Esce domani “Peter Pan” il nuovo album di inediti di Ultimo, all’anagrafe Niccolò Moriconi, classe 1996. Il vincitore del Premio Lunezia 2018 pubblicherà un lavoro contenente 15 brani inediti, oltre a “Il ballo delle incertezze” (brano in gara al Festival di Sanremo nella sezione Nuove Proposte), che risalta e analizza le fragilità dell’uomo.
Intervista Cosa proporrai al tuo pubblico con il nuovo album “Peter Pan”?
“Peter Pan” è un album introspettivo con un sound cantautorale. Ero uscito con “Pianieti” ad ottobre ma un repack sembrava riduttivo, in poco tempo ho scritto altri 16 brani e li ho registrati. Il disco parte da fuori per arrivare dentro, si basa sulle cose che le persone non hanno e che vorrebbero avere. Questo lavoro mette in evidenza la mia parte cantautorale, ci sono infatti diverse imperfezioni vocali perchè cerco di rendere la musica non macchinosa. Metto l’istinto musicale al primo posto.
Cos’è un cantautorap?
Ho sempre fatto uno studio classico della musica per poi arrivare ad ascoltare l’hip hop, un genere che merita rispetto. Ho fatto un cocktail per creare un ibrido. Peter Pan sarà molto più cantautorale che pop, ci sono tante nuove sfaccettature da scoprire. L’empatia che cerco di instaurare con chi mi ascolta nasce dalla voglia di creare un vestito che possa essere indossabile da molti. La musica va indossata e capita.
Che ruolo ha la fantasia nelle tue canzoni?
La fantasia è una risorsa spesso sottovalutata, l’immaginazione è l’unica forza che ci rimane. Nella musica c’è la possibilità di evadere, scappare dalla quotidianità.
Da cosa nasce questo nome d’arte?
Ultimo è una condizione che vivo, qualcosa che mi porto dentro più che un nome d’ arte. Sono molto fragile come persona però della mia musica sono molto sicuro. Come sicuro sono del fatto che nelle mie canzoni troverete sempre cose che scrivo e che curo io in prima persona. Sono davvero molto pignolo!
Mirkoeilcane, all’anagrafe Mirko Mancini, già vincitore del Premio Bindi e di Musicultura 2017, dal 6 al 10 febbraio sarà in gara per la 68° edizione del Festival di Sanremo nella categoria “Nuove Proposte” con il brano “Stiamo tutti bene”, prodotto da Steve Lyon (già produttore di Paul McCartney, Depeche Mode, The Cure). In questi giorni che precedono il festival della musica italiana, il cantautore romano è stato selezionato tra i tre finalisti del Premio Enzo Iannacci del NuovoImaie, il riconoscimento dedicato alla migliore interpretazione per la categoria Nuove Proposte al 68° Festival di Sanremo.
Mirkoeilcane canta, con tono narrante, il racconto tratto da una storia vera di un bambino migrante evocando l’innocenza di uno sguardo che non ha abbastanza strumenti per capire ma inizia a comprendere la realtà che gli si svela davanti.
Intervista Ciao Mirko, il testo del tuo brano è di grande impatto emotivo. In verità il tuo obiettivo artistico si discosta dal forte legame con l’attualità.
Faccio fede alla musica d’autore. Visto chene sono io stesso un grande appassionato, mi piacerebbe se potesse tornare in auge. Trovo che una canzone per definirsi tale debba avere un messaggio, un testo scritto in una forma bella e compiuta. Il senso è raccontare una storia dall’inizio alla fine altrimenti non si parla di canzoni ma di “cose per accompagnare lo shopping”.
A proposito di racconto, la tua è una canzone parlata. Ti sei chiesto come possa accogliere il pubblico questa tipologia di forma canzone?
Ero perplesso nel proporre questo tipo di canzone in effetti. Il fatto è che il tema portante del brano richiedeva una forma diversa dalla canzone normale. Avevo bisogno di trattare una questione delicata, raccontandola nei dettagli per evitare di sfociare nelle banalità e negli stereotipi imperanti.
Che posto avrà questa forma canzone nell’album di prossima uscita “Secondo me”?
Mi prodigo sempre di scrivere canzoni parlate perchè mi piace l’idea di poter inserire le parole di cui ho bisogno nelle canzoni. Mi trovo molto a mio agio anche se certamente tutto questo va a discapito della radiofonicità di ciò che scrivo.
Qual è il modo migliore per riuscire ad entrare in connessione con il tuo mondo?
Amo suonare dal vivo e guardare le persone negli occhi, anche se la radio è decisiva nel sancire certe dinamiche di mercato, una volta che le persone ti conoscono e ti seguono, il ritornello catchy diventa una cosa a sè stante.
Video: Stiamo tutti bene
Com’è Mirko nella vita di tutti i giorni?
Provo a circondarmi di persone come me che si soffermano sulle cose e sui piccoli dettagli. Sarà difficile vedermi in discoteca. Il mio divertimento sta nel parlare, nello scoprire, nel conoscere le storie delle persone, nel chiacchierare di fronte a un bicchiere. Mi piace l’idea che ci sia uno scambio umano tra le persone.
Da venerdì 9 febbraio sarà disponibile nei negozi tradizionali, in digital download e in tutte le piattaforme streaming “Secondo Me”, il tuo secondo album. Cosa ci troveremo al suo interno?
Mi rammarico di fronte a tanta superficialità in giro. Sia chiaro, non sono nessun professore, anche io ho lo smartphone e gioco ai videogicohi con gli amici, non mi piace però vedere che tante persone vivano in funzione di queste cose, lo ritengo uno spreco. Ci sono talmente tanti interessi, così tanta arte chiusa in qualche museo che invece meriterebbe di essere vissuta. Nelle mie canzoni cerco di portare avanti un modo per vivere la vita con più significato.
Leonardo Monteiro, in gara alla 68° edizione del Festival di Sanremo nella sezione “Nuove Proposte” , porta sul palco del Teatro Ariston il brano “Bianca”(Nar International), scritto da Vladi Tosetto. Ballerino, figlio di ballerini, Leonardo ha la musica nel sangue ma sente che solo attraverso il canto, le sue emozioni possono essere trasmesse e condivise al meglio.
Intervista
Visto che il tuo percorso è molto variegato e ti avvicina all’arte in più modi, chi è oggi Leonardo e come si presenterà al pubblico sanremese?
Il presente è il momento in cui cerco di focalizzarmi di più. Spesso viviamo pensando al passato o mirando al futuro perdendoci il qui e ora. Per quanto mi riguarda sono sempre lo stesso di prima, spesso esperienze importanti possono cambiare drasticamente una persona, io sono felicissimo di far parte del Festival di Sanremo, il palco dell’Ariston è un palco importantissimo però c’è una cosa che mi son detto: evolversi è giusto ma io voglio sempre rimanere me stesso. Non sarà una telecamera a cambiarmi, io sono una persona semplice, tranquilla, che ama l’essere umano. L’incontro umano è la chiave di tutto.
La danza ti ha portato molto, sia dal punto di vista umano che professionale, sui grandi palchi come il Teatro alla Scala di Milano e altri importanti palcoscenici all’estero. Come mai hai spostato il tuo focus sul canto?
Esco da una comunità educativa per ballare a La Scala di Milano, quando ero ragazzo ero spesso vittima di bullismo . Tutto quello che ho vissuto in quel periodo mi ha fatto scattare dentro la voglia di vivere qualcosa di più grande. Ho iniziato a studiare danza a Montecatini, ho fatto un provino per entrare a La Scala e ho ballato per alcuni anni lì, volevo provare poi il mondo della televisione. Effettivamente ho riscontrato che si trattava di un mondo completamente diverso anche se si trattava pur sempre di spettacolo. Amici è stata un’esperienza di grande crescita, subito dopo sono andato all’estero. Ballavo certo, ma ho sempre avuto un grande amore per il canto. Vivevo ad Harlem , in cui c’erano tantissime Chiese Gospel. Succedeva quindi che tornavo dalla compagnia di danza e mi lasciavo trascinare da quel mondo. A New York ho raggiunto il massimo della mia soddisfazione personale come ballerino nel mio piccolo, quindi mi son detto che potevo accostare per un po’ la danza e dedicarmi al 100% alla musica. Ho voluto tornare in Italia perchè mi mancava, ho studiato canto e pianoforte, ho formato due band esibendomi nei club di Milano, ho fatto il solista in un coro gospel e poi è arrivata l’avventura di Sanremo.
Due band?
Sì i White Corner sono stati il mio o gruppo, mi esibevo insieme a 5 ragazzi: Steve, Marco Arrighi, Matteo Fratocchi, Dario Cassaro e Antonio Bove. Abbiamo girato i locali di Milano, era un periodo nuovo, non avevo mai fatto concerti con altri musicisti, ho vissuto il periodo rock della mia vita,. La seconda band era più seria, si chiamava Five for Funk, suonavamo con più gavetta alle spalle, erano tutti musicisti professionisti. Lavorare con una band mi ha insegnato che avere dei musicisti alle spalle per me è fondamentale, mi dà la possibilità di esprimermi al completo.
Come si passa dalla danza al canto?
Anche da ragazzo volevo cantare però fare una scuola importante quella de La Scala ti porta a dire: “ormai sono qui, vado avanti”. Quando poi ho cominciato a crescere come musicista, ho capito che il modo in cui riesco ad esprimere meglio le mie emozioni è il canto. Spero che il pubblico lo recepisca insieme a me.
Quindi possiamo dire che hai scelto?
Sì, assolutamente. La danza avrà sempre un posto nel mio cuore però il canto è il massimo per me.
Senti di poterti proporre anche come autore?
Certo, scrivo e compongo. Lo studio del pianoforte è nato proprio per comporre dei brani miei che troverete nell’album che uscirà dopo il Festival.
Video: Bianca
Perchè al Festival di Sanremo hai scelto di proporti da interprete?
Durante i provini di Area Sanremo ho avuto l’onore di conoscere Vladi Tosetto che è anche l’autore di “Come saprei” (Giorgia). Mi sono sentito onorato del fatto che si sia fidato di me. Mi piace l’idea di far sentire al pubblico le cose che ho da raccontare, sia dal punto di vista musicale che testuale, però mi è sempre piaciuto anche interpretare e dare vita alle cose scritte da altre persone. L’interpretazione può essere di grande impatto emotivo.
Ascoltando il brano “Bianca” si sente comunque la tua impronta black.
“Bianca” parla della storia di due persone che si lasciano a causa di un tradimento. Ho scelto questo brano perchè mi dava la possibilità di inserire il mio mondo musicale e perchè dava spazio ad un messaggio di speranza e possibilismo: le ferite hanno bisogno di tempo per essere rimarginate, subito dopo però rimangono le cose belle. Mi piace vedere l’aspetto positivo delle cose, ribaltarne i lati negativi.
Come vivi il rapporto con la tua vocal coach Dariana Koumanova?
Ci siao conosciuti alla fine dell’estate durante un mio periodo down. Alcuni amici mi hanno sostenuto e incoraggiato. Dariana è violinista da 20 anni, io e lei abbiamo un rapporto molto inteso anche se non ci conosciamo da molto tempo. Sono contento che lei mi diriga perchè è bravissima e ha alle spalle una grande gavetta musicale. Quando ho fatto le prove con l’orchestra di Sanremo per me è stato pietrificante, non ci volevo credere quasi. Un’emozione indimenticabile. Nel mio futuro prossimo spero di fare più concerti possibili, per me sarà fondamentale guardare negli occhi le persone che verrano con la voglia di ascoltarmi.
“Essere qui” è il titolo del nuovo album di Emma Marrone, pubblicato oggi per Universal Music Italia. Visibilmente emozionata, la cantante dimostra di credere profondamente in questo progetto a cui ha alacremente lavorato per due anni tra Italia e New York: “Sono soddisfatta di questo disco in cui mi racconto nella modo più onesto e sincero che conosco. Questo album mi fa divertire, mi ci riconosco in ogni singolo aspetto. Sarà perchè ci ho lavorato in modo consistente per due anni, ho seguito i lavori dall’inizio alla fine. Ho visto cambiare questo album tante volte, più passava il tempo più maturavano le cose. A disco quasi chiuso, ho voluto ricantare alcuni brani perchè non è così scontato tirare fuori una canzone che resterà per sempre. In definitiva, ho cercato di far restare impressa la parte migliore di me, quella che ho accettato, che ho perdonato e che forse prima non conoscevo benissimo. Ho lasciato sedimentare la parte più fragile di me, quella più insicura. Poi ho conosciuto la pazienza. Io persona di pancia, ho imparato a respirare, mi sono letteralmente ripresa il mio respiro. Ho fatto questo disco non per dimostrare ma per mostrare. “Essere qui” è un punto di partenza, ogni traccia dice qualcosa di me e, anche se racconto storie di altri, non riesco a dissociarmi da ciò che interpreto. Ecco perchè scelgo sempre qualcosa che mi rappresenta”.
Ecco le appassionate parole con cui Emma introduce questo nuovo lavoro che rivela un nuovo equilibrio personale: “Sono molto più serena. Faccio scelte difficili, a volte azzardate, ma sono mie scelte, questo è quello che conta. Ogni cambiamento ha bisogno di essere digerito, capito e io sono solita prendermi il mio tempo per farlo. Non farei mai questo mestiere per accontentare o accontentarmi, ho tante domande a cui rispondere e io lo faccio attraverso la musica. Ho imparato ad ascoltarmi, ho voluto mettere un punto a certe lacune che avevo, per un po’ ho messo da parte quello che io sentivo di me stessa. Ero predisposta ad ascoltare sempre e solo i giudizi degli altri, a piccoli passi e con grandi sforzi mi sono lasciata un po’ andare, oggi sono molto più luminosa”. Tanta più luce, quindi, che si evince da un nuovo uso del linguaggio vocale: “C’è stata una ricerca più minuziosa nei testi, un uso diverso delle parole e un approccio diverso alle stesse. La prima persona che mi ha fatto notare che cantavo in modo diverso è stata mia madre, non l’ho scelto, è successo in modo naturale”.
Sul piano musicale, tanti generi commistionati tra loro e tanta musica suonata da grandi musicisti.Il disco vantale collaborazioni musicali di Enrico “Ninja” Matta, Paul Turner, Adriano Viterbini, ed è stato mixato e registrato da Matt Howe alle Officine Meccaniche di Milano. ”L’Isola” è stato il brano che mi a spinto a lavorare in questo modo all’album, non ho voluto tradire quell’emozione, quel fascio di luce che mi ha squarciato. Più in generale ho dato precedenza a brani più giusti per questo momento specifico. Non mi sono approcciata all’album con un desiderio di rivalsa, bensì con un’attitudine da musicista. In studio sono rompiscatole e puntigliosa, mi ha dato soddisfazione il modo in cui mi hanno trattato i musicisti. Luca Mattioni in particolare si è messo ancora una volta a servizio della musica, ha realizzato 25 versioni di uno stesso brano solo per rendermi soddisfatta al cento per cento. Lui come tutti coloro che hanno lavorato a questo disco sono persone che amano la musica e che credono nella musica suonata dal vivo”.
Video: L’Isola
A proposito dei brani, la predisposizione è quella di dare spazio ad un bilancio esistenziale equilibrato. Al centro della tracklist il coraggio e la voglia di mostrarsi, di accettarsi, di raccontarsi. Su tutte, evidenziamo la canzone scritta da Amara, intitolata “Le cose che penso”: “Questo brano è il ritratto della mia anima e della mia voce, il frutto di una chiacchierata a cuore aperto tra donne” – racconta Emma che conclude: “Ho imparato a dire no alle cose che non mi piacciono e non mi rappresentano”. A 33 anni Emma sa chi è, cosa vuole, e cosa raccontarci. Che la sua forza faccia da ispirazione.
Raffaella Sbrescia
Questa la tracklist di “Essere qui”: “L’isola”, “Le ragazze come me”, “Sottovoce”, “Mi parli piano”, “Effetto domino”, “Le cose che penso”, “Portami via da te”, “Luna e l’altra”, “Malelingue”, “Sorrido lo stesso”, “Coraggio”.
Avere 22 anni e sentirsi a fuoco. Questa è Francesca Michielin che presenta il suo nuovo album “2640” (Sony Music) come un viaggio per imparare a incontrare e incontrarsi e a dire esattamente quello che si vuole comunicare. Con Michele Canova, nuovamente alla produzione, le sonorità si rifanno ad un mondo elettronico leggermente messo da parte a favore di momenti strumentali che regalano maggiore autenticità a tutto il lavoro. La capacità più evidente della Michielin è cercare di essere essenziale mettendo in primo piano argomenti che fanno parte della vita quotidiana di tutti, non ci sono concettualismi ermetici. Pezzi di vita fanno capolino tra flashback e istantanee che profumano di verità.
«Il disco ha tre anime», racconta Francesca Michielin, nel corso di un incontro stampa a cui hanno preso parte sia il presidente Sony Music Italia Andrea Rosi che il presidente di Live Nation Italia Roberto De Luca, a testimonianza del grande sostegno di cui gode la giovane cantautrice. «Nella copertina dell’album ho voluto inserire tre triangoli per simboleggiare tre elementi chiave che hanno ispirato questo disco, le energie che ho convogliato insieme: il triangolo azzurro rappresenta il mare e racchiude il concetto del sentire, inteso come percepire. Il verde è la montagna da cui provengo e dalla quale immagino il mare, il rosso è il vulcano, l’elemento che mi ha ispirato (dopo una cura termale vicino ai Colli Euganei) e che rappresenta l’esplosione; la voglia che ho di comunicare».
Comunicare, dunque, è l’obiettivo di Francesca Michielin che ha scritto 11 delle 13 canzoni che compongono la tracklist del disco mentre le altre vedono la collaborazione di Dario Faini, Calcutta, Tommaso Paradiso e Cosmo: «A questa età so cosa voglio dire anche se ovviamente non so ancora cosa voglio dalla vita. Le canzoni sono state scritte in modo viscerale e impulsivo, “Comunicare”, ad esempio, è nata in 40 minuti. Si è trattato di un processo vulcanico, una vera esplosione durata un annetto circa. Sono entrata in studio il 20 gennaio scorso, tutto è nato in modo organico. I brani scritti a quattro mani sono nati un po’ per amicizia e un po’ per divertimento, abbiamo lavorato in modo fluido» – ha spiegato Francesca che, in questo album mette in evidenza il tema caldo della fratellanza e dell’uguaglianza tra le razze. In particolar modo, nel brano intitolato “Tapioca”, la cantante ha voluto inserire un ritornello in lingua ghanese: «Si tratta del ritornello di una canzone popolare, di lode e ringraziamento per tutte le cose che sono in alto. “Io sono di qui ma non sono di qui” è la frase manifesto del disco, ho sempre inteso il concetto di famiglia come comunità, sono abituata ad interagire con persone che vengono da altre parti del mondo ed è sempre stato tutto molto normale. Mi sono interrogata sul senso di appartenenza e sull’essere contaminati».
Francesca Michielin
La poliedricità di Francesca Michielin si è riversata anche in altro tema che è lo sport: «Tutto il disco ruota intorno al concetto dello sport» – ha raccontato l’artista – «C’è San Siro, la curva nord, il calcio, la Formula 1. In particolare il brano “La Serie B” prende ispirazione dalla retrocessione del Vicenza in serie B, ora tra l’altro in Lega Pro. Quella è stata la prima grande delusione della mia vita, in casa piangevamo tutti. Ho vissuto una sensazione di retrocessione esistenziale quindi ho voluto rendere omaggio a tutte quelle persone che vivono in serie B ma lottano a testa alta come fossero in serie A. Per quanto riguarda il brano “Alonso” mi sono lasciata coinvolgere dall’irrazionalità ispirandomi all’attitudine vera e sanguigna di un atleta bravo come Alonso che non si lascia mai scalfire dalle difficoltà».
In attesa del tour che, a questo giro, avrà molta carne al fuoco, il brano più interessante di “2640” è “Lava: « Si tratta di un brano violento e senza filtri, ispirato a “Tahiti” di Bat For Lashes, artista che amo molto, e a un suo brano in cui la donna è vista come massaia. Io ho voluto buttare lava su questo concetto, dico basta alla Franceschina dolce e cucciolina. Le donne non devono essere serie B, a casa mia tra l’altro hanno sempre comandato le donne. Non c’è altro da aggiungere».
Raffaella Sbrescia
Nel 2018 Francesca inizierà anche una nuova importante avventura live nei principali club di tutta Italia. Dopo l’anteprima di Parma il 16 marzo, il tour prodotto e distribuito da Live Nation partirà da Milano il 17 marzo, e toccherà poi Torino, Brescia, Bologna, Trento, Roncade (TV), Catania, Perugia, Maglie (LE), Modugno (BA), Roma, Napoli e Firenze.
I biglietti per le date sono in vendita su Ticketmaster.it, Ticketone.it e tutti i punti vendita autorizzati.
Cosa può spingere un artista a ricominciare da zero, uscire dalla propria comfort zone, reinventarsi e mettersi in gioco? Sono tante le variabili da tenere in considerazione: la fame di vita, la curiosità, la voglia di accrescere la propria esperienza, più semplicemente l’esigenza di esprimersi. Quello appena citato è il caso di Lorenzo Cherubini Jovanotti che con il nuovo album di inediti intitolato “Oh, vita!” dimostra ancora una volta di non riuscire a stare fermo.
La grande avventura questa volta è stata farsi produrre il disco da Rick Rubin, uno dei produttori più famosi in America e nel mondo, un risultato che ha completamente assorbito Lorenzo stravolgendo i suoi punti di riferimento consuetudinari.
«Questa è stata l’esperienza più forte da quando pubblico dei dischi. Rubin in studio è veramente un artista, la sua capacità di concentrazione è molto alta. La sua missione è stata quella di portare le canzoni alla loro essenza estrema. Questo album ha avuto un lungo tempo di preparazione anche se la realizzazione ha richiesto dei tempi molto brevi. Così come nel rock’n’roll la tensione si libera in una performance, allo stesso modo Rick Rubin concepisce la lavorazione di un disco non come un’architettura ma come un gesto. Per quanto mi riguarda, mi sono sentito come quando 30 anni fa entrai nello studio di Claudio Cecchetto a Milano: volevo essere all’altezza della situazione».
Queste le parole appassionate con cui Jovanotti racconta la genesi di un album che, tra le mura del temporary store Jova pop shop in Piazza Gae Aulenti a Milano, acquisisce le vesti di happening trasversale; in sintesi un aggregatore culturale. Il party letterario è confluito anche in Sbam! Un volume ricco di contenuti prodotti da grandi esponenti della cultura, un’occasione per integrare all’ascolto del disco, un dettagliato racconto di viaggio, nonché una serie di approfondimenti correlati a tematiche più ampie.
Tornando al disco, tutto è cominciato dal singolo “Oh, vita!”: «Questo pezzo l’ho realizzato tutto in una notte. Avevo a due disposizione due campionamenti con ritmiche che avevano un suono, seppur piccolo. Nelle mani di Rubin, l’ho visto diventare altro nel giro di due secondi. In quel momento ero ancora un suo fan, sentivo dentro di me la voglia assoluta di essere alla sua altezza, lui che ha dato una struttura all’hip hop di massa, che ha creato una forma canzone per qualcosa che prima era solo improvvisazione. Per me è stata una grande esperienza di vita e di formazione professionale» – spiega Jovanotti.
Jovanotti ph Michele Lugaresi
«Queste 14 canzone sono state scritte, vissute, volute, sognate con tutto il cuore. Un anno fa, dopo aver visto i miei numeri, Rubin mi disse che non avrebbe potuto aggiungere una sola copia al mio venduto sul mercato ma che il suo interesse primario era mettere in atto uno scambio di esperienze artistichea. Questo era era esattamente quello che volevo: perdere il controllo della mia leadership in studio, volevo essere un cantate prodotto da Rubin, mi sono affidato completamente a lui che non ha voluto le traduzioni dei testi sostenendo che le canzoni dovevavano arrivargli senza capire nemmeno una parola. Inutile ribadire quando sia stata incredibile questa esperienza. Mi sento di dire che sono felice di aver fatto questo disco, qualcuno si stupirà, qualcun’altro resterà deluso ma siamo nell’ambito dei gusti. Questo è il pezzo di vita di un essere umano e la vita non è discutibile, si tratta di un fatto importante, aldilà di quanto sia bello o brutto».
Il disco ha due anime opposte in qualche modo: l’ anima da cantautore incontra quella da beat maker, i primi pezzi in effetti sono ruvidi e asciutti, poi qualcosa cambia, il guizzo tipico dell’irrequietudine che caratterizza Jovanotti prende piega ed è che l’album diventa vario: «Rubin ha capito come sono fatto e ha assecondato la mia inclinazione naturale. Alla fine della produzione mi ha detto che questo è il disco più vario mai prodotto in vita sua e ne è stato felice».
Viene naturale chiedersi come tutto questo finirà sul palco nel corso dell’imminente tour: «Abbiamo già fatto due settimane di prove con la band, in un paio di giorni mi sono reso conto che c’era bisogno di intervenire anche nei pezzi vecchi. Questo disco getta una luce positiva anche sul mio passato, costringendomi piacevolmente a vivere i primi brani in modo più scarno e informale. Abbiamo asciugato i pezzi, quasi rivivendo i consigli di Rubin, la parola d’ordine è: less. Questo non implica una forma di minimalismo, si tratta di fare spazio per far funzionare meglio le cose. Per ora abbiamo provato 7 pezzi del disco nuovo, non so se li farò tutti e sette, il mio pubblico viene ai concerti con l’idea di partecipare a una mega festa, ho il problema di dover fare dei tagli ed eliminare molte cose a cui tengo, il grosso comunque si baserà sui pezzi storici».
Un progetto diverso da sempre, quindi. Figlio, tra l’altro, di un lungo periodo in cui Jovanotti ha vissuto negli Stati Uniti: «Partirei da una citazione: se vai a vivere per un po’ in America, all’America non cambia niente ma a te cambiano un sacco di cose. L’America è un paese vivo e pulsante, un paese selvatico, un paese in cui ti svegli e devi sopravvivere contro tutto e tutti. A New York sei da solo in una giungla, non ho mai pensato di sconfinare in America con la mia musica, so di sapermi mettere in comunicazione con qualunque pubblico ma non ho mai avuto un progetto americano e non c’è neanche in questo caso».
Video: Oh, vita!
Parlando dei testi, diventa importante soffermarsi sulle parole: tante quelle sentite in questo album. Si parte dal concetto di libertà: «La libertà sta al centro del disco. Ogni generazione ha il compito di ridare significato ad alcune parole importanti nel nostro vocabolario. Anima, giustizia, amore sono parole che ogni volta perdono senso, vengono sfilacciate, il nostro compito è cercare di ridargli vita soffiandoci dentro lo spirito. Dal mio punto di vista di cantante è bello cantarla, posso pronunciarla senza troppa pesantezza, sono diventato grande quando i movienti politici erano finiti, per me la rivoluzione è soprattutto interiore» – racconta Jovanotti. «Più in generale – aggiunge – lavoro tantissimo ai testi ma non seguo mai una regola. Alcuni dei miei pezzi più famosi sono nati in pochissimo tempo. “Piove”, ad esempio, è nato in 45 minuti mentre per “L’ombelico del mondo” ci sono voluti 4 anni. L’aneddoto relativo a questo nuovo album è relativo al singolo “Oh, vita!”: ho scritto il testo recitandolo sul telefonino come un free style ma mi ci sono impegnato così tanto che non ho cambiato neanche una virgola. Non riuscivo ad uscire da quel tipo di leggerezza, poi l’ho fatto ascoltare un giorno in macchina alla mia famiglia e il commento di mia figlia mi ha convinto definitivamente. Per il resto il disco è tutto scarno dal mio punto di vista, mi sono sentito nudo dentro questi testi, continuamente a confronto con i miei limiti da interprete. Con Canova ho realizzato 10 dischi e siamo in ottimi rapporti. L’approccio con lui era molto diverso, la voce era trattata con le macchine, con Rubin invece è l’opposto, non ci sono correzioni, non avevo mai lavorato in questo modo. Mi sento ancora elettrizzato».
Jovanotti cover Sbam
A corredare “Oh, vita!” ci saranno un docufilm e un almanacco letterario intitolato Sbam”. Ecco come li presenta Jovanotti: «Michele Lugaresi, film maker e web master lavora con me dal 1997 e ha seguito tutte le mie attività web fin dall’inizio. Quando lo stesso Rubin mi ha scritto che se volevo, potevo portare qualcuno per riprendere il making del disco, ho colto subito l’occasione e ho invitato Michele a venire con me. Ci siamo esaltati, il film è molto crudo, ripreso con una sola telecamera, non ci sono luci artificiali. L’aspetto più interessante è che nel film non si sente il disco, ho scelto della musica d’ambiente, si sentono solo dei frammenti delle canzoni, il senso è seguire la genesi del disco che prende forma. Potrete vederlo gratuitamente il 10/12/2017 in tutti gli UCI cinemas. Sarà un film per appassionati di musica. A proposito di cose che mi gasano, non dimenticatevi di “Sbam”: ho voluto invitare alcuni degli esponenti letterari che mi stanno più a cuore, ho giocato a fare il direttore e mi sono divertito anche a scrivere un diario di viaggio di questa mia nuova avventura. Mi piacerebbe che questo progetto diventasse un periodico, non è un libro nì una rivista, è semplicemente “Sbam”!».
“Of Shadows” è il nuovo album del cantautore siciliano Fabrizio Cammarata. Pubblicato per 800A Records e distribuito in tutto il mondo da Kartel Music Group e da Haldern Pop Recordings in Germania, Austria e Svizzera, l’album è stato prodotto dallo spagnolo Dani Castelar (produttore di Paolo Nutini e engineer in passato di Editors, REM, Michael Jackson, Snow Patrol) e registrato a Palermo negli studi di Indigo al Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa, un luogo che col tempo si è trasformato nel cuore pulsante della scena musicale dell’intera isola siciliana.
Undici tracce in inglese che delineano i chiaroscuri dell’anima, sonorità folk senza geografie univoche ma con lo sguardo contemporaneo e gli arrangiamenti elettronici. Tutto guidato dalla straordinaria voce di Fabrizio – al tempo stesso malinconica e rabbiosa, dolce e disperata ma sempre profondamente penetrante. Canzoni scritte durante gli innumerevoli viaggi che lo hanno portato dalla sua nativa Palermo in giro per il mondo e che intrecciano ricordi del passato e sentimenti vivi del presente.
Intervista
Il tema dell’ombra è piuttosto scomodo. Come mai l’hai scelto come cardine di questo tuo nuovo progetto?
Perché nel momento in cui ho “scoperto” che stava nascendo il disco ho capito che queste canzoni non erano state altro che una continua ricerca nelle zone più nascoste e scomode della mia anima. Così come durante le eclissi un’ombra riesce a darci la consapevolezza della natura di astri e pianeti, così ho capito che stavo assistendo a un’eclissi totale dell’anima, e ho colto l’attimo godendomi l’oscurità e attendendo con emozione che tornasse la luce, osservando e annotando tutto come un astronomo del ’600.
Cosa rappresentano per te l’ombra e l’oscurità, più in generale?
Sono un appassionato di fotografia e amo il mondo della pellicola e del bianco e nero. Quando sono nella mia camera oscura faccio sempre quel lavoro di sperimentazione e studio su come governare luce e ombre e farle parlare. Cerco le ombre nei ricordi, nel disco invece guardo ai lati oscuri dell’amore.
Dove, con chi e come hai lavorato alla produzione del disco?
Si è verificata una simbiosi magica, inaspettata e imprevedibile, con Dani Castelar, il produttore artistico. Oltre a essere uno che ha lavorato con i più grandi (come produttore con Paolo Nutini, e in studio con R.E.M., Editors e Michael Jackson), è una persona di estrema umiltà, che ha voluto entrare a capofitto nel mio mondo più interiore, voleva capire da dove nascessero queste canzoni e ha accresciuto come nessun altro avrebbe saputo fare il potenziale espressivo di questi undici brani. Infatti siamo diventati grandi amici, per me è uno dei regali più belli di quest’anno meraviglioso. Ho registrato però nella mia Palermo, avevo bisogno di farlo, e per questo mi sono avvalso degli amici di Indigo, uno studio che sta al piano nobiliare di Palazzo Tomasi di Lampedusa, in pieno centro storico.
Canti in inglese ma la tua anima è siciliana, come riesci a conciliare questi due aspetti tanto importanti quanto paralleli e in che modo traspaiono nelle tue canzoni?
È la cosa più difficile da vedere, benché per me sia ovvia. Mi sento siciliano ma mi sento molto più “mediterraneo”, sento di appartenere a questo mare che ha trasformato guerre e dominazioni in atti di d’amore, unione e tolleranza. Trovare il centro in mezzo al mare è impossibile, e questo decentramento è una delle caratteristiche che sento più mie in ogni aspetto di me. Mi sento a casa in un luogo inesistente in cui si canta in inglese, si parla in italiano, si piange come Chavela Vargas e ci si dispera come Rosa Balistreri, si guarda il tramonto dalle saline che diventano rosa e si beve il tè del Sahara.
Malinconia, rabbia, disperazione fanno leva sull’impatto emotivo. Quali sono i tuoi punti di riferimento in tal senso e cosa vorresti che le persone percepissero ascoltando i tuoi testi?
Nel mio ultimo concerto a Parigi, a fine serata, si è avvicinata una ragazza mentre smontavo la mia roba e mi ha detto «hai smosso qualcosa dentro di me, di molto profondo». Aveva gli occhi lucidi ed era sincera, voleva regalarmi quel momento di comunione in cui anche se a cantare sono io, sto dando voce anche a qualcun altro. E non penso sia qualcosa che riguardi solo i testi, infatti parlava anche un inglese stentato… Ecco, sogno che sia sempre così, chiamala catarsi se vuoi, ma io preferisco parlare di “effetto sciamanico” della mia musica. Cerco sempre di far diventare ogni concerto un rituale in cui mi faccio carico delle ombre di chi decide di entrare nel mio mondo. All’ultimo applauso, ci sentiamo tutti più liberi.
Sei abituato a muoverti e a viaggiare molto spesso. Cosa ti lascia ogni viaggio che fai?
Una valigia piena di cose che poi diventeranno canzoni. È bellissimo scandire la propria vita in questo modo.
Ne hai fatto qualcuno particolarmente significativo di recente?
Ogni viaggio ha un fascino a sé. Ultimamente mi capita di tornare in luoghi che ormai conosco bene, come Parigi, Londra, Berlino, Amburgo. Ma una sorpresa c’è sempre, e io non dimentico mai la mi macchina fotografica, perché ciò che non può diventare canzone diventa una fotografia. L’ultima fotografia che ha avuto un significato forte per me l’ho scattata a Montreal, in Canada, dove ho suonato per un festival. Non ho ancora sviluppato la pellicola e non so cosa è venuto fuori, ma dentro di me quella foto esiste già da quel momento, in un angolo di “memoria creativa”.
fabrizio cammarata of shadows
Colgo l’occasione per chiederti anche del prezioso progetto di recupero culturale che hai messo in piedi con Dimartino con l’album “Un mondo raro”, in cui omaggiate Chavela Vargas. Come vi è venuta la voglia di lavorarci, con quale spirito e con quali prospettive?
Ero in Messico con un amico regista, Luca Lucchesi, per un road movie su La Llorona a cui lavoriamo dal 2012. Antonio mi raggiunse lì dopo uno dei suoi tour e, su un bus sgangherato in mezzo alo stato di Morelos, si toglie l’auricolare e mi fa «Ma perché non proviamo a tradurre queste canzoni?». Da lì è nato tutto, dopo tre giorni eravamo in studio a Città del Messico a registrare con i chitarristi di Chavela, una serie di casualità ci ha portato a venire a contatto con tutta la gente che le era stata più vicina… Insomma, abbiamo collezionato tante di quelle storie, alcune mai raccontate neanche da lei, che a quel punto il disco ci stava stretto, ed è nato il romanzo. Una “fiaba biografica” l’hanno definita, e mi piace molto pensarla così.
Nella tua bio si parla della tua passione per la musica berbera e tuareg. Ti va di approfondire questo argomento?
Per me nel 2017 il vero blues è quello dei Tuareg. Di chi ieri imbracciava un fucile e poi ha capito che con la chitarra ci poteva combattere meglio. Musicalmente è il genere più rivoluzionario degli ultimi decenni, e io ogni giorno sto lì a cercare di capire il segreto dietro a quelle scale così desertiche e così aperte. Le loro canzoni, con eleganza e compostezza, parlano di acqua che è il tesoro del deserto, di emarginazione e di una pace cercata.
Che rapporto hai con le arti visive e il cinema?
Molto stretto, da appassionato e spettatore. Per il mio disco ho coinvolto un artista che in Europa ha fatto cose meravigliose, palermitano come me, che si chiama Ignazio Mortellaro. Insieme abbiamo costruito il concept dell’album, le eclissi e tutte le immagini a corredo, tratte da antichissimi libri di astronomia, che è una passione che io e Ignazio condividiamo, e che lui indaga nelle sue opere con la grazia dell’alchimista.
Quali sono, secondo te, gli elementi che contraddistinguono un folk fatto a regola d’arte?
Intanto definiamo “folk”. Se intendiamo il cantautore che imbraccia la chitarra e scrive di sé, senza dubbio la cosa che io cerco sempre nei miei ascolti è la sincerità. Più ancora dell’originalità, ho bisogno di sentire la forza del messaggio, che può non essere ecumenico, non occorre che tutti vi si riconoscano. Ma mi piace vedere l’anima dell’artista che si spoglia senza vergogna.
Quali sono i tuoi riferimenti in questo senso?
La gente che ha sempre e solo seguito se stessa: Bob Marley, Nina Simone, Chavela Vargas, Bob Dylan, Nick Drake, i Tinariwen, Beck, Nick Cave.
Quali sono i traguardi che senti di aver raggiunto e quali invece appaiono ancora lontani?
Inseguo da anni quel potere sciamanico che la musica può avere, e che ho sentito in alcuni artisti come Chavela Vargas e Nick Cave. Impossibile arrivare a quei livelli, in cui tutti escono dalla sala concerti in lacrime, ma ho bisogno di tenere quell’obiettivo per tendervi, asintoticamente. Però a volte succede che arrivo negli angoli più profondi di qualcuno, che poi viene a ringraziarmi, e questa è una delle emozioni più belle, per me. Da una dozzina di anni costruisco tutto a poco a poco, una casa che non sarà enorme ma sicuramente salda. Se vuoi sapere un mio desiderio… un mio sogno ricorrente è bere un whiskey con Bob Dylan, passare mezz’ora seduto accanto a lui, anche senza parlare.
Cosa provi quando sei sul palco e come varia il tuo stato d’animo a seconda del posto in cui ti esibisci?
Cambio in toto. Da persona timida e riservata divento qualcosa che ha bisogno di esplodere, prendo tutto il palco come se fosse la mia stanza, in maniera anche prepotente, insolente forse. Ma fa parte di quel processo in cui decido di denudarmi (in maniera figurata) davanti al pubblico. Dopo l’ultima canzone, tutto cambia, e anche ricevere i complimenti mi confonde un po’.
Esce venerdì 24 novembre il nuovo album di Giuliano Palma “Happy Christmas”. Il progetto sigla l’ingresso del cantante in casa Sony ed esorcizza una festività che per Giuliano Palma ha sempre rappresentato un momento angosciante.
Rivolgendosi ad un pubblico ampio e lontano dai purismi, Palma si approccia al repertorio dei grandi classici natalizi con il suo ritmo reggae – ska che in tanti anni abbiamo imparato ad apprezzare e riconoscere.
All’interno di una presentazione stampa molto particolare, tenutasi a bordo di un Music Tram in centro a Milano, Giuliano Palma ha raccontato: «Con questo album ho voluto mettere l’accento sui ritmi in levare, sui fiati coinvolgenti, sulla batteria incalzante. Piccoli accorgimenti che rendono ballabile qualsiasi ballata natalizia, anche la più classica e malinconica».
Tra le cover più curiose c’è “All I want for Christmas is you”, a proposito della quale Giuliano rivela: «Farei un momento a chi ha composto e prodotto questo brano che, sebbene sia stato rifatto innumerevoli volte, solo nella versione di Mariah Carey ha fatto davvero la differenza. Personalmente mi sono divertito tantissimo a cantarla. In realtà in tutto questo disco sembro un po’ un matto, chi mi conosce sa che definirmi naif è dire poco. Sono curioso di sapere cosa ne penserà chi lo ascolterà».
E se gli si chiede perché ha scelto di cantare proprio “Jingle Bells”, Giuliano dice: «Un conto è cantare “Let it snow”, un altro è cantare un brano come questo in cui mi sono messo alla prova in modo più forte rispetto agli altri. Questo classico ha convinto intere generazioni, esistono splendide versioni: da quella di Sinatra a quella di Elvis Presley. La mia viaggia sulle tonalità dello ska perché, in sostanza, ho voluto creare il Natale che piace a me. Lo ska è uno status mentale.»
Un Natale personalizzato, dunque, un modo per scacciare via la malinconia: «Il Natale mi mette angoscia, non mi piace per niente, spesso l’ho superato stando su un palco a cantare, anche questo disco è concepito per non cedere alla malinconia».
Poi ancora una curiosità: «”White Christmas” l’ avevo registrata qualche anno fa ma non l’ho mai pubblicata. Sentivo di aver sprecato un’occasione quindi questo progetto prende il via proprio da quel momento lì».
A parte questo aneddoto, niente spazio per il passato per Giuliano Palma che a proposito della recentissima pubblicazione del cofanetto celebrativo per il 20esimo anniversario dei Casino Royale, dice: «Premettendo che non intendo rinnegare nulla del mio passato, non mi piace riesumare “cadaveri”. Sono andato semplicemente oltre. Ho fatto altre cose. Non ho partecipato in alcun modo a questo progetto e non mi interessa. Son felice di avere altro a cui pensare in questo momento».
Infine, l’immancabile quesito sulle sorti di questo album natalizio: «Si tratta di un’iniziativa estemporanea, legata ovviamente a questo periodo. Sicuramente ho in mente di suonare queste canzoni dal vivo per qualche concerto pensato apposta ma in questo momento non ho ancora ricevuto conferme in merito. Se nel frattempo volete pensare ad un regalo di Natale per me, sarei contento di ricevere una bella Aston Martin usata! (ride ndr)».
“Illegacy” è il titolo del nuovo lavoro della pianista e compositrice Roberta Di Mario,(Warner Music Italy – Publishing: Red&Blue/Abiudico/ I Mean)
Il disco si compone di 10 brani dotati di grande potere evocativo. La ricercatezza, l’inquietudine creativa e l’elegante femminilità di Roberta Di Mario sono le chiavi di accesso ad un mondo onirico variegato ed appagante. La superficie, in ogni caso, di un iceberg emotivo sommerso.
Intervista
Da dove arriva il flusso emotivo che ha ispirato “Illegacy”’
Arriva dalla vita, dal mio “sentire”, da ciò che guardo e ascolto non solo con occhi e orecchie, ma con chili di cuore e anima. Dall’urgenza di condividere, dalla musica che ho ascoltato, dalla musica che sento nelle dita ancor prima di suonare e scrivere.
Come si trasforma un mondo in “bianco e nero” (quello dei tasti del pianoforte) in un universo visionario?
Non c’è un come, non c’è un perché. Succede, naturalmente e con tanta passione. Arrivano visioni, arrivano immagini, l’immagine supporta la musica e viceversa.
In “Illegal song” come superi i concetti di dolore e oblio?
Illegal song e tutta la musica in genere ha il potere, almeno per me, di purificare il mio animo inquinato dai pensieri storti, dalla sofferenza e dal dolore. Così come ha il potere di accelerarmi il battito e portarmi verso le emozioni più forti ed autentiche.
Come si vive la musica in qualità di esperienza totalizzante?
Il pianoforte e la musica sono esperienze totalizzanti e catartiche. Mi sento una privilegiata nell’ aver scelto di vivere della mia più grande passione e trovare nel pianoforte, questa straordinaria macchina, un vettore che mi porta verso mete inaspettate.
In che modo il tuo percorso pregresso ti ha portato alla tua identità attuale?
Attraverso l’esperienza e la curiosità. Ho sempre amato sperimentare, uscire dalle regole anche se non in modo drastico, perdermi per ritrovarmi in nuovi mondi sonori. Finalmente ho trovato Roberta, centrata nel suo progetto artistico che la rappresenta completamente e profondamente.
Come riesci a trasformare questa emotività così spiccata, e a tratti violenta, in arte?
Succede anche qui, senza sforzo. Per “senza sforzo” intendo una naturalità del processo creativo, a cui segue però tanto impegno, tanta ricerca, tante ore di studio e mestiere. Sono certa di avere una emotività ed una sensibilità molto forti, non può che seguire tanta musica.
In che percentuale l’inquietudine e il tormento influiscono sulla creatività?
In altissima percentuale, almeno nel mio caso. L’inquietudine ed il tormento hanno contraddistinto la mia esistenza fino ad oggi, anche se non sono mancati momenti di gioia e serenità. L’inquietudine però è il segreto ed il prezzo da pagare per una vena creativa in continuo movimento, per non fermarsi mai, per tendere sempre a qualcosa di nuovo e soprattutto migliore.
Come si esprime la sensualità in musica?
Nella semplicità, ma quella semplicità pregna, elegante e non così banalmente dichiarata. La semplicità è davvero molto esigente e sono ogni giorno a perseguirla, così come la sensualità e la femminilità, che fanno la differenza nell’universo femminile.
Come definiresti il concetto di intimità?
La più profonda condivisione, capirsi nel profondo, nel più intimo. Darsi senza paura, completamente e senza filtri.
“Epilogue” chiude l’album o anche una parte del tuo percorso artistico?
Chiude solo l’album e le 10 storie visual che accompagnano i 10 brani del disco. Illegacy è un nuovo inizio, non potrebbe essere una fine.
Quali sono gli altri progetti che stai portando avanti?
Nuovi brani per il nuovo album, riecco l’inquietudine di cui si parlava prima, tanti concerti in italia e all’estero e tanto altro che comprende sempre la musica e la creatività! Ho fondato un brand di t-shirt che racconta di musica…Lalala #musictowear! Bianche e nere, ispirate ai tasti del piano…
Che tipo di feeddback hai ricevuto da parte delle persone che ti seguono?
Tantissimo entusiasmo. Illegacy piace tantissimo, colpisce e ruba l’anima. Quindi missione compiuta!
Quali sono i prossimi passi che vorresti compiere?
Lavorare per il cinema, scrivere con assiduità soundtrack e collaborare con registi che considerino la musica l’altra metà del cinema!
Metti sei anime, una cantina e una manciata di sogni. Ecco i Negramaro che, alla vigilia dell’arrivo del nuovo album di inediti “Amore che torni”, ci portano per mano nel cuore del cosmo per un indimenticabile viaggio interstellare. Una storia pulita, semplice, lineare che ha unito sei ragazzi, oggi giovani uomini maturi, nel segno dell’amore per la musica. Pianeti, galassie, costellazioni e stelle cadenti hanno cadenzato l’ascolto di canzoni fluide, appassionate e intrise di emozione. Ad assemblare la tracklist un tappeto elettronico morbido, caldo e avvolgente. Un marchio di fabbrica che, ad oggi, si rinnova con influenze d’oltreoceano e venature black.
E allora bentornati Negramaro, in attesa della grande festa negli stadi italiani, ecco quanto ci hanno raccontato in occasione della presentazione alla stampa.
Perchè “Amore che torni”? Cosa sta ad indicare la scelta di questo titolo?
«“Amore che torni” è il frutto di una crisi che abbiamo vissuto lo scorso anno. Considerando che oggi viviamo un periodo quanto mai felice, trovo che sia giusto raccontarvi che solo fino allo scorso dicembre non esisteva nulla di tutto questo. Ad un certo punto, dopo il grande impegno dello scorso tour, ci siamo accorti che era necessario rimanere non vicini. Dopo uno dei frequenti screzi che avevamo in quel periodo, ho deciso di andarmene a New York – ha raccontato Giuliano. Ho voluto provare una solitudine mai provata prima, una solitudine di cui ho avuto paura e che mi ha dato finalmente modo di capire fino in fondo cosa ha sentito mia madre con la scomparsa di mio padre. Con questa crisi abbiamo voluto crescere per capirci meglio, per tornare a noi stessi sia individualmente che come gruppi. Era giusto allontanarci, quel periodo ci ha aiutato a capire tante cose ma soprattutto a ritrovare un’energia strepitosa».
Cosa sentite di voler dire oggi?
«Siamo felici di essere ancora insieme alla Sugar ma con modalità diverse, Casa 69 è diventata una casa editrice e include anche i miei fratelli – ha raccontato Giuliano Sangiorgi. All’epoca della crisi chiudevamo un contratto pluriennale, vivevamo un cambiamento forte, era normale cercare di scappare così come lo è tornare da un gruppo di amici come questo. Non finirà mai quello che è vero, questa è la storia di noi 6 ed è la storia più bella del mondo. Non ci importa delle views, degli streaming, dei record, a noi interessa parlare della nostra storia ai tanti giovani che percepiscono la tv come la nostra cantina. Dobbiamo raccontare un passato che non è da dinosauri ma che è necessario tener presente per poter guardare al futuro». «Capire quello che avevamo da dire in questo momento è stata la cosa più difficile da affrontare, eravamo spaventati da noi stessi ma è bastato poco per riaccendere il fuoco che c’era tra noi e ritrovare le modalità di lavoro di sempre – ha aggiunto Andrea Mariano – Avere tutta questa energia e lucidità mi ha sconvolto, personalmente sento di avere le energie per affrontare altri 20 anni».
C’è un brano in cui si parla del momento più cupo?
«Sì, il brano che chiude il disco “Ci sto pensando da un po’” rappresenta quel momento in cui c’è stato il culmine della crisi. Di questo brano non c’è traccia, l’ho eliminato subito, non volevo vederlo, ero troppo spaventato. Le parole che poi recita mia nipote Mariasole vengono dopo, le ho inserite per dare la sensazione di riappacificamento con me stesso e con i ragazzi. Da lì in poi le canzoni le abbiamo scritte e scelte insieme, in questo disco c’è tutto quello che ci è sempre piaciuto raccontare fin da quando eravamo piccoli. Ci sono tutte le cose che avremmo voluto dire».
Cosa racchiude “New York e nocciola”?
In quel periodo ascoltavo Chet Baker, mi sono sentito devastato, ero solo in una città stupenda, in quei giorni c’era tutta la tensione tra Trump e gli immigrati in America. Mi sono sentito fuori luogo, fuori tempo e fuori spazio. Sulla pelle sentivo tutte le sensazioni di chi muore e affoga in mare. Chiedevo ai Negramaro di riaprirci a noi stessi.
Come avete ritrovato la sintonia sul piano produttivo?
La crisi si è ricucita da sola. All’inizio avevamo una percezione del tempo un po’ sfasata rispetto alla routine di produzione. Abbiamo messo in piedi uno staff che vive e che lavora insieme a noi, 24 ore su 24. Con Irene, la moglie di Ermanno e Lavinia e moglie di Andro, abbiamo creato qualcosa di semplice, stiloso e profondo per ovviare a quella sensazione sgradevole di non riconoscerci. Abbiamo lavorato in studio a più fasi, prima io e Andro, poi io e Lele al mare, poi con Danilo, Ermanno e Pupillo e infine abbiamo chiuso tutto in studio a Milano in modo molto veloce. Abbiamo lavorato come dei trattori, sentivamo la necessità di ascoltarci».
Negramaro
Visto che avete lavorato alla produzione in momenti diversi, come avete raggiunto la formula sonora finale?
«Non siamo iper tecnici, non siamo dei virtuosi però abbiamo la giusta esperienza per fare un disco che arriva a chi ci ascolta. Abbiamo lavorato a questo disco pensando: o la va, o la spacca. Abbiamo affrontato la pre-produzione cercando un concept sonoro. Ci è piaciuto ritrovare la partecipazione di tutti. Ci capiamo, sappiamo come interagire, il suono è la conseguenza di una connessione tra noi, non potrebbe accadere diversamente.
Video: Fino all’imbrunire
“Torneranno i vecchi tempi con le loro camicie fiammanti”…
«I ragazzi nati nel 2000 hanno visto la musica nascere in tv, noi vogliamo raccontare questa storia altrimenti i ragazzi non avrebbero modo di conoscere questa realtà e potrebbero pensare che non porti a nulla. Non abbiamo paura di invecchiare, crediamo nelle nuove generazioni. Dobbiamo superare il buco nero e le ansie di non sentirci abbastanza contemporanei».
E l’omaggio a “Le nuvole” di De Andrè”?
«All’epoca ero fissato con i Doors ma De Andrè mi ha infilato una spada nel cuore, mi ha detto “Il rock sono io”, quell’emozione mi ha messo a posto con me stesso e con il mondo. Cantare opere come quella per me è autorigenerante, un modo per restare incollato all’emozione che mi ha fatto cominciare questo cammino. L’obiettivo era trovare una chiave semplice per portare avanti contenuti profondissimi. Ecco, i ragazzi devono sentirsi dire cose grosse con parole semplici. Non mi riconosco mai quando mi definiscono poeta, non ho soluzioni tecniche vorrei semplicemente che si portino avanti dei discorsi umani».
Come finirà tutto questo nel tour?
«Siamo felici di cantare negli stadi. Con La rivoluzione sta arrivando tour abbiamo voluto stare insieme alla gente, ritrovarla palazzetto per palazzetto. Adesso vorremmo espandere questo sharing e rivolgerci a tutta Italia in questo nuovo modo. Vi aspettiamo tutti»!
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