Torna Pat Metheny, oramai di casa a UJ, e reduce dal recente concerto generosamente tenuto ad Assisi per raccogliere fondi per le popolazioni terremotate del Lazio dell’Umbria e delle Marche. Come già anni fa fece Mehldau, nella sala Podiani, dopo il terremoto che mise in ginocchio l’Umbria. Uomo generoso, artista talentuoso, lo conosciamo da anni oramai, forte anche della collaborazione con il mai abbastanza rimpianto Pino Daniele, che gli valse la popolarità, almeno in Italia.
E’ quindi naturale che il pubblico accorra numeroso a riempire il parterre e le gradinate della Santa Giuliana. Da Metheny ti aspetti comunque uno spettacolo di grande qualità, e l’aspettativa non è andata delusa nemmeno questa volta.
La formazione di quest’anno prevede la collaborazione di Antonio Sanchez alla batteria, Linda May Han Oh al contrabbasso, e Gwilym Simcock alle tastiere, e, con loro, Metheny ripropone una vecchia produzione, già più volte ascoltata, e in più versioni, ma mai così puristicamente intesa: in più, un repertorio di cose che teneva nel cassetto, scritte e mai proposte, e confezionate per l’occasione. Confezionate, è il caso di dirlo. E molto ben confezionate, al pari dei contenuti. L’incipit, con la sua Pikasso a 42 corde, rievoca sonorità orientaleggianti. Da ascoltare in religioso silenzio, e col fiato sospeso: ci duole doverlo spiegare ad almeno 4 spettatori, che, nel frattempo, discutono di amenità come la cucina ed il tempo.
Poi parte il concerto. Il pubblico viene invitato a non registrare, i fotografi a non fotografare (di fatto un brano laterale a 30 metri, vuol dire “lascio perdere”), e il concerto si dipana su un’ora e mezza di dialoghi tra la Coral Sitar e il dinamismo ritmico del batterista messicano, del tastierista britannico, e della musicalmente robusta quanto fisicamente esile bassista malese.
Il risultato è perfetto. Il pubblico, però, troppo “vociferante”. Qualcuno anche assopito. C’è da dire che questa veste molto ortodossa del chitarrista statunitense, risulta un poco algida, per chi è abituato alle contaminazioni con strumentazioni e ritmi della più svariata origine e provenienza, proprie del Metheny che, trent’anni fa, a Caracalla, lasciò il pubblico come sotto l’effetto dell’ LSD, a fine concerto. Quello fu un evento indimenticabile, e forse quello ancora ci si aspetta. Di fatto, il concerto è bellissimo. Ma impoverito in quella componente emozionale che ha portato Metheny a essere Metheny. Sul finale si riprende, il pubblico si scioglie, lui si scompone, e si ritrovano un poco quelle antiche atmosfere oniriche.
Ma Metheny, da grande artista qual è, ha tutto il diritto di proporsi anche in chiave “insolita”. E per l’immenso talento e professionalità che esprime, merita comunque un profondo inchino e il consenso incondizionato. Almeno pari all’affetto che dimostra avere nei confronti di questa terra e di questa manifestazione, nel dire “Continuerò ad affermare che per un musicista è sempre una grande emozione suonare ad Umbria Jazz”.
Ad introdurre le note del Mostro Sacro della chitarra, un figlio d’Arte….anche se di diversa arte. Kyle Eastwood, al suo esordio ad UJ, sicuramente ha ereditato la passione dal padre, grande cultore di Jazz, che ha spesso inserito nelle colonne sonore dei suoi film. Contrabbassista, estremamente disinvolto nell’approccio con il pubblico, emozionato e disponibile, si lancia in una breve ma sostenuta performance , assai “cool” e divertente. Musica anni 60 e 70, rivisitata in chiave moderna, quattro brani inediti, tratti dal suo ultimo cd (che Kyle si presta ad autografare, incontrando così fisicamente il pubblico che tanto lo ha apprezzato), uno standard di Mingus, un Boogie stop shuffle, e il tema d’amore di Nuovo Cinema Paradiso, ad omaggiare Morricone che tanto ha accompagnato nella figura e nei ruoli cinematografici del Padre.
Simpatico, divertente e bello. Oltre che decisamente bravo, affiancato da Andrew McCormack al piano, Chris Higginbottom alla batteria, Graeme Blevins al sassofono e il notevole Quentin Collins alla tromba.
A sorpresa, per la rassegna “Round Mindnight”, Sergio Cammariere offre uno spettacolo di grande impatto. Tornato alle origini jazz, e, rivisitato il repertorio, ultimamente un poco troppo orientato al pop, regala un’ora e mezza di grande commozione, complici un frizzate e “mostruosamente” performante Amedeo Ariano alla batteria, il noto e caro, sempre solido Bulgarelli al contrabbasso, Bruno Marcozzi alle percussioni e Daniele Tittarelli al Sax Soprano. Insomma, una selezione accurata di musicisti, che unita alla capacità compositiva ed esecutiva di Cammariere al piano, si concretizza in uno spettacolo denso di emozioni, caldo ed avvolgente. Il pubblico si immerge nelle atmosfere raffinate e non prive di “pathos” della sua poesia, e ne resta ammaliato. Tanto da chiedere più di un bis, cui Cammariere, emozionato e felice, come l’ampio abbraccio rivolto alla platea dimostra, si concede. Fino a notte inoltrata. Quando definitivamente si spengono le luci su questa settima intensa giornata dell’Umbria Jazz.
JR