“Mondo Matrioska” è il riuscito titolo dell’album di Gae Campana, un cantautore polistrumentista di origine abruzzese. Il disco, prodotto su etichetta Music Force, si compone di undici tracce in cui l’artista riesce a convogliare il suo eterogeneo background musicale, grazie ad uno stile riconoscibile. L’album si avvale, inoltre, del prezioso contributo di validi musicisti come Carmine Ianieri, Vito Di Virgilio, Marco Salvatore, Alberto Biondi e Nicola Di Camillo. Si passa da dolci ballads piano e voce, a colorati intervalli jazz, fino a chiassose parentesi più dichiaratamente folk. Melodia, ironia e leggerezza convivono in un progetto originale e fruibile. Ritmi e linguaggi non gravitano mai in un solo contesto, “Mondo Matrioska” presenta, infatti, due volti: quello più scanzonato e spensierato dei primi pezzi, immediati ed orecchiabili come “Quintino ha perso il treno” e la title track “Mondo Matrioska”, l’altro, che fa della bossanova, samba, jazz e blues, il suo cuore pulsante, attraverso brani come “Non Cadrai”, un’intensa dichiarazione d’amore, e “Solo adesso”: una disperata presa di coscienza esistenziale. “Trivella più che puoi” è, invece, una scarica blues che condanna l’accanimento dell’uomo contro la natura. L’amore non corrisposto di “Quanta strada”, il fanciullino di “Non dimenticare”, le storie coperte di polvere di “Un po’” e la tenerezza di “Un mondo nuovo” tracciano un percorso elegante in cui Gae Campana si muove con scioltezza e classe fino al sabbah notturno della reprise di “Non dimenticare”, che chiude il disco tra stelle, pensieri e ricordi.
Andrea Tarquini è un cantante e chitarrista acustico. Intorno ai vent’anni esordisce sui palchi di tutta Italia, grazie alla collaborazione con il suo maestro e amico Stefano Rosso, che lo avvia allo studio della chitarra Fingerpicking. Poco più tardi, ormai trentenne, Andrea Tarquini comincia a focalizzare l’ attenzione verso i generi musicali più acustici: dal cantautorato alla musica tradizionale USA. Sono anni nei quali l’artista frequenta la scena musicale acustica e bluegrass romana ed è proprio grazie al gruppo di “bluegrassari” romani che inizia la collaborazione con Luigi “Grechi” De Gregori, fratello maggiore di Francesco. Grazie all’amicizia e a lunghi scambi di idee con Luigi e con Paolo Giovenchi prende forma il progetto di realizzazione del disco – tributo a Stefano Rosso con brani cantati e suonati da Andrea Tarquini che, intanto, sta scrivendo un pugno di canzoni proprie, tutte rigorosamente “unplugged”, che saranno all’interno di nuovo lavoro discografico.
Andrea, quanta America c’è nella sua musica e quanta Trastevere?
Nella mia musica c’è sicuramente tanta America, la mia ricerca artistica si concentra, infatti, sulle sonorità tipicamente nord-americane.
Qual è la differenza tra fingerpicking e flatpicking?
Il flatpicking consiste nel suonare la chitarra acustica col plettro nella mano destra, si tratta di una tecnica legata alla musica tradizionale ma non solo. Il fingerpicking consiste, invece, nel suonare la chitarra acustica suonata senza plettro nella mano destra e prevede l’indipendenza del pollice, che suona i bassi alternati mentre le altre dita fanno la melodia.
“Reds! Canzoni di Stefano Rosso” è il tuo lavoro discografico più recente. Da dove nasce l’idea di questo album e che ricordo umano e professionale hai di Stefano?
Il disco nasce principalmente grazie allo stimolo di Luigi (Grechi) De Gregori, che mi ha sempre detto le seguenti parole: «Sei un ottimo chitarrista, canti bene e suonavi con Stefano Rosso. Chi meglio di te può fare un disco con i suoi brani? Sbrigati a realizzare questo progetto prima che qualcun’altro metta in pratica l’idea, magari in malo modo». Questo è stato, quindi, uno dei primi motori, a cui si è aggiunto Enrico Campanelli che, con la sua società, ha finanziato e sostenuto la produzione del disco, e Paolo Giovenchi, che ha curato la produzione con un supporto artistico e creativo. Di Stefano Rosso potrei dire tante cose: quando suonavo con lui ero molto più giovane, avevo una ventina d’anni e, in qualche modo, è stata una fase formativa e molto significativa della mia vita. Lui era un uomo semplice, un uomo naturale, non c’era nulla di costruito. Stefano era esattamente quello che si vedeva dall’esterno, comprese le fragilità e i limiti che lo hanno allontanato dal grande pubblico negli ultimi anni della sua carriera. Questa sorta di isolamento lo ha portato, infine, a far diventare sempre più forte la sua peculiarità di folk singer.
Come si svolge la tua vita di “romano a Milano”, innamorato del sound americano?
La musica non è l’unica cosa che ho fatto in questi anni anche se il mio percorso è molto legato allo strumento e alle musiche strumentali, in particolare. Non penso che esista musica vecchia e nuova, esiste, bensì, musica buona e musica cattiva. La cosa importante sono i contenuti e, per quanto mi riguarda, quello che mi contraddistingue è il fatto di credere fortemente in una musica di tipo cantautorale, acustica, intima.
Andrea Tarquini
“Ho capito come” è un brano strumentale scritto da lei e dedicato a Stefano Rosso. Il titolo è una risposta al ricorrente intercalare dell’artista o è anche una dichiarazione di intenti?
Chissà, forse avrei dovuto mettere un punto interrogativo alla fine del titolo perché, in verità, non si capisce mai qualcosa del tutto. “Ho capito come” potrebbe far pensare che uno abbia raggiunto qualche traguardo mentre, invece, ogni cosa che fai sposta in avanti il traguardo. L’importante è essere su un cammino che ti rappresenti, che senti sia tuo.
“C’è un vecchio bar” è un inedito, una canzone mai registrata in studio da Stefano Rosso. Come ha potuto riproporla esattamente come l’artista la suonava?
Possedevo una cassetta con una registrazione amatoriale che Stefano Rosso non ha mai inciso. Purtroppo la cassetta è andata distrutta ma, attraverso la mia memoria, è stato possibile effettuare un vero e proprio recupero storico del brano.
Prossimamente presenterà, a Milano, la nuova OMS Custom dello storico marchio “Burgeosis”, ci anticipa qualcosa?
“Orchestra Model Slotted” è il modello dello strumento, realizzato apposta per me, e che non ho mai suonato prima. Si tratterà di un concerto di presentazione e, se da una parte festeggeremo la mia collaborazione, in qualità di endorser con lo storico marchio, dall’altra presenteremo lo strumento al pubblico.
Che progetti ci sono per il futuro?
Sto scrivendo un nuovo disco e mi sto concentrando su questo. Per il resto vorrei fare un buon numero di concerti: in Italia la musica acustica fatica il doppio degli altri generi a trovare spazio. Si tratta di un genere apparentemente di nicchia ma molto più popolare di quanto si creda. Mi piacerebbe, dunque, fare un buon disco e suonarlo bene in giro, senza problemi di fruizione.Vorrei, inoltre, che il nostro paese fosse un pò più attrezzato e rispettoso nei confronti della musica.
“Secondo Rubino”è il titolo del nuovo album di Renzo Rubino, il cantautore, classe 1988, che ha conquistato il pubblico dell’Ariston durante la 64ma edizione del Festival di Sanremo. Edito da Atlantic/Warner Music, il disco è composto da 11 tracce, scritte interamente da Rubino, insieme al produttore del disco Andrea Rodini mentre l’arrangiamento dell’album ha visto anche la partecipazione di Andrea Libero Cito in “Piccola” e del direttore d’orchestra Marcello Faneschi in “Colazione”.“Secondo Rubino” è uno scrigno colmo di storie, ricordi e sentimenti da comunicare, lo si evince anche dalla copertina del disco in cui Renzo ha due facce: una romantica, idealista, sognante, dichiaratamente vecchio stampo, l’altra è schizofrenica, insofferente, pronta ad esplodere. Se la spina dorsale di tutto il lavoro sono degli archi delicati ed eterei, non è da sottovalutare il grande ruolo del pianoforte che, come un compagno fedele, prende il cantautore per mano lasciandogli, tuttavia, la libertà di evadere dalla realtà contingente per spingersi tra i grovigli dei pensieri. Ha tante cose da raccontare Renzo Rubino che, reduce da una lunga e tortuosa gavetta, è riuscito ad imprimere un segno tangibile nello scenario musicale italiano grazie alla sua grande energia comunicativa. Canto, suono, espressione sono tutti elementi che lo hanno aiutato a far sì che, pian piano, le sue carte artistiche venissero scoperte con piacevole stupore.
Il disco si apre con “Ora”, il brano che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare proprio grazie al palco dell’Ariston: con un testo che si concentra sul comune stato di infelicità generale, Renzo canta le emozioni di un uomo che si sente oppresso, che dà il massimo e che, tuttavia, non vede i risultati dei suoi sforzi. Costretto ad indossare una maschera quotidiana per sopravvivere, alla fine il protagonista riuscirà a trovare la forza per fermarsi e ritrovare la propria identità. La seconda traccia s’intitola “Monotono” e narra una storia che, a sua volta, si dirama in due direzioni opposte: l’una narra di un uomo che butta al vento il suo amore, l’altra di un suicida che finisce con il ferire, non solo sé stesso, ma soprattutto chi resta. A seguire c’è “Sete”, il racconto di un amore vissuto nello spazio di una notte: “qui non c’è nessun domani ma soltanto le nostre mani”, sono soprattutto gli archi a mettere in risalto l’essenza di un sentimento che avrebbe potuto durate una vita intera. Davvero invitante è il mix di elettronica e archi di “Sottovuoto”: un ritmo trascinante ed un testo irriverente costituiscono un gradito stacco sonoro. “Per sempre e poi basta” è, invece, l’altra traccia sanremese, che si è aggiudicata il premio assegnato dall’Orchestra per il miglior arrangiamento. Al centro del testo, davvero intenso, c’è una nostalgica sofferenza d’ amore: “ti sto riservando un posto nei miei pensieri, reparto ricordi”, canta Rubino, conferendo alla memoria un ruolo essenziale. Giochi di parole e sonorità anni ’80 tracciano i tratti di “Mio”: “ L’unica cosa che possiamo fare è condividere momenti insieme, perché “se non sono mio, come sarò mai tuo?“, niente di più importante che lasciare a sé stessi la propria patria potestà. Ricerca sonora e tradizione classica continuano, intanto, ad intrecciarsi trovano equilibri sempre nuovi, che ben si predispongono ad un molteplice riascolto. Nel brano intitolato “La fine del mondo”, la tenerezza s’insinua tra le aride fibre di una forza distruttrice, emozione e commozione ammorbidiscono gli intenti nichilisti di una filastrocca che finisce per narrare la bellezza delle cose semplici. Il sentimento dell’amore diventa, invece, qualcosa di spaventoso in “Piccola”: un’intensa e breve ballad, la cui forza sta nella potenza evocativa delle immagini. Su tutte, quella di un uomo che, nell’accarezzare i lunghi capelli di una donna, si sente come affondare in mare. “Passeggia con me non fare domande dove poco è davvero utile e tanto una conseguenza“, canta Rubino in “Amico”, brano dedicato al fondamentale e fraterno valore dell’amicizia. Schizofrenico e spassoso è, invece, il ritmo electro di “Non mi sopporto”: le manie e le fissazioni del cantautore emergono in un flusso di coscienza veloce e travolgente. Chiude l’album la delicata poesia di “Colazione”: “La nostra storia è come la colazione perché, anche se è uguale, è essenziale: la riprova che l’amore eterno esiste.
Cantautore, musicista, e fondatore della “Nuova Compagnia di Canto Popolare”, Eugenio Bennato è considerato uno degli esponenti più importanti della musica popolare e, grazie al grande consenso conquistato sia in Italia che all’estero, la sua missione di dialogo interculturale continua a trovare nuovi sbocchi artistici e musicali.
La sua ricerca artistica e musicale si concentra, da ormai svariato tempo, sull’identità dello spirito meridionale. Come si è evoluto nel tempo questo processo creativo e quali sono i caposaldi imprescindibili della sua musica?
Da sempre seguo dei percorsi che mi portano a cercare le cose che mi piacciono. Sin da ragazzo, ritrovo nel Sud del mondo un messaggio musicale davvero affascinante e, anche quando fondai la Nuova Compagnia di Canto Popolare, per creare un’alternativa alla musica di quel tempo, andai nelle campagne del Sud per riscoprire una musica che si stava per dimenticare e per perdere. Dopo tanti anni, guardando tutto questo in prospettiva, mi viene da dire che avevo ragione perché oggi in Italia la musica etnica rappresenta un punto di forza straordinariamente rivoluzionario. A questo devo aggiungere che, sia per mio interesse personale, sia per questioni legate alle opportunità che la mia attività di cantautore mi ha dato, ho scoperto di avere delle grandi affinità anche coi popoli della sponda sud del Mediterraneo a cominciare dal Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto. In questo modo mi sono reso conto che le forme musicali, il modo di far musica, in particolare, con dei ritmi molto travolgenti, è qualcosa che appartiene, in realtà, a tutta l’area mediterranea.
Quali sono gli ideali, i valori e gli obiettivi del movimento “Taranta Power”?
Naturalmente il mio intento di partenza è sempre di natura artistica ma devo dire che oggi centinaia di migliaia di ragazzi partecipano a questo movimento, intendendolo come una vera e propria scelta. La musica etnica corrisponde ad un mezzo per opporsi alla globalizzazione musicale imposta dal business televisivo.
Sta lavorando a nuove canzoni? In che direzione intende muoversi?
Vivo sempre con l’incertezza di riuscire a fare cose di un certo livello. Il mio pubblico è molto esigente perché forse l’ho abituato a progetti che hanno sempre ricevuto un grande riscontro… Potrei citare, in particolare, “Che il Mediterraneo sia”, il brano che continua ad essere la colonna sonora di “Linea Blu”. Per questo ed altri motivi, tutte le cose che scrivo non possono essere buttate lì senza che ne sia convinto a fondo. Chiaramente adesso sto preparando delle cose nuove, a partire dal brano “Notte del Sud ribelle”, che ho scritto in occasione della Notte della Taranta, e che prende ispirazione dagli straordinari eventi in cui si radunano 150 mila persone per ballare sulle note di un tipo di musica che, solo fino a qualche anno fa, nessuno conosceva.
Eugenio Bennato
Beh, certamente si tratta un grande onore e di una grande soddisfazione dal risvolto, anche sociale, molto importante. Se si pensa alla dimensione che vivono gli extracomunitari in Italia, la mia musica mira ad aiutare tutti coloro che intendono integrarsi. Potrei definirlo una sorta di abbraccio artistico.
Cosa racconta nel libro “Ninco Nanco deve morire”?
Il libro muove i passi da un percorso parallelo: la scoperta dei tesori sommersi della musica popolare mi ha portato anche ad approfondire la conoscenza di personaggi dimenticati dalla storia. In particolare le vicende che hanno visto il Sud vittima di una vera e propria invasione, che ha portato sia ad un evento positivo, quale è stata l’Unità di Italia, sia ad processo di amalgamazione condotto in maniera irrispettosa nei confronti della nostra identità. Così come è stato appurato da numerosi studi, è fuori dubbio che nel 1860 l’esercito sia sceso al sud d’Italia ( a Napoli, in Calabria, in Sicilia) anche con l’intento di sradicare la cultura del posto. Di conseguenza il sud è andato incontro ad una decadenza che, a sua volta, ha causato altri fenomeni come l’emigrazione, il clientelismo ed il brigantaggio. Proprio la scoperta delle figure dei briganti, ed in particolare di Ninco Nanco, assume, dunque, un significato più profondo: significa acquisire la consapevolezza e i mezzi per la sopravvivenza della nostra cultura. Per queste ragioni i ragazzi di oggi, che ballano la pizzica o la tammurriata, vedono questi personaggi come eroi perché essi si sono battuti per la propria terra.
Come ha vissuto il suo ultimo tour in Sud America e cosa le ha lasciato quest’esperienza di scambio culturale così intensa?
Anche in questo caso c’è stato un grande riscontro da parte del pubblico con i teatri pieni a Buenos Aires, Santiago de Chile, San Paolo. Tra poco partiremo nuovamente proprio per il Sud America e ad aprile saremo in Uruguay e in Argentina. Naturalmente questa esperienza mi ha consentito di prendere atto del fatto che anche quel sud, apparentemente così lontano, è molto vicino al nostro.
Quali sono le sue aspettative artistiche e come pensa che i giovani di oggi possano raccogliere l’eredità lasciata dal suo repertorio musicale?
Sono molto fiero del fatto che ci siano molti ragazzi che riprendono i miei brani, su tutti “Brigante se more”. Sono molto attento a questo fenomeno perché io credo che esso possa sopravvivere solo grazie alle scintille dell’arte. Ai ragazzi che suonano e che fanno musica etnica auguro che possano avere intuizioni nuove che riescano a rispecchiare la realtà del presente. Quando io tengo un concerto, ad esempio, mi rifaccio alla musica del sud e alla storia del passato ma, allo stesso tempo, riesco a cogliere molti elementi legati al presente: primo tra tutti, il tema della coesistenza e dell’accoglienza degli extracomunitari in Italia, un problema sociale molto importante. Tanti giovani di altri sud del mondo necessitano di amore e di integrazione, le cose non si risolvono chiudendo le frontiere.
Se potesse descrivere il meridione del 2014 con una manciata di aggettivi quali userebbe?
Il meridione oggi rappresenta una valida contrapposizione all’appiattimento globalizzante ed è un luogo dove può succedere qualcosa di nuovo e di positivo. Questo pensiero nasce da quello che io vedo ogni qual volta in cui tengo un concerto e lo dico perchè parlo di gente viva.
Lisa Starnini ( voce), Gianni Ilardo (chitarra), Gianni Bruno (piano), Edo Notarloberti (violino), Corrado Calignano (basso), Alessio Sica (batteria) sono i Cirque des Rêves, un gruppo nato nel 2013 grazie all’inedito incontro di diverse culture musicali: da un lato la tradizione folk nordeuropea celtica, dall’altro il verace folk/blues partenopeo. L’uso della lingua francese, inglese e italiana e di ricercate melodie hanno subito posto il gruppo al centro dell’attenzione. In quest’intervista è la carismatica leader Lisa Starnini a raccontarci i segreti del “Circo dei sogni”.
Come nasce e quali sono le attrazioni che “Il Circo dei sogni” offre al pubblico?
I Cirque des Rêves sono sei musicisti molto diversi, provenienti da generi musicali molto lontani tra loro. Questo gruppo è nato praticamente durante un caffè in uno studio di registrazione dove suonavamo un po’ tutti con progetti diversi. Un bel giorno, da buoni amici, abbiamo deciso di tentare di innalzare questo tendone dentro cui volevamo racchiudere, non solo i nostri sogni, ma anche quelli di tutti coloro che vorranno farne parte. Ovviamente date le premesse, non si trattava di un’idea di facile realizzazione ma i fatti ci hanno dimostrato che la diversità è probabilmente il nostro punto di forza.
Il vostro ep, omonimo, è nato in tempi molto brevi. Qual è stata la genesi di questo lavoro e quali sono i temi affrontati nei brani?
In effetti l’ep è nato due mesi dopo che avevamo fatto la prima prova insieme! Si è trattato di un processo davvero molto spontaneo, nessuno di noi si aspettava una tale velocità perché , tra l’altro, l’opinione comune era che ci saremmo sicuramente azzuffati, vista la grande eterogeneità dei nostri background musicali, invece nell’ep ci sono pezzi che hanno dentro di sé un pezzo di ciascuno di noi
La vostra musica si discosta da etichette di qualsiasi genere. Se potesse descriverne i tratti generali, quali parole userebbe?
Mi viene in mente il folk contemporaneo, il pop, il rock e chissà cos’altro! Il fatto è che non ci poniamo limiti…questa è la nostra particolarità: ogni pezzo nasce con un suo carattere, un suo genere e questo ci permette di dargli vita nel modo più naturale. Diciamo che è la musica a condurci per mano e non il contrario…
Ci sono delle immagini o delle suggestioni che hanno influenzato la vostra musica in qualche modo?
Sì, alcuni pezzi sono nati durante i viaggi che abbiamo fatto. La melodia del valzer francese, ad esempio, è nata proprio in Francia e, anche nel prossimo disco, ci sarà un pezzo nato in un paesino medievale francese. Posso quindi dire che è il viaggio a condizionare di più la nostra scrittura melodica.
Siete già al lavoro su nuovi brani? In che direzione vi state muovendo?
Beh, inizierei col dire che ci sarà l’aggiunta di un’altra chitarra con Gianluca Capurro e che si tratterà di un album tutto in italiano e in francese per cui abbandoneremo la lingua inglese.
A cosa è dovuta la scelta di cantare anche in francese?
La scelta è stata molto naturale perché si tratta di una lingua che appartiene alla mia famiglia: mia nonna era belga, mia madre ha vissuto 11 anni in Francia e parte della mia famiglia vive nella parte francese della Svizzera. A questo aggiungerei che ho scelto il francese anche come porta fortuna, visto che mia nonna è stata colei che mi ha insegnato a credere nei sogni.
Nel videoclip del brano “Cahier des Rêves” viene usata la tecnica del teatro delle ombre. Anche la vostra musica possiede delle sfumature teatrali?
La regista del video è Sara Tirelli, è veneziana ed ha avuto questa idea non appena ha sentito il pezzo. Io sono molto legata al teatro delle ombre perché lo andavo a a vedere da piccola quindi questa intuizione mi è piaciuta tantissimo e, tra l’altro, credo che calzi proprio a pennello con il pezzo; gli dà probabilmente un’aura che era nascosta nelle note e che noi non avevamo visto. In ogni caso non riesco ad immaginare un video diverso da quello che è stato fatto.
Dove e quando potremo ascoltarvi dal vivo?
Saremo al Duel Village di Caserta il 21 marzo, al teatro San Giustino di Roma l’11 aprile e stiamo chiudendo una data con il Blue Note di Milano. Spero, inoltre, che andremo anche un po’ all’estero perché mi piacerebbe dare spazio al riscontro estero che abbiamo avuto in questi mesi: Messico, Turchia, Grecia e Francia sono i paesi in pole position!
Cantautore, polistrumentista e voce irriverente della scena musicale indipendente italiana, Paletti, al secolo Pietro Paletti, classe 1980, presenta il nuovo singolo “Cambiamento”, manifesto della società 2.0, e ragiona sul senso del significato della parola evoluzione, intesa come un percorso da compiere individualmente.
Cantautore, polistrumentista, sound designer. Chi è Paletti oggi?
E’ tutto ciò perché bisogna pure pagare le bollette. Scherzo… Non so chi sono in realtà, posso solo dire una “banalità”: non riesco a stare senza la musica, in qualsiasi sua sfaccettatura.
“Il cambiamento spetta alle persone”, evoluzione del singolo per una rivoluzione globale… è questo il messaggio del tuo nuovo singolo?
Sì, credo che si possa sperimentare un’alternativa alle rivoluzioni di massa. Siamo sempre scontenti di chi ci governa, critichiamo “la gente” ma in fin dei conti noi siamo la gente.
Raccontaci del videoclip: chi sono i protagonisti e qual è l’intento di questo girato?
I protagonisti sono amici che vivono all’estero ai quali abbiamo chiesto di inviarci delle immagini di loro che cantano il brano. Poi abbiamo preso immagini da youtube cercando di dare un effetto di “globalità”.
Non cerco una rivoluzione ma un evoluzione degli individui non della massa. Quest’ultima dovrebbe esserne la conseguenza.
Come descriveresti la società 2.0?
Difficile definire “la società” senza essere retorici. Sto notando che la tecnologia sta lentamente smettendo di essere al servizio dell’individuo. E’ l’individuo che sta diventando forse troppo dipendente da essa con il rischio di diventare la nuova schiavitù. Stiamo troppo attaccati a smartphone e social network. La cosa mi indispone un po’.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza alla Fox?
Un ottimo ambiente di lavoro, internazionale e giovane.
E i tour americani?
Suonare oltre oceano è stato il sogno di una vita, poterlo fare in maniera seria e organizzata è stato esaltante.
Cosa rappresenta il blog “Palettology” e quanto c’è di te in questo spazio web?
E’ per me un esperimento. Devo ammettere che sto facendo fatica ad accettarlo completamente. E’ lavoro, quindi mi ci metto per tenermi in contatto con chi mi segue dando dei contenuti extra musicali.
Sei al lavoro su un nuovo album? Se sì, in quale direzione ti stai muovendo?
Sto scrivendo cose nuove e sto già improntando un’idea di suono. Mi sto ispirando, come spesso è successo in precedenza, alle produzioni americane e inglesi più fresche e nuove. Quell’indipendente che non ha paura di osare e ricercare mi incuriosisce molto.
Dove e quando potremo ascoltarti dal vivo?
In primavera e in estate ricomincerò con mia somma gioia l’attività live. Adoro suonare dal vivo e credo che sia l’anima del progetto alla fine di tutto. Presto annunceremo le prime date del tour organizzato da DNA concerti.
“Mi spiace mio caro intelletto, vattene a letto e dormici su che forse il tuo mondo perfetto non è perfetto come dici tu. Scusa mio caro cervello, sei come un fratello adesso anche tu levami questo fardello che voglio provare a volare lassù”. Con la battaglia aperta fra cuore e intelletto di “Arrivederci tristezza” si apre “Vol.3 – Il cammino di Santiago in taxi”, il nuovo album di Dario Brunori, in arte Brunori Sas.
Basterebbero, forse, soltanto queste parole per carpire subito l’idea di un lavoro intimista, un ben riuscito “selfie”, comprensivo di sfoghi e momenti di delirio, nostalgia ed euforia, malinconia e psicoanalisi. Questi e molti altri elementi saltano all’orecchio in questo disco che, sebbene abbia vissuto la propria genesi in un convento di frati Cappuccini a Belmonte Marittimo in provincia di Cosenza, profuma di luoghi e di suoni, anche grazie al contributo del sound designer Taketo Gohara. Nel bel mezzo di un saliscendi emotivo, tra le note latine di “Mambo reazionario”, la malinconia della ballad esistenzialista “Kurt Cobain” e la corsa ad ostacoli de “Le quattro volte” emerge uno schizofrenico ritratto della vita. Esilarante è il testo citazionista de “Il Santo morto”: “la nonna non cucina più il ragù, vuole ballare e cerca il marito alla tv”. Magnetico è, invece, il lungo assolo al sax che introduce l’inaspettata jam session ne “Il manto corto”, proprio un attimo prima che 2000 terroni ai binari “sputino il destino dentro il caffè” nell’evocativa immagine di “Maddalena e Madonna”. “E’ più facile restare a galla dicendo qualche fesseria”, canta Brunori, in “Nessuno”: l’immancabile appuntamento con la malinconia. Decisamente intense sono le immagini di “Pornoromantico”: un dramma d’amore vissuto partendo da un istinto puramente sessuale. Persino la fantasia sceglie la fuga di fronte all’avidità narrata in “Vigilia di Natale”. Alla fine, come sempre, ci si ritrova a fare i conti con sé stessi e il valzer di “Sol come sono sol” ci riporterà altrove per sfuggire alla guerra dei valori.
Grandi duetti per grandi canzoni italiane in occasione di Sanremo Club, la serata del venerdì in cui il Festival della Canzone italiana darà ai concorrenti la possibilità di interpretare un grande successo del passato. Nella 64ma edizione della kermesse i 14 campioni in gara proporranno, dunque, un classico del repertorio di grandi cantautori.
Antonella Ruggiero – “Una miniera” di New Trolls
Arisa con i Whomadewho – “Cuccurucucu” di Franco Battiato
Cristiano De André -”Verranno a chiederti del nostro amore” di Fabrizio De André
Frankie Hi-Nrg con Fiorella Mannoia – “Boogie” di Paolo Conte
Francesco Renga – “Un giorno credi” di Edoardo Bennato
Francesco Sarcina – con Riccardo Scamarcio canta “Diavolo in me” di Zucchero
Giuliano Palma – ”I say i’ sto cca’” di Pino Daniele
Giusi Ferreri con Alessio Boni e Alessandro Haber – “Il mare d’inverno” di Enrico Ruggeri
Noemi - “La costruzione di un amore” di Ivano Fossati
I Perturbazione con Violante Placido – “La donna cannone” di Francesco De Gregori
Raphael Gualazzi e Bloody Beetroots con Tommy Lee – “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno
Renzo Rubino con Simona Molinari – “Non arrossire” di Giorgio Gaber
Riccardo Sinigallia con Paola Turci, Marina Rei e Laura Arzilli – “Ho visto anche degli zingari felici” di Claudio Lolli
A sedici anni di distanza dall’ultimo disco di inediti, Eugenio Finardi torna con “Fibrillante”: dieci canzoni che si servono di un antico spirito di lotta per smuovere le coscienze e raccontare il dramma di una società priva di idee, anima e prospettive. A produrre l’album è Max Casacci, fondatore dei Subsonica, noto come uno dei pochi che, in campo musicale, si sono sempre mostrati pronti alla riflessione e all’analisi di problematiche di svariata entità. Tanti sono, inoltre, gli ospiti che hanno voluto dare il proprio contributo a questo bel progetto discografico. Si tratta di: Manuel Agnelli degli Afterhours, i Perturbazione, l’ex PFM Vittorio Cosma e Patrizio Fariselli degli Area. Il rock d’autore di Finardi trova, dunque, nuova linfa in un sound attuale e complesso ma che, tuttavia, lascia ampia libertà ad un cantato arrabbiato e furente. Colpisce all’orecchio il funzionale cambio d’intonazione di Eugenio che, in ogni singola frase, scandisce, con emozione, ma soprattutto con piena convinzione, parole e condanne.
Il disco si apre con “Aspettando”: “Ore e ore e ore/senza niente da pensare/senza sentire niente/senza avere niente da fare altro che/aspettare”… Ad aspettare cosa? Un ruolo nella società? Una sicurezza nel futuro? Un po’ di rispetto, pace e tranquillità? Tutti miraggi! Lo sa bene Finardi che smista rabbia e delusione lasciando confluire i frutti delle sue riflessioni in “Come Savonarola”: lo sputtanamento della vittoria dei culi stanchi. “Lei s’illumina” è una dolce e sentimentale parentesi, utile per distendere un attimo le fibre dei ventricoli del cuore prima di “Cadere sognare”: una spietata invettiva contro gli ideologi cresciuti alla Bocconi, gli economisti e i professori che spacciano prediche e valori. È un nuovo Medioevo quello cantato da Finardi in “Fibrillante” in cui nemmeno la paternità è più un diritto dell’uomo, così come accade ne “La storia di Franco”: “lei pensa che io sia in Africa a combattere la povertà, infatti la combatto ma la mia Africa è qua”, canta Finardi, raccontando la vergogna di un padre solo e povero che preferisce scivolare via, liquefatto dal proprio fallimento. Di tutt’altro registro è, invece, la title track “Fibrillante” in cui il futuro rimane, tuttavia, qualcosa che ci attira e che non fa paura. A seguire un brano molto toccante, che entra nell’intimità della sfera femminile, “Le donne piangono in macchina” è un brano che rivela, infatti, il comune senso di paura e solitudine, spesso celato da tantissime donne. Tra le mareggiate e le litigate di “Fortefragile” emerge l’inettitudine del protagonista di “Moderato” e la carica di un implacabile monito: Muoviti! Sbattiti! Sbrigati! Lavora!!! La conclusione del disco è affidata a “Me ne vado”, il testo rimanda la mente ad un avvilente e laconico sventolìo di bandiera bianca ma, che sia una resa o uno schifato addio, colpisce pensare che si sia arrivati al punto di dire “me ne vado e non torno più”.
Registrata tra la polvere e il silenzio di una ex scuola elementare di Busseto (Parma), “Almanacco del giorno prima” è la quinta prova discografica di Dente. In questo nuovo lavoro, il cantautore di Fidenza, al secolo Giuseppe Peveri, classe 1976, si è ispirato alla tradizione dell’almanacco, una sorta di calendario lunare, che veniva di solito utilizzato per fornire previsioni del tempo, indicazioni per i contadini e i marinai, seguendo l’idea di ricercare nel passato le previsioni del futuro. Il disco nasce, in realtà, da un percorso che si snoda nel tempo: ci sono canzoni scritte recentemente ma anche vecchi colpi di fulmine. Epoche mai vissute, ritmi retrò, nostalgica malinconia tratteggiano un piccolo grande rifugio per la mente che sa di niente sapere. Dente intaglia e cesella testi introspettivi, lasciandosi ammaliare, con ironico distacco, dal suo gusto per il passato che ispira e determina questo nostro futuro.
Dente
“Il coraggio finisce qui sulle pagine di un quaderno pieno di bugie”, canta Dente in “Chiuso dall’interno”, un brano che si chiude con l’istantanea di un addio. “Chi non muore si ripete”, sentenzia l’artista in “Invece tu”, una traccia dal sapore esotico e dal cuore debole mentre “Miracoli” gioca su una serie di contrapposizioni che spiazzano e sorprendono: “Chi vuole sognare, sogna ma c’è chi gli occhi non li chiude più”. “Fatti viva” è, senza dubbio, il brano che, più di tutti, esplicita la propria struttura amarcord: “Com’è sporca la vita negli angoli”, canta Dente, mentre i giorni di “Al Manakh” passano lasciando la palla alle stagioni e i sogni vengono venduti in “Un fiore sulla luna”. “Una cosa si muove ma tutto il resto è immobile” nel volo mancato di “Coniugati passeggiare” ma è in “Gita fuori luogo” che la fatica di vivere emerge in tutto il suo peso. “Casa mia” è la descrizione di un’anima che si fa spesso del male, la cui piccolissima porta, rimane, tuttavia, sempre aperta. Sentimenti che fanno a pugni, che bisticciano, che stonano sono quelli di “Meglio degli dei”, accompagnati da “I miei pensieri e viceversa”: un dicotomico ed ironico distinguo tra personalità diametralmente opposte. Il malinconico finale di “Remedios Maria” è, per concludere, la fotografia hippie di un sogno tutto al femminile.
Raffaella Sbrescia
Le date dei prossimi concerti del tour di Dente:
24/03 Teatro Puccini (Firenze)
25/03 Teatro Duse (Bologna)
28/03 Teatro Nuovo (Verona)
29/03 La Fenice (Senigallia, AN)
30/03 Teatro Novelli (Rimini)
31/03 Teatro Morlacchi (Perugia)
07/04 Teatro Colosseo (Torino)
13/04 Teatro Nazionale (Milano)
15/04 Auditorium Parco della Musica (Roma)
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