“Fomenta” è il nuovo progetto discografico di Antonio Castrignanò, riconosciuto come uno dei più apprezzati e dei più innovativi rappresentanti della musica tradizionale salentina ma anche, e soprattutto, un ricercatore di suoni ed emozioni. Non è necessario sottolineare quanto la pizzica sia una danza davvero molto amata in tutta Italia, rappresentando, a tutti gli effetti, un punto di intima connessione con le nostre radici. Quello che bisogna evidenziare è, piuttosto, la dimensione sempre più internazionale che questa musica sta acquisendo, ritagliandosi un ruolo centrale all’interno dello scenario musicale mondiale.
Antonio Castrignanò Ph Carlo Piro
In “Fomenta” luoghi, storie, leggende, profumi, sapori, lacrime e gioie della tradizione classica si ricongiungono al mondo contemporaneo e, attraverso il meticoloso lavoro di ricerca strumentale e contenutistica di Castrignanò, il risultato è un pregevole lavoro di ispirazione cosmopolita. “Fomenta”, prodotto su etichetta Ponderosa, rappresenta un’evoluzione all’interno del percorso artistico di Castrignanò il quale, anche grazie all’incontro con il dj e polistrumentista turco Mercan Dede, ha aperto le proprie composizioni ad interessanti incursioni elettroniche e suggestivi innesti di musica orientale.
Antonio Castrignanò Ph Giuseppe Rutigliano
Il ballo scaturito dai brani composti in “Fomenta” racchiude percorsi spirituali e rimandi a scenari che trascendono dal contesto contingente. Brani come “Core meu”, “Funtana gitana”, Lu culuri della terra”, “Sciamune” spaziano in lungo e in largo, regalando immagini e suggestioni oniriche di grande impatto artistico ed emotivo Così come avviene nel cantato vibrato di “La ciuccia nera”, in “Stornelli” e nell’appassionante “Luna Otrantina”. La grande varietà di suoni, strumenti, storie proposte in questo album, si rivestono di un fascino esoterico, quasi mistico. Le tracce strumentali, “Terraferma”, in particolare, rivelano in maniera decisamente efficace tutto il pathos, il dramma, l’emozione della vita: un’irresistibile fusione tra delizia e tormento.
Nella prima settimana di vendita “Ghost Stories”, il nuovissimo album dei Coldplay ha già stabilito un nuovo record, con il maggior numero di album, fisici e digitali, venduti, debuttando direttamente al numero 1 della classifica FIMI/GFK degli album più venduti della settimana in Italia e ottenendo da subito la certificazione di Disco d’Oro. Al secondo posto i Dear Jack, vincitori del premio della critica durante l’ultima edizione di “Amici”, con l’album “Domani è un altro film”. Al terzo posto l’album postumo di Michael Jackson“Xscape”, seguito dall’ep omonimo di Deborah Iurato, neo vincitrice del talent show targato Mediaset “Amici”. Al quinto posto c’è “Logico”, l’apprezzato album di inediti di Cesare Cremonini, seguito dall’unica new entry della settimana; si tratta di “Curriculum”, il nuovo disco di Denny Lahome. All’ottavo posto troviamo “L’amore comporta” di Biagio Antonacci, alle sue spalle c’è Caparezza ed il suo “Museica”. Soltanto nono è “Al Monte”, l’originale lavoro del cantautore romano Alessandro Mannarino. Chiude la top ten Laura Pausini con “20 The Greatest Hits”.
Silvia Tancredi è una cantante e autrice torinese, diplomata in canto presso il CPM di Milano e laureata in D.A.M.S. presso l’Università degli Studi di Torino. Innamorata da sempre del gospel, Silvia vanta una nutrita carriera come vocalist al fianco di artisti come Neja, Arthur Miles & The Allstars Gospel, Lee Brown, Fred jr. Buscaglione, Fabrizio Consoli, Anthony Morgan’s Inspirational Gospel Choir Of Harlem. Sempre pronta a sperimentare ed a mettersi in gioco, Silvia Tancredi sta lavorando al suo nuovo album di inediti e nel frattempo ci ha parlato di “The Cage”, il brano scelto dalla regista Mirca Viola per la colonna sonora del suo film “Cam Girl” (al cinema dal 22 maggio) e disponibile anche in versione remix a cura di Jeffrey Jey (Eiffel 65).
Silvia, il tuo percorso musicale è per lo più incentrato sullo studio e la pratica del contemporary gospel…cosa rappresenta per te questo universo musicale e cosa ti ha dato fino ad oggi in termini sia umani che artistici?
Il gospel è stato il mio primo amore e, in quanto tale, questo genere è stato una continua fonte di spunti per andare alla ricerca di aspetti musicali sempre nuovi. Il gospel è una musica che ha radici molto antiche, è nata nell’800 e ha preso forme sempre nuove fino ad arrivare al contemporary, una musica un po’ più difficile da inquadrare per noi italiani. In realtà si tratta di un genere che viene suonato su tutti i palchi in continuazione, uno stile musicale assolutamente vivo, che mi sono portata in tutti i miei progetti.
Quanto sono importanti per te lo studio e la ricerca quotidiana?
Beh, lo studio è fondamentale. Credo che la cultura possa darci delle chiavi per aprire le porte della nostra vita. L’approfondimento dell’aspetto musicale e la ricerca per la tesi della laurea specialistica per me sono stati importanti perché ho avuto modo di attuare un percorso di studio approfondito su un argomento molto attuale ovvero il mondo legato ai talent show. Il mio punto di vista non è stato solo quello di una studiosa, di una ricercatrice, si tratta, piuttosto, di un punto di vista etnoantropologico; in questo modo ho ottenuto dei riscontri e dei risultati molto più completi.
Silvia Tancredi Ph Roberto Borgo
“The Cage” è il tuo nuovo singolo che, insieme a “Sing your love”, brano tratto dal tuo primo album intitolato “L’importante è crederci”, fa parte della colonna sonora di “Cam Girl”, il nuovo film della regista Mirca Viola. Di cosa parlano questi brani e in che modo si ricollegano alla trama del film?
Sono convinta che Mirca abbia scelto queste due canzoni innanzitutto per la loro musicalità ma anche per il loro contenuto testuale. “Sing your love”è una canzone in cui compaiono pianoforte, archi e voci e nel film è stata messa, infatti, come musica di sottofondo in un momento più tranquillo della narrazione cinematografica. “The Cage”, invece, è una canzone che non ho scritto per il cinema quindi l’incontro con Mirca è stato molto fortunato. La mia canzone parla dell’illusione di trovarsi all’interno di una gabbia dorata, dell’impossibilità di riuscire a volare. Per queste ed altre ragioni, il contenuto del film si identifica con i concetti contenuti nel mio brano: quattro ragazze si troveranno, senza rendersene conto, intrappolate nella scelta di aprire un sito di Cam Girl. La mia canzone comunque lascia una porta aperta alla possibilità di realizzazione.
Che ne pensi della versione remix di “The Cage” curata da Jeffrey Jey degli Eiffel 65?
Conosco Jeffrey da tempo e, quando lui mi ha proposto il remix, ho temuto che il risultato si discostasse dalla canzone invece devo dire che ha fatto un lavoro veramente entusiasmante!L’ultima volta che ho ascoltato il remix ballavo da sola per casa come una pazza perché Jeffrey ha messo nel brano tutta la sua energia.
Stai lavorando ad un nuovo album? Se sì, in che direzione ti stai muovendo?
“The Cage” è in effetti, il singolo che precede il mio nuovo album che è praticamente finito… A breve seguiranno dei nuovi singoli e poi uscirà l’album intero! In estate ci saranno delle belle novità in questo senso…
Si ringraziano Silvia Tancredi e Tatiana Corvaglia per Parole e Dintorni
“Mojo Rising”, è il titolo del primo ep del quartetto palermitano denominato Concreat e composto da Riccardo Villanti (voce, chitarra, tastiere); Manfredi Mazziotta (voce, chitarre); Gaetano Solazzo (voce, basso); Marco Villanti (batteria, percussioni). Appassionatissimi degli eterni Beatles, i Concreat si sono lanciati in un progetto di ricerca strumentale raggiungendo un’inattesa formula musicale in grado di risultare innovativa, pur facendo riferimento a repertori e generi che hanno fatto la storia della musica mondiale.
L’ep dei Concreat si compone di 6 tracce, pubblicate per Som Non-Label lo scorso 11 aprile, che si districano tra la psichedelica ed il desert-stoner rock. Questo coinvolgente mix sonoro rimane,tuttavia, legato a doppio filo ad una melodia diretta ed spontanea. Riverberi di chitarre, synth studiati ad hoc e travolgenti cori sono gli elementi che il quartetto palermitano ha sposato al blues garage. I testi sono cantanti in lingua inglese, ad ulteriore dimostrazione della matrice completamente esterofila delle sonorità proposte dal gruppo. Tra i brani più interessanti, segnaliamo “Time”: una sequenza dall’identità fortemente strumentale e dai connotati decisamente seventies. Sporco, ruvido, virile, perturbante, epico, il sound dei Concreat è in grado di creare atmosfere ibride e particolareggiate al contempo; “Tea in the desert” rappresenta sicuramente l’esempio più adatto per testimoniare questa definizione. Lo stacco tra la nostalgia retrò di “Middle of the town pt.1” e lo strumentalismo importante di “Middle of the Town pt.2” si aggiunge, infine, alla lista di presupposti interessanti con cui i Concreat si affacciano allo scenario musicale internazionale.
Daniele Ronda è un cantautore piacentino, noto all’interno del panorama musicale italiano, non solo per i propri originali progetti discografici, ma anche per aver messo la sue notevoli capacità compositive anche a disposizione di famosi cantanti nostrani come Nek, Massimo Di Cataldo, Mietta, dj Molella. Attento, curioso, appassionato, Daniele è riuscito a costruire, tassello dopo tassello, un percorso artistico davvero molto articolato. Il suo cantautorato profuma di terra, di storie, di vite, di ragionamenti. La dimensione live per lui rappresenta il raccolto delle emozioni, il bagaglio di gemme e pietre preziose da riversare nel calderone delle sue canzoni.
In attesa di ascoltarlo dal vivo, in una delle numerose date estive che lo vedranno anche protagonista delle aperture dei concerti di Ligabue allo stadio Olimpico a Roma il 31 Maggio e allo stadio di San Siro a Milano il 7 giugno, abbiamo raggiunto Daniele al telefono per farci raccontare “La Rivoluzione”, il suo ultimo album di inediti, e per lasciarci conquistare da un cervello acceso, curioso, rivoluzionario.
“La Rivoluzione” è il titolo del tuo ultimo album. Partiamo da questo singolo per entrare nei dettagli di questo lavoro… quali sono i temi e le chiavi interpretative di questo disco?
Il disco ha una caratteristica importante, si tratta di un lavoro nato in maniera quasi inconscia. Mentre lo stavo registrando, mi sono trovato ad ascoltarlo e mi sono reso conto che le 11 tracce erano diventate una sorta di concept album. Tra le canzoni c’è un legame forte, qualcosa che le unisce ed è la necessità di cambiare una serie di cose che a mio parere stanno minando la nostra serenità, l’unione della nostra società. Questa voglia, questa forza, questa rabbia nei confronti di questa situazione mi è sembrata una sorta di rivoluzione, non di quelle classiche, una rivoluzione interiore che, secondo me, bisogna fare ogni giorno senza accettare tutta una serie di compromessi. Tutte le volte che decidiamo di incuriosirci, di informarci, di amare la cultura, di guardarci intorno, tutte le volte in cui facciamo cose che racchiudono i nostri valori, mettendo le cose davvero importanti al primo posto, ci avviciniamo verso la nostra felicità. Ogni volta che facciamo questo facciamo l’unica vera rivoluzione efficace. Alla luce di questo pensiero, mi ci è voluto poco per chiamare il disco “La Rivoluzione”, il brano che dà il titolo al disco è, tra l’altro, uno dei pezzi nati dopo le altre canzoni che compongono l’album.
Nel corso della tua carriera hai avuto modo di misurarti con vari generi musicali, nella veste di autore, attraverso molteplici collaborazioni artistiche. Qual è il contesto compositivo in cui ti senti più a tuo agio e come cambia il tuo approccio alla scrittura di volta in volta?
Lavorare e scrivere per altri è diverso dal lavorare per se stessi, si tratta di due mestieri che hanno sì qualcosa in comune ma hanno due approcci differenti. Quando lavori per un altro artista dipendi dalle sue esigenze, bisogna capire qual è il suo linguaggio, quale cosa detta da lui sarà più efficace, credibile, cosa lo rappresenterà di più e questo è un lavoro molto stimolante perché ti spinge a toccare dei temi, degli stili, dei suoni, dei generi che magari non avresti mai affrontato… Questa cosa mi ha spinto ad aprirmi a tanti mondi musicali. Quando si lavora con se stessi, invece, il lavoro diventa più doloroso, più difficoltoso. Nonostante ci si conosca, spesso ci si trova a combattere di fronte a dei conflitti interiori. Questa cosa ti fa crescere e, allo stesso tempo, ti consente di raccontarti attraverso la musica ed è una cosa che a me dà tanto, questo è il mio modo di urlare quello che sono, quello che sento, il mio modo di raccontare quello che vedo e che mi tocca in modo particolare.
Come ti è venuta la voglia di legare la tua musica al territorio piacentino in particolare ed emiliano più in generale?
La musica è una parte fondamentale della mia vita, tutte le scelte del mio quotidiano si rispecchiano nel mio modo di fare musica. Sono stato per un periodo lontano da casa, lontano dalla mia terra perché consideravo la mia città quasi un luogo troppo piccolo, che mi stava stretto per i miei sogni e i miei progetti. Quando sono andato via, però, ho scoperto che mi mancava tremendamente, mi mancavano tutta una serie di cose che mi facevano sentire a casa. Allora ho cominciato a raccontare la mia città con l’intento di raccontarle tutte. Il legame con le proprie radici è qualcosa di universale, questo non significa che siamo ancorati al posto in cui siamo nati, significa che abbiamo un punto di riferimento, un posto che, guardandoci indietro, possiamo ritrovare sempre e comunque trasformandolo in una ricchezza, una nostra peculiarità. Nel mio caso è stato così, sono orgoglioso di raccontare le storie che sono nate nella mia terra.
Secondo te l’uso del dialetto nella canzoni può rappresentare un valore aggiunto?
Il dialetto è una forma di comunicazione, prima ancora che una lingua. Credo che certe cose dette in dialetto abbiano un’efficacia, una forza, una potenza particolare ed è per quello che ho scelto e sceglierò ancora di scrivere in dialetto. Non è una scelta commerciale e, anche se in questo mio ultimo disco non ci sono canzoni in dialetto, per me si tratta di una necessità, certe cose mi viene spontaneo dirle in dialetto perché dietro ogni parola, ogni modo di dire, c’è tutta una serie di incastri etimologici e questa è una cosa meravigliosa.
In “Ognuno di noi” parli della comune usanza di fare grandi progetti di notte e di ritrovarsi al mattino dopo con il ricordo appannato della sera prima….Si tratta di un racconto dalla valenza universale?
Ho parlato della notte perché a me è capitato di notte, ma credo anche a tanta altra gente capiti che in certi momenti del giorno ci si senta padroni del mondo e altri in cui ci si sente persi, distrutti, abbattuti… Questo ci destabilizza, ci aggrappiamo a una serie di cose che ci vengono propinate in maniera assillante, io invece credo che dobbiamo credere in noi stessi, non dobbiamo voler essere qualcun altro, dobbiamo credere in quello che siamo e, su questa base, dovremo costruire la nostra vita. Il brano ha anche un video che, con ironia, dice che cercare di vivere la vita di un altro significa frustrazione. Io sono uno che guarda, che si informa, che cerca la gente… poi, però, prendo quello che mi interessa, lo faccio mio, lo rielaboro, lo modifico, lo riutilizzo per quando mi servirà. In sintesi: vivo la mia vita con tutti i pregi ma anche con tutti i difetti che mi contraddistinguono.
“Le donne italiane” si riferisce ad una storia in particolare o intende parlare di una tematica più generale?
In Italia abbiamo tantissime diversità, tradizioni diverse, lingue diverse, storie diverse e queste differenze rappresentano una delle nostre ricchezze più grandi a livello culturale, storico e sociale. Spesso sembra che cantando in dialetto ci vogliamo chiudere e non voler scoprire quello che c’è intorno, invece è il contrario! Quello che racconto nelle mie storie è il frutto di un viaggio in cui mi piace scoprire il luogo in cui vado, la storia dei luoghi che mi circondano. Questa è una pizzica salentina che ho scritto in Emilia Romagna, un asse tra nord e sud, un’unione della diversità. Ho voluto valorizzare quello che è diverso come qualcosa da scoprire, la diversità deve unire le persone, deve unire i popoli…La vera maniera che abbiamo per uscire da questa crisi è valorizzare la nostra diversità perché siamo uno dei paesi che ne ha più di ogni altro; ogni 23 km cambiano i dialetti, le storie, le tradizioni e questa è una cosa davvero speciale.
Che ruolo ha la fisarmonica nella tua musica?
Nei dischi precedenti la fisarmonica rappresentava addirittura la colonna portante di alcuni arrangiamenti. In questo disco è ancora tanto presente ma lo è in particolar modo in una canzone intitolata “La Regina”. Questo strumento è stato messo in disparte per tanti anni, era considerato vecchio, sembrava che con la fisarmonica si potesse fare solo musica da ballo come il liscio. Io penso, invece, che questo strumento sia vivo: l’aria passa attraverso piccole lamelle ed il suono fuoriesce quasi come se fosse un canto. La versatilità del suono permette di interpretare col cuore le canzoni, ecco perché la fisarmonica è uno strumento magico.
Daniele Ronda Ph Alessio Pizzicannella
Ti esibisci spesso in contesti molto legati all’identità territoriale…che tipo di impressioni e riscontri ricevi ogni volta?
Per noi artisti il live è qualcosa di fondamentale, è la nostra forma di contatto con la gente. Io e i Folkclub siamo partiti da qualche settimana con il nuovo tour, questo è quel periodo dell’anno in cui diventiamo un po’ degli zingari, siamo in macchina e maciniamo chilometri incontrando gente. Anche sui palchi scopriamo cose che ci portiamo dietro. “La Rivoluzione” è, infatti, un disco che nasce molto in viaggio, incontrare le persone è fondamentale tanto quanto lo è vederle provare delle sensazioni insieme a te. Questa cosa mi arricchisce sempre tantissimo. Poi ovviamente ci sono dei periodi dell’anno in cui siamo in studio per lavorare il disco, ed è in quei momenti che a volte mi vengono crisi di astinenza da palco. Il live è veramente una di quelle cose che salva la musica. Mentre tutti parlano di crisi discografica, il live è qualcosa che è lì e che non si può scalfire perché è vero, è vivo, crea un contatto tra chi è sopra e chi è sotto il palco.
Come è andata al concerto del Primo Maggio a Roma?
Un conto è dire le cose, un conto è metterle in atto ed io l’ho fatto scegliendo di fare il mio set insieme ad un gruppo che fa musica popolare calabrese come i TaranProject. Addirittura una delle canzoni l’abbiamo cantata un po’ in dialetto piacentino, un po’ in dialetto calabrese per ricordare il concetto di asse nord-sud e di diversità che unisce. Questo è avvenuto perché sono sempre alla ricerca, scopro sempre cose nuove, tengo gli occhi aperti, non mi faccio influenzare da un meccanismo che fa comodo e che impone di non guardarci troppo intorno. Queste sono le cose che mi danno gioia, che mi arricchiscono, voglio capire perché si suona un determinato strumento e scoprire storie della terra. Tutte le volte riempio il mio bagaglio ed è una cosa che mi tiene su e mi dà sostegno.
Si ringraziano Daniele Ronda e Tatiana Corvaglia per Parole e Dintorni
Deborah Iurato è una cantante siciliana di 22 anni, nota al pubblico televisivo per essere stata una degli allievi più apprezzati dell’ultima edizione di Amici 13. Prescindendo dal legame della ragazza con il talent show, in questa sede ci concentreremo sull’approfondimento del suo ep d’esordio, intitolato, per l’appunto “Deborah Iurato”. Il lavoro discografico è stato prodotto da Mario Lavezzi e si compone di 7 tracce in cui spicca la fresca e potente vocalità della giovane interprete. Anticipato dal singolo profumato di spunti folk, intitolato “Danzeremo a luci spente”, questo breve lavoro contiene due o tre testi particolarmente azzeccati, sia per quanto riguarda il contenuto sia per la modalità con cui Deborah si è appropriata delle parole per dare loro una nuova prospettiva interpretativa. Tra questi c’è “Piccole cose”, il bellissimo brano scritto da Lorenzo Vizzini e che rappresenta un vero e proprio inno alla positività: “Se cadrai tante volte, ti alzerai più forte” e poi, ancora, “sono le piccole cose a cambiarci la vita”, una riflessione profonda e delicata, qualcosa che si discosta dal grigiore emotivo a cui ci siamo ormai abituati. “Anche se fuori è inverno” è il singolone firmato da Fiorella Mannoia e Bungaro. Il testo parla di una donna che riacquista sicurezza e fiducia in se stessa, la consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie misure.
L’altro brano che vale la pena citare è “Ogni minimo dettaglio” : anche in questo caso la protagonista è una donna che prende coscienza di quello che vuole e che non è disposta a scendere a compromessi. “L’oro di cui siamo fatti” pare cucito su misura per la Iurato mentre molto meno riuscito è, invece, il brano intitolato “A volte capita”: i vocalizzi di Deborah finiscono per risultare banali e a tratti fastidiosi. La versatilità della voce della giovane cantante rappresenta un punto di partenza importante e, in un momento cruciale per la sua carriera, per lei sarà fondamentale evitare passi falsi e concentrarsi sulla cifra stilistica che possa esaltare al meglio le evidenti risorse di cui dispone.
Si è tenuto lo scorso 25 maggio “Musica per Gatta: concerto in una stanza”, l’evento organizzato per sostenere un nuovo progetto della Mad Enternaiment, la factory fondata a Napoli da Luciano Stella, Antonio Fresa e Luigi Scialdone, che ha prodotto l’apprezzatissimo film d’ animazione di Alessandro Rak, “l’Arte della Felicità”. L’idea alla base del miniconcerto nasce dalla ricerca di fondi per la realizzazione di una nuova Gatta Cenerentola, una fiaba emotiva, visionaria, romantica, musicata dallo struggente e malinconico sound della canzone napoletana. Dopo aver lanciato su www.kisskissbankbank.com/it una campagna di raccolta fondi, l’iniziativa ha trovato il sostegno di alcuni dei più validi musicisti della città di Napoli, i quali hanno accettato di esibirsi presso gli studi di registrazione della Mad Enternainment in Piazza del Gesù.
L’intreccio tra musica e immagini, a cavallo tra tradizione e innovazione, ha trovato spazio nelle voci e negli strumenti di giovani talenti in grado di rileggere con classe ed eleganza le grandi pagine del prestigioso passato musicale partenopeo. Ad accogliere il pubblico durante le quattro sessions (ore 17.00 – 18.00 – 19.00 – 20.00) i produttori Mad Entertainment, il regista Ivan Cappiello e l’Art director Marco Galli, che ha realizzato per la campagna un’esclusiva illustrazione donata ai partecipanti.
Ad inaugurare la godibilissima scaletta, Giovanni Block, accompagnato dal mandolino di Luigi Scialdone, sulle note di “Palomma e notte” seguita dalla tormentata ballad, scritta proprio dal giovane cantautore, intitolata “La neve che accadrà”. Il secondo artista ad esibirsi di fronte ai 20 fortunati spettatori della prima session, è Luca Di Maio. Il cantautore ha cantato la struggente “Buonanotte Irene” e “Scetate”, un brano risalente al lontano 1887 che rappresenta un prezioso ricamo musicale della tradizione partenopea. La scaletta è davvero molto serrata, ed è il turno del terzo artista in programma. Si tratta di Claudio Domestico, in arte Gnut. L’artista canta subito “Solo una carezza”, uno dei brani più drammatici del suo ultimo album di inediti, intitolato “Prenditi quello che meriti”. Il secondo brano è, invece, “Passione”, un pezzo a cui Gnut è particolarmente affezionato e che rappresenta, ormai, un vero e proprio cavallo di battaglia del giovane cantautore. Tommaso Primo ed Enzo Foniciello alla chitarra si esibiscono, invece, sulle note di “Addore”, tratta dall’ep di Tommaso “Posillipo Interno 3” e “Reginella”. La parentesi più movimentata è ad opera di Dario Sansone, voce e frontman dei Foja che, insieme a Scialdone , ha eseguito “A Malìa”, brano tratto dall’ultimo disco “Dimane Torna ‘o sole” in concorso per il Premio David di Donatello 2014 e “Carmela”, tanto per ribadire che “Nun è acqua ‘o sangue dint’ ‘ vvene”. A chiudere il live sono Antonio Fresa e Luigi Scialdone con due brani strumentali: il primo è “Vurria Addeventare”, tratto da “La Gatta Cenerentola” di De Simone mentre il secondo è il “Tema dei due fratelli”, tratto dalla colonna sonora del film “L’Arte della Felicità”.
Emozioni preziose come piccole gemme racchiuse in uno scrigno da tramandare di generazione in generazione, quelle offerte da Mad Enternaiment, che si pone come obiettivo principale quello di salvaguardare l’arte della tradizione per lasciarla germogliare seguendo l’onda della creatività.
I Park Avenue sono un gruppo rock italiano, nato nel novarese, composto da Federico Marchetti (voce e chitarra), Marcello Cravini (chitarre), Alberto “Spillo” Piccolini (basso) e Vinicio Vinago (batteria). La versatilità del gruppo rappresenta, a pieno titolo, uno dei punti di forza di questa compagine musicale che ha avuto l’opportunità di girare l’Europa e toccare con mano i più disparati contesti artistici. Dopo l’esordio anglofono con “Time To”, i Park Avenue presentano “Alibi”, un album composto quasi interamente da canzoni in lingua italiana. Abbiamo raggiunto Federico Marchetti, frontman della band, per conoscere più a fondo il percorso del gruppo e i contenuti del loro ultimo disco.
“Alibi” arriva a 4 anni di distanza dall’esordio di “Time to”… cosa hanno fatto e quali passi hanno compiuto i Park Avenue durante questo tempo?
In questi 4 anni abbiamo ovviamente promosso il primo disco, abbiamo girato molto per l’Italia e abbiamo tenuto molti concerti… quello che ci piace di più è proporre la nostra musica dal vivo, siamo stati in giro 2 anni e nel frattempo abbiamo cominciato a scrivere il nuovo disco. Alla fine di questo percorso ci siamo accorti che stavamo un pochino cambiando la nostra direzione…A livello macroscopico la grande differenza sta nel fatto che, mentre il primo disco era in inglese, il secondo è per l’80 per cento cantato in italiano; questo è stato un grosso passo per noi e probabilmente è frutto del rapporto che abbiamo col pubblico.
A cosa si deve la scelta di questo titolo per il disco?
Il ragionamento che ho fatto nello scrivere i testi è il seguente: viviamo un momento in cui si parla tanto di crisi, è sempre colpa del mondo esterno, non c’è lavoro, non c’è prospettiva, siamo tutti un po’ tristi e avviliti e questo, per carità, è un dato di fatto però il messaggio è questo: dobbiamo cercare di avere meno alibi possibili. Partendo da noi stessi possiamo cercare di cambiare la nostra situazione, il nostro è un invito a tenere duro.
Qual è la cifra stilistica musicale che sentite più vostra?
Siamo più o meno sempre gli stessi… Scriviamo le nostre canzoni sempre prima in inglese per cercare di dare un’immediatezza all’ascolto delle canzoni. L’italiano è più cantautorale mentre l’inglese è un po’ più commerciale, forse grazie alla presenza di frasi molto più corte, il nostro obiettivo è, in ogni caso, quello di essere incisivi…
Come avete lavorato alla scrittura e all’arrangiamento dei brani e quali sono i temi cardine attorno a cui ruota questo progetto?
Creiamo tutto in sala prove, suoniamo molto, improvvisiamo, cerchiamo di lasciarci trasportare dal nostro umore nel suonare tentando di non creare canzoni molto lunghe a livello di minutaggio e cercando di essere immediati nel messaggio testuale ma non scontati a livello musicale. Per quanto riguarda gli arrangiamenti, i nostri brani sono costruiti su intrecci di chitarre, abbiamo una formazione base con due chitarre, un basso e una batteria, anche se ogni tanto una chitarra viene sostituita da un pianoforte. Anche la musica è testo e noi cerchiamo di essere riconoscibili anche dal punto di vista sonoro, non bisogna sottovalutare nessuno dei due aspetti.
Chi è, secondo voi, il “social lover”?
In questo brano prendiamo un po’ in giro quelle persone che, all’interno della sfera social, sembra abbiano un alter ego molto diverso da come sono in realtà… anche tra le nostre amicizie, ci sono quei tipici amici che quando ti scrivono un messaggio sono dei leoni, poi magari li vedi in giro e neanche ti salutano, proprio come se fossero due persone diverse…quando noto questa discrepanza mi faccio delle domande e questa canzone è a metà strada tra critica e presa in giro…
“Le cose parlano, straparlano, complottano, si alleano con lei” è uno dei titoli più enigmatici dell’album…qual è la chiave interpretativa di questo brano?
Si tratta di un brano leggero, proprio per questo è a metà della track list. Questa canzone rappresenta un volta pagina all’interno del disco e ho pensato di darle un titolo che spiccasse tanto rispetto agli altri per fare in modo che potesse subito colpire chi legge i titoli delle canzoni. Per questo ho preso quasi tutta la frase del ritornello e l’ho messa nel titolo. In parte è stata anche una scelta un po’ provocatoria…
Qual è, invece, il testo a cui siete più legati?
Le preferenze del gruppo ricadono tutte su “Alibi”, la canzone che ci rappresenta di più nel disco e che ne tira fuori il messaggio principale.
La dimensione live è indubbiamente quella in cui riuscite ad esprimervi al meglio… che tipo di concerto è il vostro?
Quello che noi facciamo dal vivo rappresenta l’amplificazione di quello che accade nella nostra sala prove, ci divertiamo veramente tanto a suonare, tutto è molto poco studiato, i nostri concerti non prevedono una scaletta fissa, decidiamo al momento, a seconda di come stiamo, di come ci sentiamo, di dove ci troviamo. Siamo liberi di divertirci e cercare di essere sempre al 100 %, questa cosa viene apprezzata anche da chi si segue. A volte ci sono persone che vengono ad ascoltarci più volte e ci dicono sempre che ogni nostro concerto è diverso. Il fatto che ci divertiamo nel suonare per noi è fondamentale, fare le cose come dei robot dopo un po’ potrebbe annoiarci quindi cerchiamo di tenere viva la nostra voglia di stare insieme suonando.
Che riscontri avere ricevuto durante i concerti all’estero e gli opening act di artisti italiani come Ligabue, Antonacci, Baustelle…? Quali differenze avete notato in contesti così diversi tra loro?
All’estero il pubblico ci ascolta di più, le persone hanno meno preconcetti, c’è una cultura di base più propensa all’ascolto della musica dal vivo e a dare un’opportunità anche a un gruppo che magari viene ascoltato per la prima volta. In Italia, invece, il pubblico è tendenzialmente più diffidente anche se se devo dire che, in occasione delle nostre operture, ci è andata piuttosto bene! Abbiamo aperto due concerti di Ligabue negli stadi ed è stata un’esperienza veramente molto bella. La prima volta avevamo un po’ paura invece il pubblico è stato molto corretto e ci ha davvero ascoltati. So di altri gruppi, in altri contesti, che invece si sono trovati di fronte ad un pubblico che non ha voluto ascoltarli, pur trattandosi di realtà musicali molto valide… Questo accade perché il pubblico italiano richiede molto più tempo per essere educato all’ascolto di qualcosa di nuovo e di diverso… Noi abbiamo assaggiato un po’ tutto però ci siamo trovati molto bene in tutte le situazioni perché se la musica è buona la gente ascolta sempre con piacere… Dal vivo riusciamo a mettere in evidenza le nostre sfaccettature in base al contesto in cui ci troviamo e sappiamo adattarci in maniera naturale al contesto.
In quale direzione vi state muovendo adesso e che prospettive ci sono sia per il vostro percorso artistico che per il vostro disco?
Adesso siamo molto concentrarti nella promozione del disco, siamo pronti a fare dei concerti estivi, a farci sentire, a incontrare il pubblico tra piazze e Festival, finalmente si suona tanto e si registra meno. Stiamo a cominciando a comporre anche nuove cose, abbiamo la nostra linea e il nostro sound rock anche siamo comunque aperti a tutto, senza nessun preconcetto.
Si ringraziano Federico Marchetti e Alessandra Placidi
“Da sule nun se vence maje” è il nuovo singolo dei Foja. Il testo è il frutto della collaborazione tra la band ed il noto attore e regista napoletano Alessandro Siani. Il brano rispecchia, in tutto e per tutto, l’anima e l’ormai riconoscibile cifra stilistica dei Foja che, all’interno del proprio sound, riescono a coniugare brillantemente elementi della tradizione classica napoletana con la più avanguardistica innovazione. Questo progetto rappresenta un nuovo incoraggiante passo di una formazione musicale consolidata che, forte di un background culturale molto radicato all’interno del proprio dna artistico, riesce ad attingere anche da altre culture nel mondo, creando una miscela musicale immeditata ed efficacemente incisiva. Un tripudio incalzante di chitarre acustiche ed elettriche, sposa il fascino e la musicalità della tradizione classica, attraverso il mandolino di Luigi Scialdone, senza mai rinunciare ad una texture semantica qualitativamente elevata.
Foja
L’uso della lingua napoletana conferisce un valore aggiunto al contenuto dei testi, così come avviene in quello che ci accingiamo ad approfondire. “Simme ’na cartulina maje mannata, ’sti panne spase ormaje se so’ asciuttate, e je nun sogno cchiù e je nun sogno cchiù”: poche parole riescono a racchiudere immagini, storie, vite vissute. Il linguaggio figurato è più espressivo che mai, sogni, vizi e virtù prendono vita lasciandoci addentrare nel ritornello della canzone: “Ma po’ ce staje tu e je nun penso a niente cchiù, si po’ ce staje tu ca me truove quanne saje, ca me lieve ’a mieze ’e guaje pecché da sule nun se vence maje”: Ma poi ci sei tu ed io non penso più a niente, se poi ci sei tu, che mi trovi nei momenti che solo tu sai riconoscere, tu che mi togli dai guai perchè da soli non si vince mai.
Sì, da soli non si vince mai, la grande verità racchiusa in questa frase che, tra l’altro, dà anche il titolo al brano, rappresenta, in realtà, la chiave di volta per comprendere cosa non funziona più della nostra umanità ripiegata su se stessa, tesa all’annichilimento e all’egocentrismo distruttivo. L’unione delle menti, dei cuori, degli spiriti, degli intenti, degli obiettivi è quanto di più forte possa esserci e i Foja hanno saputo raccontare questa necessità con grazia ed originalità. Seguendo il file rouge di questo intento anche nel videoclip del brano, con la regia di Dario Calise, c’è la partecipazione attiva dei fan, che hanno cantato il ritornello su una base postata sul profilo facebook dei Foja. Prodotto da Graf srl – Mad Entertainment 2014 e pubblicato da Full Heads, il video è un prodotto visuale creativo e d’impatto: a ulteriore conferma della “doppia vita” artistica del frontman Dario Sansone, che alla sua attività di cantante vede affiancata quella di affermato disegnatore, le immagini sono state elaborate come se si trattasse di disegni e, insieme al testo della canzone sincronizzato con le immagini, e ai riquadri con i fan, il risultato è un bel patchwork di volti e sorrisi.
Un altro importante tassello artistico per la carriera dei Foja che, con il loro brano intitolato “’A malia”, tratto dall’ultimo disco “Dimane Torna ‘o sole” sono anche in concorso per il Premio David di Donatello 2014 come miglior canzone contenuta all’interno della colonna sonora del film “L’arte della felicità” di Alessandro Rak. Una realtà musicale davvero originale e incoraggiante per quanti abbiano ancora voglia di mettersi in gioco e credere nelle proprie potenzialità.
Crediti
Voce e chitarra: DARIO SANSONE / Chitarra elettrica: ENNIO FRONGILLO / Mandolino: LUIGI SCIALDONE; Basso: GIULIANO FALCONE / Batteria: GIOVANNI SCHIATTARELLA / Cori: GNUT
“Comete” è il titolo del primo singolo estratto dal nuovo album di inediti de Le Strisce, su etichetta Suonivisioni. Il disco vedrà la luce soltanto tra qualche mese ma, in occasione della pubblicazione del videoclip ufficiale della canzone, girato dal regista e video maker Tiziano Russo, ci sembrava opportuno approfondire la conoscenza di un testo che anticipa un lavoro discografico dai presupposti interessanti. “Pensi troppo, dormi male, sputi sulle webzine e ti senti intellettuale citando Baudelaire, spleen”, Davide Petrella (Voce -Testi), Francesco Zoid Caruso (Basso), Enrico Pizzuti (Chitarre), Andrea Pasqualini (Chitarre), Dario Longobardi (Batteria) descrivono la tristezza dei giorni nostri rigettandola in modo aggressivo e diretto. La crudezza espressiva delle parole si accompagna ad un uso massiccio della chitarra e alla vocalità leggermente graffiata di Davide Petrella. Anche nel video caos, disordine e violenza sono gli elementi che saltano subito all’occhio.
“È tuo il disordine, che caz*o vuoi da me?”: ecco la sintesi dell’egoismo difensivo in cui abbiamo imparato a rifugiarci per scampare al dolore e al furente abbattimento dei nostri sogni. “Prima alternative, indie, rapper, hipster è solo moda, tutto gira, tornerai triste”: tutto è effimero, identificare se stessi in una corrente di pensiero o in una moda è qualcosa di temporaneo, destinato ad estinguersi, qualcosa che finirà per rimetterci completamente a nudo, prima di fronte a noi stessi e poi di fronte a tutti gli altri. “Se non puoi chiamarla arte allora è do it yourself?”: in questa frase Le Strisce tracciano i presupposti per una riflessione più approfondita: cosa possiamo definire arte? Chi può dirci cosa è arte e cosa no? Qual è il confine che determina il passaggio tra un prodotto indipendente e un progetto “mainstream”? La storyline del videoclip accompagna queste parole con un’aggressione a degli artisti ed un maltrattamento di gruppo, da cui non usciranno né vincitori nè vinti. Un nichilismo di fondo attraversa queste ed altre incertezze proposte dai ragazzi de Le Strisce che, nel titolo del brano, propongono un gioco di parole a metà strada tra identificazione generazionale “come te” ed una più onirica suggestione tutt’altro che lapalissiana… Quello che ci rimane da scoprire è se noi ci facciamo ancora delle domande o se ci siamo rassegnati a vivere alla giornata seguendo le nostre personalissime “comete”.
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