tempo mi portavo dentro. A livello artistico penso che non mi potesse capitare occasione migliore, mi piace la produzione che i Planet Funk hanno fatto sul pezzo ed insieme siamo riusciti a creare un mondo nuovo che spero incuriosisca anche gli ascoltatori.
Hai studiato canto lirico ma hai frequentato anche l’accademia di canto di Luca Jurman a Milano e quella di Luca Bechelli a Firenze. In che modo questa miscela di studi ha forgiato la tua espressione vocale?
Studio canto da quando avevo 11 anni, sin da bambina ho avuto tanta voglia di imparare e di migliorarmi. I miei primi fan sono stati i mie nonni, le mie sorelle e i miei genitori che stavano ore ad ascoltarmi cantare. Mia madre mi portava a tutte le lezioni di canto, ai concerti gospel in chiesa, ad iscrivermi i concorsi, a spronarmi a studiare canto lirico, non ce l’avrei mai fatta senza di lei. Sono state tutte queste esperienze a portarmi dove sono oggi. Jurman mi ha aiutata in un momento della carriera dove la mia voce non era al massimo e mi ha insegnato come usarla al meglio, con Luca Bechelli, a Firenze, ho cantato più di 100 provini capendo davvero per quale genere musicale fossi portata. Poi c’è Fio Zanotti, senza di lui non sarei mai riuscita a comportarmi in uno studio di registrazione come si deve ed infine Maria Luisa Bettarini, che strano a dirsi, mi ha insegnato ad usare il cuore, il canto lirico mi ha dato più di qualsiasi altro studio abbia fatto fino ad ora. Tutte queste infarinature mi hanno portata ad avere le sfumature vocali che ho e molto probabilmente ad esaltare quello che già avevo dentro ma che non sapevo di avere.
Ci racconti il tuo insolito legame artistico con i Planet Funk?
Con i Planet ho conosciuto un mondo che non sapevo potesse esistere, fatto di luci psichedeliche, solo con loro sono riuscita a crearmi un mia vera identità, hanno tirato fuori qualcosa in me che nemmeno sapevo di avere. Penso che il rapporto umano che si viene a creare con il tuo produttore artistico sia fondamentale, quando sei studio deve esserci serenità ma soprattutto fiducia. Con Gigi Canu dei Planet Funk, che tra l’altro sta producendo i miei prossimi pezzi, si è creato un rapporto di amicizia e di stima reciproca; insieme sperimentiamo moltissime cose ed io imparo ogni giorno qualcosa di nuovo, non smetterò mai di ringraziarlo per la mia crescita umana ed artistica.
Come è avvenuto il passaggio da interprete a cantautrice?
Le prossime canzoni le canterò da interprete, sempre con i testi di Roberto Angelini. Ho iniziato da poco a prendermi in considerazione come cantautrice, voglio essere brava a fare ciò faccio e Gigi mi sta aiutando anche da questo punto di vista.
I tuoi riferimenti musicali sono leggende della musica mondiale ma chi senti veramente affine alla tua sensibilità e al tuo modo di interpretare la musica?
Ho sempre ascoltato musica internazionale: adoro Florence and the Machine, London Grammar, Jessie J e tanti altri. Di cantanti storiche a cui mi sono sempre inspirata ce ne sono molte, citerei Etta James. Nina Simone, Janis Joplin. Ho sempre cercato di captare da questi grandi artisti tutto quello che potevo percepire, la sofferenza, il modo di cantare ma soprattutto la libertà con cui si esprimevano.
Qual è la formula musicale alla quale stai lavorando e cosa vorresti comunicare al tuo pubblico?
Sto cercando di entrare in una fetta di mercato che in Italia viene a mancare. Come dicevo sopra, se prendiamo il brano “Vortice” in considerazione, possiamo evidenziarne un indirizzo pop elettronico che stiamo provando a mantenere anche nei prossimi pezzi. Spero di riuscire a crearmi una mia identità e ad esprimermi nel modo più limpido possibile.
Quali sono le tematiche di cui ti piacerebbe cantare nelle tue canzoni?
Sono una ragazza di 25 anni come tante altre, con le sue paure i suoi sogni e i suoi dolori. Sarebbe meraviglioso se le persone che mi ascoltano, potessero ritrovare in quello che canto dei frammenti della propria vita, un ricordo o magari un’ emozione. Vorrei cantare di libertà, di spensieratezza e di emozioni semplici, quelle che tutti noi ogni giorno, anche senza accorgercene, viviamo.
In una recente intervista hai spiegato che vorresti scrivere una canzone che sia incentrata sulla storia di una donna combattiva e vincente…che idee hai a riguardo?
Sì, in effetti stiamo già lavorando su questa tematica. La donna è vista spesso come un personaggio più debole o forse troppo sensibile. Io vorrei raccontare la storia di una donna che, nonostante la sofferenza subita, lotta per una rinascita interiore in nome dei propri valori.
Parlaci di te, dei tuoi hobby, dei tuoi passatempi preferiti, le ultime letture e qualche curiosità di cui finora non hai mai avuto occasione di parlare.
Una mia grande passione sono gli animali! Ho sette cani, sono i miei bimbi e adoro prendermene cura. Quando sono giù di morale, mi basta stare un po’ di tempo con loro per sentirmi subito meglio. Non c’è cosa più bella dell’amore incondizionato di un animale. Adoro anche leggere: in camera ho una grande libreria, è il mio piccolo tesoro! Non ho idea di quanti romanzi possano esserci al suo interno, ormai ho perso il conto. Uno degli ultimi libri che ho letto è ”Il miniaturista” di Jessie Burton.
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