Il Concertone di San Giovanni torna in piazza, dopo due anni di assenza, e lo fa con tutta l’energia, l’impegno, l’entusiasmo e la scenografia che si devono ai grandi ritorni.
Nell’ entrare in Piazza San Giovanni, e nella sua atmosfera festosa, sembra quasi che questi due anni di difficoltà e restrizioni non siano trascorsi: però lo sono e non possiamo dimenticarcene.
Non è il caso di addentrarsi nel merito delle performances degli artisti, delle scelte della Direzione Artistica, della qualità della musica. C’è sempre chi sarà contento e chi invece muoverà delle critiche. Anche perché questa manifestazione musicale oramai consolidata nel tempo tutto può essere definita, meno che un momento di riflessione e di celebrazione, soprattutto sulle problematiche del mondo del lavoro, mondo che sicuramente in questi due anni ha subito delle notevoli difficoltà in tutti i settori, e in molti fa fatica a entrare nuovamente a regime.
Insomma di spunti ce ne sarebbero per portare in piazza un discorso diverso dal solo fare musica, a prescindere dal genere di musica, e sicuramente nell’ambito di una manifestazione che si tiene in un giorno celebrativo sarebbe auspicabile e opportuno. Tuttavia è altrettanto opportuno cogliere un aspetto diverso del Concertone, aspetto che è andato sempre più delineandosi nel corso dell’ultimo decennio.
Il suggerimento ce lo dà la piazza: giovane, molto giovane, colorata, più composta rispetto alle precedenti edizioni, e tanto desiderosa di lasciarsi alle spalle problemi, difficoltà, restrizioni che hanno caratterizzato le nostre vite soprattutto nel corso degli ultimi due anni, e di fare il carico di spensieratezza.
La musica è per lo più quella della generazione più fresca: i ragazzi che mi sono di fianco sanno tutto di artisti di cui ignoro l’esistenza. Si entusiasmano, saltano, sono felici. A mia volta cerco di raccontare loro chi sia e cosa faccia Marco Paolini, e ascoltano. Lo scambio è divertente, ci offriamo a vicenda del cibo, io di qua loro di là dalla transenna. Insomma, voglia di divertirsi, ma anche la disponibilità ad aprire fessure attraverso le quali far passare qualcosa di più articolato. Un Primo Maggio troppo impegnativo probabilmente lo rifiuterebbero.
E se la musica non è sempre in linea con quella che la generazione dei Miti ha come punto di riferimento, poco importa: avranno tempo per assorbirla. Il tempo a noi un poco più anziani invece sfugge, e forse proprio sforzandoci (lo ammetto per me è uno sforzo), di entrare nel loro mondo, potremmo impiegarlo proficuamente per comprendere anche noi stessi oggi, eterni ventenni cosparsi di rughe.
La Signora Vanoni, commovente al punto che è giusto valutarne la presenza e non la performance, porta sul palco un brano da brividi, che in passato fece parte del suo repertorio, e viene acclamata all’unanimità.
Max Pezzali è attesissimo. E forse è il giusto anello di congiunzione generazionale, tra noi su con gli anni che cominciavamo, ai tempi degli 883, a concederci qualche digressione sul pop commerciale senza troppi sensi di colpa, e loro che invece hanno attinto principalmente dal pop, per evolversi nel rap e nella trap.
Tuttavia un momento che mette a tacere tutti e catalizza l’attenzione senza sé e senza ma è quello dedicato al ricordo di Gino Strada, per il quale pochi giorni fa al teatro Argentina, con il patrocinio della Regione Lazio e del Comune di Roma si è tenuto un acclamato e commovente evento commemorativo.
Su Gino Strada e sul suo operato nessuno ha nulla da ridire. Lo conoscono i giovani, i meno giovani. Ne riconoscono il ruolo e l’importanza. E soprattutto si riconoscono sotto un motto: non esiste una guerra buona. E se anche soltanto questo valore restasse impresso a fuoco nelle anime e nelle coscienze degli uomini e delle donne che verranno, beh, potremmo scegliere qualsiasi accompagnamento musicale e andarne fieri.
Insomma, per i contenuti politici e sociali ci sono le piazze e la quotidianità.
Il Concertone oramai è diventato una sorta di regalo che viene fatto in un giorno che andrebbe celebrato ogni giorno. Perché il diritto al lavoro, che sia dignitoso, retribuito, contrattualizzato, non si rivendica il Primo Maggio: si rivendica 364 giorni l’anno. E la riflessione nasce naturale: “hanno rappresentato realmente un momento di valorizzazione del mondo del lavoro tanti anni di Primo Maggio vissuti all’insegna di una imprescindibile componente politica?”.
I fatti lo negano, per quanto possiamo ricordarli, giustamente, con nostalgia. Tanti ragazzi venuti dal centro sud, che forse non avranno i soldi per andare a sentire Mengoni o Coez, hanno approfittato dell’occasione.
Scevri da sofismi, prendiamoci il dono, facciamone tesoro, eliminiamo la retorica delle commemorazioni, e, passata la festa, cominciamo a parlare di diritti, e soprattutto di Pace: il tempo per la musica di “qualità”, quella che molti rimpiangono, arriverà anche per loro, i quindicenni di oggi: noi ne siamo stati fortunati contemporanei, insieme ai tempi migliori che l’hanno accompagnata, e questo dovrebbe bastarci.
Roberta Gioberti
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