Gli X Ambassadors, originari di Ithaca, New York sono un gruppo composto dai fratelli Sam e Casey Harris, Noah Feldshuh e Adam Levin. Questa band alternative rock abbraccia un range di sonorità che spaziano dal soul all’r&b all’hip hop e con il brano “Renegades”, certificato Disco d’Oro in Italia, tormentone dell’estate 2015 e protagonista della campagna pubblicitaria della Jeep di cui è colonna sonora, il gruppo si è introdotto rapidamente all’interno dello scenario musicale italiano. Con il debut album intitolato “VHS” gli X Ambassadors presentano al pubblico 20 tracce, fra cui 10 inediti, 7 interludi e 3 brani già editi. L’album racconta la storia di un gruppo di ragazzi di provincia cresciuti amando la musica che, scandendo la tracklist con clip audio originali della propria infanzia, dell’adolescenza e dei primi anni come band, hanno voluto mettersi completamente a nudo nei confronti del pubblico. A spiegarcelo sono loro stessi durante un incontro con la stampa a Milano: «Il nostro intento era quello di creare un’atmosfera intima. I piccoli clip audio che abbiamo inserito nel disco, sono stati estrapolati da videocassette contenenti alcuni filmati girati dai nostri genitori durante la nostra infanzia, li abbiamo integrati anche con altri relativi al momento in cui abbiamo incontrato Adam. Volevamo mostrarci esattamente per come siamo, speriamo di esserci riusciti». L’album contiene collaborazioni con Jamie N Commons e gli Imagine Dragons e, anche se gli X Ambassador hanno già suonato sui palchi dei più grandi Festival, dal Lollapalooza all’Osheaga al Bonnaroo, alla vigilia del loro primo concerto italiano, previsto per questa sera ai Magazzini Generali di Milano, sentono comunque una forte emozione: «Abbiamo molte aspettative per questo concerto, ci aspettiamo che il pubblico ci accolga con tanta energia. Sarà questo a fare la differenza e a farci dare il massimo di noi stessi», raccontano senza celare una certa eccitazione.
X Ambassadors
Il titolo “VHS” s’ispira al mondo del cinema e anche in questo caso la scelta è dovuta ad una ragione ben precisa: «Nostro padre si occupava delle pubbliche relazioni nel mondo del cinema, spiega Casey (fratello del cantante Sam e tastierista del gruppo, sin da piccoli ci portava sui set dei film e la cosa ci ha naturalmente influenzato molto. “Vhs” rappresenta una sorta di icona del nostro passato e del modo in cui siamo cresciuti guardando film e filmini amatoriali girati su videocassetta». Parlando di “Renegades”, il primo singolo estratto dall’album, gli X Ambassadors hanno più volte sottolineato che il successo pubblicitario ottenuto dal brano non modificherà in alcun modo la loro identità artistica: «Renegades è il primo singolo del nostro album VHS ed è stato scritto insieme al nostro produttore Alex Da Kid. Quando la canzone è entrata in rotazione radiofonica si è innescata un’ irrefrenabile reazione a catena. Quando siamo stati contattati da Jeep per lo spot ci aspettavamo che il focus fosse sulla macchina, invece hanno voluto raccontare la nostra storia in modo trasparente, la cosa ci ha reso davvero felici». Tra i brani più apprezzati c’è anche “Naked”, il papabile prossimo singolo: «Con questo brano, posto non a caso alla fine del disco, volevamo mostrare ogni sfumatura di ciò che siamo senza avere paura di fare scoprire anche i lati più scomodi di noi stessi». In ultima analisi, un immancabile riferimento a “Unsteady”, un brano di ispirazione autobiografica, la cui presenza all’interno dell’album è rimasta a lungo in bilico: «Quando Sam ha scritto “Unsteady”, spiegano gli X Ambassadors, aveva timore a metterla nel disco e a farla sentire a tutt perché parla del divorzio dei propri genitori. Solo in un secondo momento si è convinto e ha fatto bene, questa è una delle canzoni con cui la gente si riconosce di più».
La tracklist 01. Y2K Time Capsule (Interlude) 02. Renegades 03. Moving Day (Interlude) 04. Unsteady 05. Hang On 06. Gorgeous 07. First Show (Interlude) 08. Fear feat. Jamie N Commons 09. Smoke (Interlude) 10. Nervous 11. Low Life feat. Jamie N Commons 12. Adam & Noah’s Priorities (Interlude) 13. B.I.G. 14. Feather 15. Superpower 16. Loveless 17. Jungle feat. Jamie N Commons 18. Good News On The Remix (Interlude) 19. Naked 20. VHS Outro (Interlude)
“Electronica Part 1: The time machine”(Sony Music), in uscita il 16 ottobre 2015, è il primo dei due capitoli del nuovo lavoro di Jean-Michel Jarre, pioniere ed indiscusso protagonista della scena musicale elettronica degli ultimi decenni. Inizialmente intitolato “E-Project”, questo articolatissimo lungometraggio sonoro vede al suo interno ben 15 collaborazioni di grande prestigio. Un palmares di assi che Jarre sfoggia testimoniando trasversalità, lungimiranza e voglia di innovazione. Un modo di creare e percepire i suoni in grado di innescare un processo interpretativo ed emozionale sempre diverso e sempre unico: «Il mio lavoro non ha una finalità didattica, ha spiegato Jean-Michel Jarre alla stampa, durante l’incontro a lui dedicato nell’ambito degli Mtv Digital Days alla Villa Reale di Monza, traccio semplicemente una linea guida della musica elettronica sottolineando il fatto che questo modo di fare musica è nato nell’Europa centrale e per questo si tratta di un’eredità tutta europea». Particolare la scelta di suddividere questa nuova attesa opera in due parti, di cui il secondo capitolo vedrà la luce soltanto nella primavera del 2016: «Ho deciso di dividere in due parti il progetto perché tutti gli artisti coinvolti hanno risposto positivamente al mio invito per cui ho raccolto molte tracce e alcune di queste sono ancora in lavorazione. Nel secondo disco ci sono collaborazioni importanti tanto quanto quelle del primo album in uscita. Per queste ragioni avverto la grande responsabilità di rappresentare anche il lavoro di tutti gli artisti che mi hanno dato totale fiducia», racconta Jarre.
«Questo disco prende le distanze dal concetto di featuring album, in cui di solito si invia un file con una traccia a un artista che magari non si avrà nemmeno modo di incontrare. Stavolta ho voluto viaggiare personalmente per conoscere di persona i miei colleghi e condividere il momento magico del comporre insieme, esattamente come si faceva una volta. Per ciascuno di essi ho realizzato una demo con l’idea che volevo sviluppare e poi ogni collaboratore ha potuto aggiungere il proprio contributo personale senza togliere omogeneità all’intero progetto. La cosa che mi ha colpito di più è che nessuno di loro ha stravolto la mia demo, né ha chiesto chi fossero gli altri collaboratori nel disco». Nello specifico delle collaborazioni colpisce, ad esempio, la presenza di Pete Townshend e Laurie Anderson: «Io e Pete abbiamo un modo simile di vedere le cose, spiega Jarre, entrambi cerchiamo innescare dei meccanismi crossover all’interno delle nostre rispettive scene musicali. Con Laurie, invece, avevo già lavorato in passato, lei è stata una dei primi ad occuparsi delle modalità di alterazione della voce. Little Boots, continua, l’ho trovata su YouTube e ho visto che suonava l’arpa laser. Ho scoperto che produceva musica elettropop e per questo si sposava perfettamente con il mio progetto. Ho rivisto in lei una mia versione giovane al femminile».
Jean Michel Jarre
Non è mancato un riferimento anche all’ipotesi di un ritorno sulle scene live: «La mia idea è quella di tornare a fare dei live a partire dal prossimo anno. Ho in mente un tour personale ma vorrei anche partecipare a qualche festival. Appena terminato l’album, cercherò di capire come poter evolvere il concetto di partecipazione a un festival in maniera innovativa, mantendo il focus sul contenuto e non solo sull’apparato tecnologico», ha specificato il composer che, in qualità di presidente della Cisac (Confederazione internazionale delle società degli autori e dei compositori), si è, infine, espresso anche in merito all’attuale situazione della musica e della discografia nell’era dello streaming:«Le piattaforme streaming non sono un male assoluto. Il problema è che attualmente questi servizi fatturano milioni dei quali solo una minima fetta va a chi produce quei contenuti fruiti dagli utenti. Manca chiarezza sulla spartizione dei profitti, neanche i dirigenti sanno come funziona questo meccanismo oscuro. Per questomotivo si rende necessaria una regolamentazione chiara».
Michele Bravi riparte da “I Hate Music” (Universal Music), un lavoro in cui il linguaggio e il modo di esprimersi del giovane artista cambiano partendo da sette brani (più una cover) attraversati da un pop elettronico e da testi scritti rigorosamente in inglese. Un album che ci aiuta a capire fino in fondo l’evoluzione umana e artistica di un giovane che ha imparato a fare i conti con se stesso: «Quando inizi a scrivere non ti chiedi troppo. È un flusso di coscienza, lasci che le parole vengano da sole insieme alle note», ha spiegato Michele durante un incontro con la stampa a Milano. “I Hate Music” è un album che racchiude un anno e mezzo difficile, duro, plumbeo in cui Bravi si è ritrovato faccia a faccia con un momento di disorientamento. «Un periodo durante il quale ho un po’ odiato la musica, confessa il cantante. Dopo la vittoria ad X Factor 7 ci sono state un sacco di cose belle, ma anche tante cose negative. Ero arrivato a un punto in cui ascoltavo la musica poco volentieri, avevo poca voglia di cantare, persino gli altri ci facevano caso. Poi c’è stato un momento in cui ho capito che se una persona odia tanto una cosa è perché in realtà non riesce ad amarla come vorrebbe, altrimenti le sarebbe completamente indifferente». La svolta poi è arrivata con il web e con YouTube in particolare:«Sono partito dal web per capire quali fossero le mie forze e quale fosse il mio rapporto con il pubblico. Quando ho aperto il mio canale YouTube mi sono reso conto che quello che avevo avuto fino ad allora con il pubblico era un monologo, un parlare a senso unico che girava su se stesso. Invece io avevo bisogno di confronto: mi rendevo conto che tirando fuori certi racconti che mi ero tenuto per me, gli altri mi facevano notare cose a cui non avevo fatto caso. Con il web ho trovato la possibilità di raccontarmi, mi ci sono appassionato perché man mano capivo sempre più cose su di me. I media tradizionali hanno dei tempi molto diversi, sul web è tutto più a misura d’uomo e non hai pressione. Chi se ne frega di quelli che dicono che ci deve essere distanza tra cantante e pubblico, io sono un ragazzo che sta facendo esperienza e che vuole vivere di musica. Se c’è qualche errore sarà parte di quello che ritengo sia un viaggio in costruzione».
Una nuova consapevolezza interiore che ha agevolato Michele anche sul fronte artistico: «Ho fatto il disco che volevo con le persone che volevo. Il video e la copertina sono un esempio di come si può giudicare una cosa nuova anche dall’involucro, volevo che ci fosse una rottura. E anche se sono ancora il cantante di “A Piccoli Passi”, il mio primo disco, ora c’è anche un lato di me più disteso, scanzonato e, perché no, anche arrogante. Ho lavorato con chi mi ispirava. Per la parte visiva c’erano questi ragazzi romani Trilathera che sono ai confini del noir e mi piaceva incorporare le loro idee in questo progetto. Poi per la produzione dei brani, una volta composti mi sono affidato a chi meglio riusciva a trasformare le mie idee in musica. E l’ho trovata questa persona, si chiama Francesco Catitti ed è un giovane producer che ha lavorato a molte cose che mi piacevano già, come il disco di esordio degli About Wayne».
Ad anticipare l’album è il primo singolo ufficiale, “The Days” che, non a caso, è il brano più forte del disco ma anche quello a cui Michele è più legato: «Ho impiegato un anno a finirlo, proprio perché racconta il mio momento nero». L’unica cover dell’album è “The Fault in Our Stars” del noto youtuber australiano Troye Sivan: «Con questo brano l’autore, protagonista di un percorso molto simile al mio, spiegava perfettamente un periodo di cui non avrei saputo scrivere meglio, ecco il senso della cover». Interrogato in merito alla possibilità di andare al Festival di Sanremo, Michele spiega: «A Sanremo non ci voglio andare come se fossi in mutande alla serata di gala. Io dico sempre che Sanremo è una grande vetrina, deve essere sfruttata nel momento in cui hai qualcosa da dire. Le canzoni non nascono mai con un tempo ben preciso. Magari stasera torno a casa e scrivo il pezzo per Sanremo, ma potrebbe volerci pure un anno». A proposito del fan event dello scorso 3 ottobre, tenutosi all’Alcatraz di Milano, il cantante si è mostrato molto entusiasta: «Ho voluto fare l’incontro coi fans e gli youtubers perché volevo evitare la classica conferenza ed è stato un bene perché mi sono stati vicino quelli che mi hanno seguito nell’ultimo periodo. Dopo X Factor ho tirato una linea e ho riconsiderato un po’ tutti i rapporti che avevo. Oggi frequento solo le persone che davvero mi sono vicine».
Benjiamin (Benji) Mascolo & Federico (Fede) Rossi sono due giovani emiliani che si affacciano al mondo della musica in punta di piedi ma con grande entusiasmo e voglia di fare. “20:05”è il loro album d’esordio e vede la luce proprio quest’oggi per Warner Music. Forti di una fanbase numerosa e molto ben radicata, Benji e Fede propongono al pubblico nove brani attraversati da una doppia anima, una più ritmica ed elettronica, l’altra più cantautorale. Al centro del disco ci sono ovviamente i testi in cui i due hanno racchiuso le proprie esperienze e tutti i piccoli passi che hanno segnato la realizzazione di questo primo importante tassello della loro carriera in costruzione, avvalendosi della collaborazione di Andy Ferrara, Marco Barusso e Giorgio Baldi.
L’intervista
A cosa si ispira il titolo dell’album?
Federico: Si tratta dell’orario in cui ho scritto a Benjiamin per la prima volta su Facebook. Avevo notato dei video su Youtube in cui lui suonava la chitarra con un’altra band, sapevo che il gruppo era in via di scioglimento e, dato che avevo notato una certa affinità artistica, ho provato a contattarlo. Da lì a poco, Benji è partito per l’Australia per cui siamo in rimasti in contatto tramite Skype ed il web. Successivamente, quando è tornato, abbiamo iniziato a lavorare con più costanza, in maniera sempre più seria e professionale.
All’interno di questo disco confluiscono due anime musicali vicine ma parallele…
Alcune delle canzoni che abbiamo scritto noi sono un po’ più pop, vicine ai classici italiani chitarra e voce, poi ci sono dei brani più elettronici, sicuramente più carichi. Tutto il lavoro rispecchia due aspetti della nostra personalità: nella vita quotidiana siamo piuttosto introversi e romantici mentre quando siamo sul palco ci piace trasmettere energia al pubblico.
“Lettera” è in controtendenza rispetto alla vostra essenza social.
Federico: Sì, certo. Il brano è uno di quelli che ci piace di più e a cui siamo particolarmente legati. Una lettera è un mezzo di comunicazione che non va più di moda ma rappresenta ancora l’emblema del romanticismo, proprio per questo ci piace molto. Anche dal punto di vista musicale sentiamo questa canzone molto vicina al nostro cuore.
Un’altra canzone speciale?
Benjiamin: “New York”. Ho scritto sia la musica che il testo di questo brano, mi ricordo quando l’ho scritto, come mi sentivo, perché l’ho scritto e per chi. Mi piace molto come la interpreta Fede perché credo abbia saluto cogliere l’essenza della canzone e ho molto apprezzato anche il lavoro dei produttori. All’inizio ero un po’ scettico, alla produzione brano ha lavorato Andy Ferrara, che in genere lavora con l’hip hop, (Club Dogo, Gue Pequeno). Ero preoccupato ma alla fine il brano è rimasto pop con una sonorità molto originale.
La parte strumentale di “Senza te”?
L’intro rispecchia la nostra anima chitarra e voce. Subito dopo la melodia si sviluppa attraverso l’uso di sintetizzatori e suoni più elettronici, frutto del lavoro dei produttori.
Decisiva anche la collaborazione con Giorgio Baldi…
Il suo contributo ha fatto la differenza specialmente nel brano “Tutta d’un fiato”. Baldi ha lavorato sulle chitarre e sull’elettronica di questo brano, le sue sonorità sono molto mature e ci hanno aiutato ad elevare la qualità del brano, che magari poteva risultare impoverito dalla nostra poca esperienza.
Uno dei prossimi obiettivi è Sanremo Giovani?
Non lo considereremmo come un obiettivo prossimo, sicuramente ci piace molto l’idea però adesso vogliamo pensare al disco, tutto quello che verrà dopo sarà qualcosa in più. Quello che faremo ora sarà continuare la nostra strada senza crearci troppe aspettative.
Intanto farete un impegnativo Instore tour.
Partiamo oggi con l’uscita dell’album. Iniziamo da Modena, la nostra città. Abbiamo voluto partire da lì perché non avevamo mai fatto un evento nostro e ci sembrava che l’uscita del disco fosse il pretesto giusto. Tra l’altro molte canzoni sono nate proprio a Modena, nella nostra cameretta, poi saremo in giro fino al 22.
Che tipo di riscontri state ricevendo dalle persone che interagiscono con voi nella vita quotidiana?
La cosa più bella è il fatto che ci supportano tutti, anche perché si sentono molto coinvolti dentro il progetto. Molti dei nostri amici e familiari hanno seguito e vissuto passo passo tutte le nostre esperienze da vicino e si interessano con orgoglio alla nostra crescita artistica. Questi sono veramente i nostri primissimi passi e restiamo coi piedi ben attaccati per terra, siamo all’inizio della scalata!
Benji & Fede
Come avete costruito la vostra sintonia artistica?
Siamo abituati a stare insieme fin dal 2011, abbiamo instaurato una sintonia non solo artistica ma anche personale. Passare tanto tempo insieme. sia nei momenti di euforia che in quelli più tristi, ha fatto sì che si creasse un legame forte che potesse rispecchiarsi anche nella nostra musica. Ovviamente abbiamo anche dei momenti di discussione ma, più stiamo insieme, più ci troviamo meglio.
Siete i fondatori del gruppo “Giovani artisti per l’Emilia”. Cosa avete realizzato?
Benjiamin: Il terremoto del 2012 ha colpito molto da vicino la città di Modena. Io ero in Australia quando è successo, lì erano le 22, ero sul divano e ho notato su Facebook alcuni post inerenti al terremoto. Non sapevo quale fosse la gravità della situazione quindi ho provato a chiamare in Italia, le linee erano staccate, non sono riuscito a sentire nessuno, ero con la chitarra, ho iniziato a scrivere il brano “Dare di più” e ho pensato fosse adatta per cercare di aiutare i miei amici e le persone colpite dal terremoto, ho mandato subito il brano a Fede, lui l’ha cantato e ha iniziato a contattare altri artisti della provincia per lavorare sulla canzone. In seguito, mentre io ero ancora in Australia, Fede ha organizzato un sacco di eventi benefici…
Quali?
Federico: Abbiamo girato tutta l’Emilia per raccogliere fondi per i terremotati, siamo stati anche premiati ed è stata una cosa che ha coinvolto anche i media nazionali e ha attirato l’attenzione della gente sui danni causati dal sisma. Tralasciando il discorso relativo alla tragica catastrofe naturale, saremmo felici di poter nuovamente collaborare con altri artisti del nostro territorio. Magari quando saremo più affermati potremmo fare di nuovo una cosa tutti insieme. Abbiamo molti amici, bravi e tanto disponibili. Uno di loro ha realizzato i cori e ha suonato il basso nel nostro disco ed è Davide Marchi, che in pratica è il terzo elemento della band. Davide è importante perché ha sempre creduto in noi, ha sempre ascoltato i nostri provini fin dall’inizio, ci segue e ci aiuta nei live.
A proposito di live, che esperienza avete in merito?
Di solito quando siamo in radio e negli instore suoniamo in acustico ( voce e chitarra) però quando faremo i nostri concerti, durante il prossimo inverno, suoneremo con la band per un’esperienza più completa.
Che rapporto avete con i fan?
Il nostro progetto musicale è sempre stato caratterizzato da un rapporto molto intimo con i fan, ci è sempre piaciuto conoscerli di persona con mini concerti e raduni per vederci faccia a faccia. Dietro uno schermo non puoi interagire più di tanto, noi dobbiamo tutto a loro, non abbiamo fatto talent show e non abbiamo avuto il sostegno dei media principali per cui siamo molto riconoscenti nei riguardi delle persone che ci seguono.
Come mai non avete provato a partecipare ad un talent show?
Abbiamo inziato così, ci è sempre piaciuto muovere mattoncino dopo mattoncino. Con Internet ci siamo fatti conoscere in maniera graduale mentre con i talent è più facile rischiare di diventare delle meteore.
Quali sono i vostri interessi?
Il calcio è l’altra passione che abbiamo in comune, abbiamo giocato per diversi anni. Poi ci piace viaggiare. Uno dei nostri sogni sarebbe quello di visitare tanti posti diversi per entrare in contatto con nuove realtà.
Come siete messi con l’inglese?
Abbiamo iniziato con delle cover in inglese, poi Benji scrive anche in lingua inglese e a me piace cantarla, quindi in futuro ci cimenteremo sicuramente.
Con “Nero” (ArtevoxMusica / BelieveDigital) il quarto album di inediti, Federico Poggipollini raggiunge una nuova e più completa dimensione artistica. Avvalendosi della collaborazione di Michael Urbano alla realizzazione, produzione e arrangiamento dell’album, il noto chitarrista ha centrato una costruzione del suono molto particolareggiata e decisamente vicina al groove propriamente americano. A completare l’ambizioso progetto, una strumentazione vintage anni’60 e una manciata di testi finemente curati in ogni singolo dettaglio. “Nero” è, in sintesi, un disco che rivela molto dell’anima di Poggipollini, un omaggio al vissuto dell’artista, al suo background privato e professionale. Un’esperienza di ascolto che non vi lascerà delusi e che, dal vivo, saprà offrirci anche qualcosa in più.
L’intervista
Quali sono i riferimenti specifici di questo disco e quali sono le particolarità di un lavoro realizzato in un lasso di tempo piuttosto ampio?
Tutto è nato quando nel 2008 sono andato con la band di Ligabue ad arrangiare dei brani in America. Lì ho conosciuto due persone che nei momenti liberi mi facevano ascoltare alcune nuove uscite musicali; in quell’occasione ascoltai per la prima volta i Black Keys. Quel tipo di suono, insieme a quello dei White Stripes che conoscevo già, mi hanno fatto scattare la voglia di realizzare un disco che riprendesse il concetto di blues tradizionale traslato in chiave moderna, il tutto mantenendo le imperfezioni delle registrazioni , un po’ come avveniva in passato. Ho composto alcuni brani e, facendoli ascoltare a Michael in studio, ho capito che il suono che volevo era molto diverso da quello italiano, lui ha saputo mettere a fuoco quel tipo di “sporcizia” che ho sempre ricercato. Inizialmente non avevo in mente di voler fare io il cantante, in un secondo momento abbiamo fatto delle prove a Bologna, avevamo delle melodie ma non i testi definitivi che sono arrivati piano piano nel tempo.
Un album curato a fuoco lento…
Dato che non avevo l’urgenza di farlo uscire, ho potuto capire esattamente quali fossero le cose che funzionavano, lo ascoltavo spesso e lasciavo che le melodie decantassero nel tempo. Questo meccanismo è stato molto utile, ho individuato tutte le cose che non mi piacevano, anche a distanza di un paio di mesi.
Il lavoro sui testi è stato molto accurato.
Ho cercato di raccontare delle cose interessanti. Per ogni brano ho fatto attenzione all’uso e al relativo suono delle parole perché non volevo perdere il flusso melodico. Alcuni brani hanno avuto diversi accorgimenti, anche all’ultimo momento. Tutto il disco è stato una sorta di scommessa, perché un suono così particolare non mi era mai capitato di farlo. Per la scrittura dei testi mi sono avvalso della stretta collaborazione della mia compagna, lei scrive molto bene e siamo arrivati ad essere molto complici nella realizzazione di questa cosa. Mi sono consultato molto sia con lei, sia con altre persone amanti di musica.
Alla luce di tutto questo, possiamo considerare “Nero” come il pupillo di tutta la tua produzione da solista?
Sì, questo è il mio primo vero disco. Non ero mai riuscito a mettere esattamente a fuoco quello che avevo dentro, qui ho lasciato confluire una serie di fattori diversi tra loro.
“Un giorno come un altro” definisce il tuo ingresso nell’età adulta?
Questa è l’unica canzone che ho scritto in maniera tradizionale voce e chitarra. Non volevo includerla nell’album perché la ritengo una parentesi diversa, poi Michael mi ha convinto, mi ha detto che gli ricordava David Bowie nel periodo di “Hunky Dory”.
Sei molto legato anche a “I Mostri”…
Questo brano è molto attuale nonostante il classico groove funky americano, in Italia quella roba non sarebbe mai venuta fuori così!
Federico Poggipollini
È vero che hai utilizzato degli strumenti vintage?
Ci siamo messi in gioco! In America ci sono dei negozi specializzati con degli strumenti anni ’60 italiani. A quel punto li ho cercati a lungo, era importante raggiungere un suono ottimale anche con strumenti che hanno dei limiti ma che, posti un certo modo, regalano una sfumatura diversa al suono.
Sei un vero e proprio collezionista?
Beh, direi di sì. Ho tantissimi strumenti. Ho amplificatori Steelphon, tastiere Farfisa e Crumar, meravigliose chitarre Galanti, Meazzi, Eko, Davoli, introvabili pedali Montarbo e quant’altro!
C’è qualche strumento che sogni e che ancora ti manca?
In verità adesso sono passato agli strumenti giapponesi anni ’70: Kawai, Tokai etc. Si tratta di strumenti che hanno delle particolarità specifiche. Io li acquisto da collezionista poi, ovvio, se capita, li suono volentieri.
Li porteresti mai ad un tuo live?
Non li porterei mai in giro perché sono strumenti piuttosto delicati, in più non ti permettono di fare un concerto al giorno d’oggi. Vanno accordati molto, bisogna starci attenti, potrei rovinarli. Magari se “Nero” avrà successo, farò una tourneè con tutti gli amplificatori che ho usato (ride ndr).
C’è una grossa ricerca anche nel live per ricreare il suono dell’album?
Stiamo cercando di ottimizzare sempre di più il tutto. Abbiamo ricreato sonorità, ambienti e attitudini musicali.
Quali sono le tue prospettive adesso?
In questa fase avrei voglia di portare in giro “Nero” e suonarlo il più possibile. Queste undici date autunnali rappresentano il primo step importante dopo il riscaldamento della scorsa estate.
Federico Poggipollini
Che tipo di riscontri stai ottenendo?
È la prima volta che ho ricevuto delle bellissime recensioni sull’album che, nel frattempo, ha venduto circa 2000 copie. Molti non se l’aspettavano, lo ritengono un disco non scontato, rischioso e la cosa mi ha avvicinato anche a quelli che mi snobbavano ritenendomi mainstream. Anche molti amici mi hanno apprezzato, gente che sì, mi conosceva, ma che in passato non mi ha mai detto: “Che gran disco hai fatto”.
Potrebbe essere un nuovo punto di partenza?
Per il prossimo disco ho già un’idea anche se, partendo dal presupposto che faccio un album ogni sei anni, nel prossimo sarò anziano…. (ride ndr)
Grandi emozioni a Campovolo…
Certo! Ero molto emozionato ma in realtà lo eravamo tutti! Ero emozionatissimo soprattutto nei giorni precedenti e lo sono stato fino a 3 ore prima dell’evento. Poi, nel momento in cui dovevo salire sul palco con gli abiti da scena, è come se mi fossi liberato, ero molto più leggero. A sto giro avevo molta responsabilità, abbiamo fatto “Buon Compleanno Elvis” esattamente come l’originale, ho dovuto usare strumenti che non uso da tanto, con amplificatori diversi e in un modo diverso rispetto alle ultime versioni degli stessi brani. Dovevo essere molto lucido, le prove ci sono state ma non sono state tantissime. Ad ogni modo, ho vissuto quella sera in maniera particolare, è stata un’ attesa molto lunga ma alla fine è stata una bella galoppata.
Virginio Simonelli torna sulla scena musicale italiana e lo fa in grande stile. Il brano con cui il giovane cantautore sceglie di iniziare questo nuovo capitolo della sua carriera è “Hercules”, una canzone interamente realizzata negli USA. Prodotto da Corrado Rustici e scritto con la collaborazione di Andy Marvel (già autore per Jason Derulo, tra gli altri) e Dimitri Ehlrich (che vanta collaborazioni artistiche anche con Moby), il brano risente delle atmosfere tipiche della musica americana e testimonia in maniera tangibile la nuova veste artistica di Virginio.
L’intervista
Virginio, raccontaci come hai lavorato alla realizzazione di questo brano completamente avulso dal sound italiano.
Ad un certo punto della mia vita ho fatto i bagagli e sono andato a New York e sono andato a scrivere con degli autori americani, grazie a delle persone che mi hanno messo in contatto con loro. “Hercules”, in particolare, è stato scritto con Marvel e Ehrich e ci siamo trovati così bene, da decidere di scrivere più canzoni insieme. Nel frattempo avevo cominciato a lavorare ad alcune cose con Corrado Rustici, a cui avevo mandato delle mie cose all’inizio del 2015, ci siamo sentiti, ci siamo visti e ci siamo piaciuti. In un secondo momento sono andato a San Francisco da lui e abbiamo cominciato a lavorare a questo progetto. Sono pronti anche altri brani, sia in italiano che in inglese. Mi è venuto spontaneo usare entrambe le lingue perché scrivo usando sia l’una che l’altra.
Entrando nello specifico di questo singolo, la metafora è quella di Ercole che detiene le redini di un rapporto importante.
In un certo senso sì. Il testo della canzone dice: “Buttami nella tana del leone perché io combatterò comunque fino alla fine per arrivare a te”. Quando parla di Ercole dice: “Neanche se fossi Ercole potrei amarti più di quanto io faccia già. Io non sto in disparte, non fuggo, anzi, ho deciso che ti vengo a prendere”. Si tratta di una dichiarazione d’amore ma non è necessariamente amore per una persona, può essere anche amore per la musica, ad esempio.
Come e quanto sei cambiato con l’inizio di questo nuovo capitolo della tua carriera?
Sono sempre più bravi a dirlo gli altri certe volte. Non so dire se mi sento diverso, sicuramente mi sento più consapevole. Ad esempio, dato che sono un maniaco del controllo di me stesso, apparentemente sembro sempre pacato e tendo a gestire le emozioni che mi porto dentro. Di recente, però, ho imparato anche a lasciarmi andare. Questo è il cambiamento più forte che ho riscontrato in me.
Quanto e come sono cambiati i tuoi ascolti?
Ho cominciato ad ascoltare tantissimo soul e parecchia musica elettronica; generi che in precedenza ascoltavo poco perché avevo delle remore, oggi ampiamente superate. Tra tutti nomino i Disclosure e l’ultimo album “Caracal”.
Virginio ph Cristian Dossena
Dal punto vista artistico, come ti pone questo brano di fronte al pubblico e agli addetti ai lavori?
Questo lo vedremo. Ho seguito la mia strada, ho fatto quello che mi sentivo e, quando ho cominciato a lavorare con Corrado a questo progetto, ci siamo proprio detti che dovevamo cercare la mia essenza musicale e così è stato. Mi rendo conto che è rischioso ma è altrettanto vero che ognuno di noi dovrebbe preservare la propria unicità.
Come pensi di lanciare questo nuovo progetto? Ci saranno tanti piccoli singoli con un riscontro graduale o pubblicherai un full lenght?
Non so. Abbiamo già tutti gli altri singoli ma ci sto ragionando. Non è detto che debba esserci necessariamente un album perchè oggi i canali di fruizione sono cambiati. Pensare soltanto ad un cd forse sarebbe riduttivo, magari alla fine ci sarà comunque. Vedremo cosa salterà fuori…
Virginio_foto di Cristian Dossena
Quali sono le tematiche che in questo momento ti stanno più a cuore?
Credo di avere un tema ricorrente nelle mie canzoni: sentirsi se stessi. A questo proposito citerei “Le cose cambiano”, un progetto nato in America denominato “It gets better” che si occupa principalmente di bullismo. La caratteristica principale di questo gruppo sta nel caricare dei video on line con le testimonianze di persone che raccontano come sono cambiate poi le proprie esistenze. Il successo massimo è stato raggiunto quando anche Obama ha caricato un video in cui raccontava la propria esperienza in qualità di candidato alla Presidenza degli Stati Uniti e persona di colore. Queste sono cose che mi stanno molto a cuore, c’è una canzone in particolare, presente nel mio nuovo progetto, che secondo me richiama intensamente questo discorso. Il 17 ottobre, inoltre, mi ritroverò a Fondi, la mia città, con un gruppo di persone che seguono la mia musica e faremo un raduno tutti insieme. Ci sarà anche una persona che parlerà delle attività de “Le cose cambiano” e credo sia molto importante che questo avvenga soprattutto in posti che fanno un pò più di fatica ad uscire da un certo tipo di mentalità.
Attore, cantautore, intrattenitore, osservatore sociale. Martino Corti è un artista figlio del nostro tempo, capace di instaurare un rapporto rivelatore con lo spettatore. Con il nuovo spettacolo, in scena fino all’11 ottobre 2015, intitolato “C’è da morire dal vivere”, terzo capitolo della saga dei Monologhi Pop, che racconta con ironia il viaggio alla ricerca della serenità, Corti apre la nuova stagione teatrale dello Spazio Tertulliano di Milano fra canzoni e monologhi. L’intento dell’artista è quello di mostrarci aspetti di noi stessi e della vita quotidiana che, se in primo momento possono sembrarci irrilevanti, in realtà condizionano il corso della nostra esistenza in maniera sostanziale. I Monologhi Pop di Martino Corti sono, quindi, mutui scambi di materiale emotivo da condividere. Suddiviso per capitoli, “C’è da morire dal vivere” trova nelle canzoni tratte dai primi due dischi-spettacolo di Monologhi pop un ulteriore completezza, sia per la qualità dei testi che per le tematiche affrontate. Con questo format innovativo, leggero ma mai banale, Martino Corti rappresenta, infine, la tangibile testimonianza che si può ancora parlare del genere umano senza essere scontati.
L’intervista
In “C’è da morire dal vivere” hai il sorriso sulle labbra ma tocchi tematiche che vanno oltre la superficie.
Questo è esattamente l’intento dello spettacolo. Il filo conduttore è l’ironia attraverso la quale cerco di far passare dei messaggi un po’ più profondi. La bellezza dei Monologhi Pop sta nel fatto che ognuno può viverli a vari livelli: c’è lo spettatore che ride e basta, quello che ha voglia di pensare e di mettersi in gioco e poi ci sono coloro che a fine spettacolo vengono a ringraziarti con gli occhi lucidi.
“Un irrequieto non potrà mai essere sereno”?
Sì, la penso così. Certo, ci sono un po’ di trucchetti per essere un po’ meno irrequieti e sono proprio quelli che provo ad utilizzare io stesso ogni giorno nel mio privato.
La tua è una sensibilità da osservatore sociale ?
In effetti la frase che di solito utilizzo per far capire cosa sono i Monologhi Pop è quella di Charles Bukowski che dice: “La gente è il più grande spettacolo del mondo e non si paga il biglietto”.
Martino Corti
Attraverso l’arte del sapersi lamentare, trovi comunque un lato positivo nelle cose…
Cerco di individuare e di alimentare la positività anche se vado anche se sono io stesso un habitueè del “Mondo di merda hour”, così come fan tutti. Il concetto è cinicamente amaro ma assolutamente veritiero.
Che evoluzione c’è stata tra i tuoi primi due spettacoli e quello in corso?
Ne “Le cose non contano nulla” non c’era l’elettronica, abbiamo registrato tutto in studio e poi abbiamo fatto un tour io e Luca Nobis con due chitarre. La grande novità di “C’era una svolta” è stata l’entrata dell’elettronica con il dj producer Kustrell. Per “C’è da morire dal vivere” l’idea iniziale era quella di unire i due spettacoli precedenti con gli sketch più popolari poi, quando mi sono messo a scrivere, è venuta fuori una storia completamente nuova per cui lo spettacolo è nuovo con dei riferimenti ai lavori precedenti. Le canzoni invece sono 4 del primo disco e 5 del secondo.
La telepromozione del disco è un’idea a dir poco brillante.
Si tratta dell’evoluzione dell’iniziativa che ho denominato “disco versatile”. Io e Camilla (Salerno ndr) abbiamo mille idee alternative e qualcuna, di tanto in tanto, la mettiamo in pratica.
“True as we were born” è il brano più intimo dello spettacolo.
Il video che passiamo sullo schermo è quello ufficiale della canzone. In ogni disco mettiamo un pezzo in inglese così tra 10 anni avremo anche un album internazionale (ride ndr). Quella dell’inglese è un po’ un’arma a doppio taglio perché tendenzialmente cerco di scrivere in italiano anche se sono consapevole del fatto che l’inglese suona decisamente meglio.
Martino Corti
Quale dei capitoli che proponi in questo spettacolo senti più tuo?
Li reputo tutti importanti perché sono il frutto di una selezione accurata, forse quello che sento di più è il capitolo dedicato all’interazione tra adulti e bambini perché sono diventato papà da sei mesi. Provo ad immaginare come potrebbe essere entrare nel mondo dei bambini e viceversa.
Hai fatto tuo il motto jovanottiano “Viva tutto”. Perché?
Quando ho letto il libro di Jovanotti e Franco Bolelli ho cambiato il mio approccio alla quotidianità. In queste due parole è racchiuso tutto il mio messaggio artistico, un mantra che mi piace e che ho fatto mio in maniera totalizzante.
Bella la storia della squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia…
Sì, una storia veramente speciale di cui raccontiamo i dettagli nel video ufficiale, che mostriamo durante lo spettacolo, con tutte le persone coinvolte nella vicenda. Si tratta di una storia vera, che ha avuto un riconoscimento ufficiale solo nel 2002 e ho voluto raccontarla perché, quando l’ho scoperta, mi sembrava assurdo che non la conoscesse nessuno. Una storia di calcio, di vita e di amore con dei valori che oggi è sempre più difficile ritrovare. Tutti i protagonisti sono morti, molti senza nemmeno aver visto il riconoscimento ufficiale. Nel testo della canzone immagino un nonno che racconta questa impresa ai propri nipoti.
“Ogni passo che va verso il controllo, è un passo in direzione opposta alla serenità”?
Anche questa considerazione è molto teorica. Nel mio quotidiano cerco di avere tutto sotto controllo ma ho constatato che più lasci campo libero al corso naturale delle cose, più ti avvicini alla serenità.
“Siamo tutti gocce che scavano la roccia, consapevoli di essere una parte di pioggia”?
Questa è una delle mie canzoni più importanti perché contiene una serie di input che potrebbero contribuire al benessere generale.
Rifuggi l’etichetta classica di di teatro-canzone?
Abbiamo cercato un nome che potesse racchiudere il mio mondo artistico, che fosse attuale e soprattutto rispettoso dell’intoccabile teatro-canzone. E poi, diciamoci la verità, se lo avessimo definito teatro-canzone i Gaber-integralisti ci avrebbero odiato e additato come pazzi, i ragazzi liquidato pensando “che palle il teatro” e gli addetti ai lavori scritto “Ecco, un altro che porta in giro Gaber”.
Dopo tutti questi piccoli grandi passi artistici, che aspettative hai e che consapevolezze hai acquisito?
La consapevolezza più grande è che fin quando avrò energia da condividere con il pubblico, ogni giorno rappresenterà la tappa di un percorso splendido. Questo è il motivo per cui io e Camilla siamo ripartiti con “Cimice”, l’etichetta fondata da lei e di cui io sono diventato socio tre anni fa quando sono nati i Monologhi Pop. Questo viaggio va avanti un passo alla volta e l’arma più grande che abbiamo è il passaparola. Rimango un po’ perplesso quando vedo che abbiamo uno spettacolo in programmazione per 10 giorni ma le persone si svegliano solo alla fine senza riuscire a trovare posto, così come è avvenuto lo scorso anno. Mi dispiace perché mi sembra un’occasione persa per tanti. In un contesto che offre poco spazio per emergere, tenderemo sempre più verso strade alternative. Probabilmente dopo questi 10 giorni al Teatro Tertulliano di Milano ci butteremo a capofitto in un percorso alternativo, che è, tra l’altro, quello che ci dà più energia e che piace di più alle persone.
Martino Corti
Con Luca Nobis sul palco c’è un ottimo affiatamento…
Luca è un chitarrista eccezionale, viene dal conservatorio ma sa suonare tutto con ottima tecnica. A questo aggiungo che è una bella persona, è al mio fianco dal 2010, fin dall’uscita di “Stare qui” quando accompagnai i Nomadi in tour con 80 date. Luca c’era già all’epoca e oggi è una colonna portante di questo progetto.
Con “Cimice Records” avete altri progetti in programma?
Stiamo sondando in primo luogo l’andamento dei Monologhi Pop e, qualora dovesse andare bene, a quel punto potremmo pensare di aprirci ad altri artisti con l’intento di creare una sorta di etichetta creativa.
Raffaella Sbrescia
Info e Prenotazioni SPAZIO TERTULLIANO www.spaziotertulliano.it 02.49472369 – 320.6874363 biglietteria@spaziotertulliano.it (ritiro a partire da 1 ora prima dello spettacolo) Dal lunedì al venerdì: 10.00 -13.00 / 14.00 -19.00 Sabato: 16.00 -19.00 Domenica: 11.00 – 16.00
Luca Carboni torna ad emozionarci con “Pop Up” (Sony Music), un album di inediti figlio del nostro tempo ma che mette in risalto tutta la bellezza e la profondità di una sensibilità ancora forte, vivida e potente. Seguendo il filo conduttore dell’amore, il cantautore bolognese si concede lo sfizio di un album «tecnologico» avvalendosi della produzione di Michele Canova Iorfida e, dopo il successo trasversale ottenuto dai duetti di “Fisico e politico”, è interessante scoprire quanti spunti autobiografici siano presenti in queste undici canzoni intrise di pop, ironia, amore e qualche immancabile frecciata su temi d’attualità. In questo nuovo viaggio che affonda le radici negli anni ’80, Luca Carboni volge lo sguardo verso il futuro con grazia, carisma e perseveranza perché se magari un disco non può fare la felicità, almeno può regalarci tanti momenti felici.
Ecco cosa ci ha raccontato Luca Carboni in occasione della presentazione del disco alla stampa.
Chi è oggi Luca Carboni?
Nasco come autore, sognavo di farlo per altri non avevo la priorità di salire sul palco. Ci tengo che quel che faccio possa arrivare senza etichette e senza barriere ma non ho mai lottato per essere primo della classe. Anche a scuola ero tra gli ultimi. “Luca lo stesso” potrebbe essere interpretato come una sorta di rivendicazione del tuo ruolo di cantante di successo?
No, la canzone non è nata per esserlo, non ne sentivo l’esigenza. Nel corso della mia carriera ho fatto la scelta di farmi da parte e di fare dischi meno diretti di questo.
Quali fasi hanno scandito la gestazione di “Pop-Up”? Questo è il mio undicesimo album di inediti in 30 anni di carriera. In passato sono sempre partito con cinque pezzi realizzando gli ultimi in studio, non sono mai partito con tutto pronto. Stavolta ci ho lavorato per due anni e, tra tutto quel che avevo a disposizione, ho portato a termine solo le cose che avessero più senso. Michele Canova l’ho cercato io due anni fa perché avevo in mente di fare esattamente un disco come questo. All’inizio abbiamo subito scritto “Fisico e politico” e abbiamo poi deciso di realizzare una raccolta. Quello è stato il primo step che ha portato a questo disco. Mi piace Michele quando fa cose elettroniche e lavora di programmazione: in questo album hanno suonato soltanto tre musicisti. Sotto questo aspetto è un disco molto simile a quello del ‘92 (“Carboni”). Abbiamo completato un pezzo alla volta. Poi ho scoperto la bellezza di Garage Band e mi ci sono dedicato spessissimo, soprattutto di notte.
Cosa pensi del fatto che Michele Canova abbia prodotto tanti dischi negli ultimi tempi?
Canova è un grande produttore perché entra in sintonia con la personalità di chi quel disco lo sta facendo.
Come spieghi la scelta del titolo? Cercavo un titolo simile a “Forever”, qualcosa che facesse solo intravedere album senza spiegarlo. Ho scelto “Pop-up”, come i libri magici per bambini che hanno elementi ritagliati che aprendosi diventano tridimensionali o come le finestre nel web. Altri titoli non rispettavano la parte musicale delle canzoni che vale quanto quella autorale.
“Chiedo scusa” nasce da un componimento della poetessa polacca Wislawa Szymborska ed è uno dei brani più belli di tutto l’album.
Grazie. Quando scrivo un disco mi viene voglia di leggere poesie e lavoro su quelle che mi affascinano di più. Così era stato con Prevert per “Persone silenziose”(il brano era “I ragazzi che si amano”), così è stato anche con “Chiedo scusa”. Mia moglie mi ha fatto scoprire la poetessa Szymborska ed è scattata la magia mentre lavoravo su Garage Band. Il ritornello esce completamente da lei e dalla sua poesia e diventa una canzone completamente mia, anche come testo.
Come mai in diverse canzoni appare la parola odio? Odio è una parola che generalmente non uso. Questo album è un insieme di canzoni d’amore, esse rappresentano la mia arma per combattere l’odio, purtroppo ancora vivo e vegeto.
Perchè hai lanciato l’hashtag, #undiscopuòdarelafelicità?
L’ho fatto perché a me ha dato felicità fare questo album e provo felicità ad ascoltarlo. Il concetto che sta dietro questo slogan è che un disco ha una funzione sociale, agisce sull’anima e sul cuore di chi lo ascolta. Oggi questo aspetto è sminuito, invece un disco è una cosa importante.
Parlare d’amore ha segnato un cambio di tendenza importante nella tua produzione
Vent’anni fa mi vantavo di avere successo con singoli che non erano d’amore, oggi dico che la vera forza è questa. Mi piaceva l’idea di fare un grande album d’amore. L’ultimo brano,“Invincibili”, riassume un po’ tutto il disco, anche se musicalmente è più nudo degli altri. Il filo conduttore è che tutto alla fine viene ricondotto all’amore.
Nel brano “10 minuti” a un certo punto dici ‘spazio rap’. Perché?
Era un appunto. Inizialmente pensavo che mi sarebbe piaciuto avere una parte rappata (il rap italiano mi piace molto), ma alla fine non ero più così convinto dell’idea. E’ rimasto come invito a rappare quando ascoltate il brano.
In caso a chi avresti proposto di farlo? Il mio rapper italiano preferito è Lorenzo, che non fa più rap. In realtà non ho nemmeno pensato a un nome, direi J-Ax, Clementino. Fabri Fibra no perché abbiamo già lavorato insieme (per “Fisico e politico”).
L’amore per Bologna è rimasto intatto?
Il mio amore per Bologna non è diminuito nel tempo. Ho parlato molto di Bologna, tanto che quando stavo scrivendo un’altra canzone sullo stesso tema l’ho messa da parte per paura che fosse una ripetizione di “La mia città”. Poi invece ho scritto “Bologna è una regola” con Alessandro Raina che mi ha spinto a parlarne ancora. Forse questa è la canzone migliore che abbia fatto su Bologna.
E “Milano”?
Questa canzone si ispira ai miei pensieri di ragazzo ed è dedicata a una mia cugina che non c’è più e che da Bologna si è trasferita a Milano. Bologna è magica ma Milano è stata a lungo il centro del mondo. Ho pensato di andarci a vivere, per noi di provincia era la meta per antonomasia. La canzone parla di andare in fondo a se stessi, cercare la propria vera realizzazione e il senso della vita consapevoli che ci sono posti da cui scappare e altri dove restare e realizzarsi.
Intensi gli interrogativi che poni in “Dio in cosa crede”. Potrebbe sembrare una canzone teologica e complessa, ma in realtà la immagino come una domanda infantile: noi crediamo in Dio ma lui crede in noi?
Sanremo?
Ho pubblicato il disco adesso, ormai è andato. Avrei dovuto partecipare nell’84. Per questo era stata posticipata l’uscita del mio album. Poi al Festival presero Ramazzotti con “Terra promessa”. Io con il mio disco partecipai al Festivalbar e vinsi. Ho preso questa vicenda come un segno: non dovevo passare da Sanremo.
Cosa ascolti? Di tutto, anche se mi piace di più ascoltare un pezzo rap che un pop tradizionale. In ogni caso quando scrivo non ascolto niente anche per evitare similitudini.
Cosa hai pensato per il tour?
L’ho posticipato all’anno prossimo perché voglio avere il tempo di pensarci bene. Lo voglio molto figlio di questo album e con questo suono. Ho anche idee estetiche di racconto che vorrei elaborare bene… vi racconterò tutto più avanti!
Si apre, da oggi, un nuovo capitolo per Fred De Palma che, con “Boyfred”,entra nella squadra Warner Music decidendo di raccontarsi in un disco autobiografico, in linea con i tempi, connotato da testi intimi, rime scomode e sonorità trap. Il giovane artista, classe ‘89, scrive e usa il rap, la canzone, il pop, la dance a seconda di quello che vuole raccontare liberandosi dai confini dei generi. All’interno delle 14 tracce che compongono il disco, abbiamo modo di capire ogni sfaccettatura di suo questo importante momento di maturazione artistica. Abbiamo incontrato Fred alla viglia dell’uscita dell’album e questo è quello che ci ha raccontato.
Fred, è vero che il rap è diventato un canone?
Secondo me ci sono due tipi di rap in Italia: c’è il rap puro, più fedele alla vecchia scuola, poi c’è un nuovo filone molto più melodico, pensato per arrivare al maggior numero di persone possibile.
La melodia rende il rap più accessibile?
Anche in questo caso sono anche due tipi di ascoltatori: quelli che ascoltano i testi per scoprire le rime e quelli più casuali che badano solo al ritornello. Il pubblico, in ogni caso, deve ancora assimilare alcune cose. L’aspetto positivo è che prima non c’era tanta distinzione, ora, invece, noto che comincia ad esserci un approccio più critico ed il riconoscimento del valore specifico di ciò che viene fatto.
Tu tieni più al testo o alla musica?
Tengo molto alla scrittura e parto sempre dal testo. La ricerca del ritornello giusto è la mia seconda preoccupazione, deve esserci un momento catchy non solo per il pubblico ma anche per me. Per il resto credo sia ovvio che, da qui a due anni, la melodia nel rap diventerà un trend di tutti quelli che fanno il mio genere.
Questo album segna un distacco ma anche un nuovo inizio?
L’idea di questo disco è nata con la finalità di evolvermi. Tutto qui è diverso, a partire dal modo di scrivere. A differenza di tanti, ho scelto di non duettare con nessuno perché “Boyfred” è un disco personale. Ho pensato che un featuring avrebbe tolto coerenza ai brani e avrebbe reso un po’ dispersiva la storia che volevo raccontare. L’unico modo che ho per entrare davvero in contatto con il pubblico è far conoscere me stesso, oltre alle mie canzoni.
Come mai “Stanza 365” è il brano più importante dell’album?
Questo brano è veramente intimo, mi trasmette tanto e spero che lo stesso avvenga con il pubblico. Nel disco precedente avevo già iniziato questo tipo di percorso di scrittura ma non avevo ancora l’esperienza giusta per scrivere una vera e propria canzone. I rapper in generale scrivono pezzi piuttosto che canzoni. La differenza è alla base è in questa canzone c’è tutto quello che serve per definirla tale.
C’è una metodica in quello che fai?
Non ho mai scritto un pezzo in più di un’ora quindi si tratta di una cosa molto immediata. Mi sono sempre esercitato da solo a scrivere, all’inizio stavo 8 ore a cercare uno stile mio e spero che oggi riesca trasmettere al pubblico tutto questo.
Come è nata la collaborazione con Baby K per “Licenza di uccidere’?
Mi ha scritto mesi fa su Twitter. Sono passato in studio da lei, ci siamo complimentati a vicenda e abbiamo deciso di fare un pezzo insieme scrivendo le rispettive strofe del brano. È stato tutto molto naturale.
Quanto si distacca questo disco dai tuoi lavori precedenti?
“Boyfred” è frutto di una ricerca minuziosa. In genere tendo a scrivere su canzoni di altri, che rispecchiano quello che voglio dire io, e, successivamente, mi faccio rifare tutte le basi da zero. Lavoro sul suono solo dopo aver finito la canzone, si tratta di un metodo abbastanza comune tra i rapper. Ho lavorato con MACE dei ReSet!, uno dei più forti “trappisti” in Italia. Mi sono fatto consigliare molto da lui sul suono, i pezzi mi sono molto piaciuti e abbiamo continuato in questa direzione alternandoli ad altri più suonati. Poi c’è Davide Ferrario, un musicista particolarmente ispirato. Loro due, insieme, hanno creato qualcosa di nuovo.
“Serenata Trap” è un ovvio richiamo al brano di Jovanotti…
Sì, si tratta di un tributo ad un pezzo che è un cult della storia della musica italiana. La mia è una sorta di versione 2.0 di un brano in cui uso con lo slang e l’approccio contemporaneo. La gente mi critica perché a volte uso delle frasi molto forti però, in realtà, quello che faccio io è prendere quello che c’è e portarlo in musica.
Anche in “Fenomeno” ci sono un po’ di frasi che scuotono gli animi?
Questo brano è dedicato ai miei fan. Il testo parla dell’incontro tra me e un fan in metropolitana. L’episodio è accaduto realmente ed è per questo che ho deciso di scriverci una canzone. In questo brano colgo anche l’occasione per rispondere a tutti quelli che, vedendomi impegnato a fare musica, credono che io sia sempre felice, niente di più sbagliato. Ecco, questa è l’occasione per raccontare l’altra faccia della medaglia.
Per quanto riguarda lo stacco tra “Lettera al successo parte 1 e 2” e questo nuovo album, che tipo di evoluzione c’è stata nei temi e nei contenuti?
Si dice sempre che quando un artista cambia, anche il suo pubblico cambia. Spesso le persone si affezionano ad una parte di te che, evolvendosi, viene messa un po’ da parte. In generale, cerco sempre di raccontarmi sui social, rendo le persone partecipi delle mie evoluzioni. Il nocciolo della questione sta nel mondo in cui si scrivono le canzoni: se evolvi in maniera coerente, il pubblicodovrebbe evolvere con te altrimenti non è un pubblico vero.
Cosa racchiude il concetto di “Web credibility”?
Ho realizzato dei video simpatici usando il rap e li ho caricati su Facebook. Tutti usano i social come mezzo per arrivare ad un pubblico più ampio per cui ho pensato di usare questo passatempo come una sorta di nuovo tipo di free style. Il web è la nuova strada.
Hai partecipato a tante competizioni di free style, ne senti mai la mancanza?
Fino ad un certo punto. Del freestyle non mi manca niente perché lo faccio tuttora con i miei amici. Magari mi manca quell’ansia positiva di quando facevo le gare girando l’Italia da solo partecipando a tutti i contest possibili.
Per concludere, come sarà il tuo nuovo live?
Tutto è ancora in via di definizione. Dovrà essere una cosa diversa da quello che c’è in giro, sto cercando un nuovo approccio con il pubblico. Vi aggiornerò molto presto!
Raffaella Sbrescia
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TRACKLIST
1. Dov’eri tu 2. Serenata Trap 3. Stanza n. 365 4. Non scordare mai 5. Canterai 6. BoyFred 7. Buenos Dias 8. Slogan 9. Tutto qui 10 Due cuori e una caparra 11.Fenomeno 12. Noi due 13. VodkaLemonHaze 14.Chiudo gli occhi
Dal 1 al 3 ottobre musica e cinema saranno i protagonisti del Karel Music Expo 2015 di Cagliari. La nona edizione del festival ospiterà un ampio ventaglio di generi musicali e stili cinematografici per una tre giorni dedicata anche alla valorizzazione del territorio. Tra i protagonisti della kermesse ci sarà Giuliano Dottori, un cantautore capace di scrivere testi tanto autentici ed espressivi quando semplici nella loro inusualità e che, oltre la valorizzazione della propria arte, ha imparato a sviluppare e produrre anche quella altrui. In attesa di ascoltarlo dal vivo, ecco cosa ci ha raccontato.
Dopo la pubblicazione dei due volumi de “L’arte della guerra”, chi è oggi Giuliano Dottori?
Un musicista un po’ più consapevole di ciò che sta facendo.
In cosa si differenziano e in cosa, invece, si compensano i due volumi?
Sono due facce della stessa medaglia. Anche con la grafica abbiamo giocato molto su questo aspetto. Una bambina che diventa donna, bianco e nero, nero e bianco, un pettirosso (morto) che prima è nelle mani di una bambina e poi vola nel vestito della donna. È un ciclo, è un disco unico che finisce con le parole “non c’è più” e comincia con le parole “quando tornerai a casa”. È un viaggio che ha una partenza e un ritorno, ma non nello stesso luogo. È come un cerchio che non si chiude perfettamente, perché dopo un viaggio si è sempre un po’ diversi da quando si è partiti.
Come lavori alla costruzione di testi tanto semplici quanto suggestivi?
Di solito parto da una suggestione, una frase, una parola, un’immagine. Questa prima suggestione è fondamentale: se nasce insieme a una melodia o un’atmosfera musicale precisa, ci lavoro, sennò la lascio sui miei taccuini in attesa che arrivi qualcos’altro a smuovermi. Ho imparato a non avere fretta, ad aspettare.
In che modo la città di Milano continua ad essere fonte di ispirazione per te?
Milano è una città. Una città vera, in evoluzione, viva. Mi fa incazzare e mi fa gioire. Ora siamo in un momento di grande orgoglio, c’è un sacco di gente in giro, tanti turisti (non siamo così abituati ad averne), tante infrastrutture finalmente completate che hanno risolto alcuni antichi problemi di viabilità. Ciò che vedo soprattutto è finalmente una visione lungimirante, un voler pensare al futuro e non solo a far quadrare i conti e a rattoppare le buche delle strade. Mancherà moltissimo Pisapia. Ma i milanesi hanno la memoria corta, come tutti gli italiani.
Stai definendo le date del tour invernale. Che tipo di concerto è il tuo? Sarai ancora in formazione con un quartetto elettrico?
Sì, continuerò a suonare in quartetto, anche se a distanza di quattro anni dal Casa tour comincio ad avere di nuovo voglia di fare qualche concerto in solo.
Perché “Siamo tutti degli eroi”?
Perché – come è giusto riconoscere le enormi conquiste sociali ed economiche fatte dai nostri genitori – credo sia doveroso cominciare ad essere meno dimessi e più orgogliosi di ciò che la mia generazione sta facendo. Perché ci siamo relazionati con un cambio epocale (globalizzazione, internet, precariato, un ventennio politico all’insegna del malaffare e della menzogna), eppure siamo qui, ci siamo reinventati, paghiamo le pensioni ai nostri vecchi e cerchiamo continuamente di essere creativi e vivi.
Come è stato lavorare al videoclip di “Fiorire” con DIMARTINO?
Credo che Antonio mi odierà a lungo per questo… sveglia alle 6, quattro ore truccati da cadaveri sotto una pioggia battente ad aspettare di essere convocati per le riprese. Io sono stato un’ora con la faccia nella sabbia bagnata e fredda. Per rendere più credibile la scena mi hanno trascinato per le braccia in mezzo a una sorta di pozza paludosa piena di insetti. Ecco. Questo è quanto.
Conosci la realtà del Karel Music Expo? Come vivi il fatto che suonerai lì?
Ci suonai qualche anno fa con gli Amor Fou e sono felicissimo di tornarci. Un bellissimo festival, con un cast molto coerente e (a che mi ricordo) delle location davvero belle. Da direttore artistico di festival (Musica Distesa) sono sempre felice di conoscere altre situazioni.
Quali sono le attività del Jacuzi studio?
Nasce come mio studio personale e negli anni ho scoperto l’arte della produzione e devo dire che fare il produttore – per lo meno in questo momento – è la cosa che mi diverte e soddisfa di più. Sono passati da me i Riva, Alia, David Ragghianti, Aria su Marte, ora sto lavorando coi Les Enfants. Mi piace lavorare sulle canzoni degli altri, sia perché credo sia un grande arricchimento per me, sia perché credo di aver raggiunto un buon equilibrio nel lavoro artistico.
Quali sono i tratti che caratterizzano il tuo approccio alla musica?
Cerco di essere autentico nei testi e musicalmente non scontato.
Sei un fervido sostenitore del crowdfunding. Cosa ha significato per te questo tipo di raccolta fondi e come ne spiegheresti l’utilità a chi ancora non lo conosce?
È il modo migliore per bypassare la discografia e poter stringere una sorta di patto di fedeltà con l’ascoltatore. La smaterializzazione della musica ha causato i disastri che già conosciamo. La domanda che tutti si fanno è: perché dovrei pagare 1 dollaro una canzone che posso avere gratis? Non c’è una sola buona ragione per pagare quel dollaro ormai. La cosa mi disturba, certo, ma ora è così e fine. Come dicono i saggi “no solution no problem”. La cosa che mi disturba è che la gente spende 60 euro per andare allo stadio o 1 euro per un pacchetto di cicche. O al supermercato prende il vino da 3 euro facendo del male innanzi tutto a se stesso. Discorso complesso. A cosa serve il crowdfunding? A dire: “ragazzi, se amate la mia musica dobbiamo tornare a come si faceva vent’anni fa, perché i dischi costano molti soldi”. Questo è il patto di fedeltà. Aiutate gli artisti che amate o sennò avremo solo platinum collection di Vasco e dischi dei talent. Oddio, è già quasi così in effetti.
Colgo l’occasione per chiederti di parlarci anche di MusicRaiser…
Ho usato Musicraiser più volte, mi sembra una piattaforma davvero ottima e non a caso è un servizio creato da un musicista che sa bene come funzionano le cose nel mondo della musica.
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