Dopo aver suscitato le più controverse reazioni da parte di critici e addetti ai lavori, “Amy” il documentario girato dal regista Asif Kapadia e dedicato alla vita di uno dei più grandi talenti vocali del nostro tempo, si appresta ad essere distribuito da Nexo Digital e Good Films anche nelle sale italiane i prossimi 15, 16 e 17 settembre. Due ore e sette minuti di racconto sono il frutto di un lungo ed estenuante lavoro di ricostruzione di una storia dolorosa e intrisa di momenti oscuri. La burrascosa conquista di fiducia e materiali utili da parte dei filmmaker ha senza dubbio rappresentato la parte più complessa del processo di realizzazione del film. Il risultato, in effetti, lascia trasparire in maniera tangibile lo sforzo attraverso filmati di repertorio, alcuni privati, altri privatissimi, che vanno dall’adolescenza di Amy fino al suo ultimo giorno di vita. Al centro della narrazione non ci sono gli eccessi, le depressioni, le delusioni, i disturbi alimentari e le dipendenze di Amy, bensì i personalissimi testi delle sue canzoni che, scorrendo sullo schermo durante l’intero film, rappresentano l’elemento cruciale per comprendere a fondo le dinamiche espressive dell’artista. Scrivere canzoni per Amy era una sorta di catarsi o di terapia attraverso cui riusciva ad elaborare emozioni e momenti particolarmente difficili. La scrittura rappresenta il fulcro di tutto il documentario perché nei suoi testi sono racchiuse delle vere e proprie richieste d’aiuto attraverso versi diretti ed espliciti che lasciano ben poco all’immaginazione.
A svolgere un ruolo importante nella vita di Amy sono figure distruttive e parassitarie come quella del padre della Winehouse, del suo manager e soprattutto quella del marito Blake Fielder-Civil. Kapadia dedica ampio spazio a questi personaggi lasciandoci intuire quanto abbiano influito nel corso delle vicende personali di Amy eppure, nel condannare loro e i paparazzi senza scrupoli, il regista commette un importante autogol proponendo al pubblico anche le foto più dolorose, i momenti più controversi senza risparmiare nemmeno le immagini del cadavere della cantante che, coperto dal sacco mortuario, viene caricato dall’ambulanza fuori dalla casa di Camden, dove l’artista ha perso la vita lo scorso 23 luglio 2011. A controbilanciare momenti così drammatici ci sono, però, le preziose esibizioni live di Amy Winehouse, dagli esordi al successo mondiale, l’intensa sessione di registrazione del singolo “Back To Black” in studio con il produttore Mark Ronson e l’indimenticabile espressione con cui la cantante apprende la notizia della vittoria del Grammy come Record of the year con il brano “Rehab”. A tenere in piedi il lavoro è la tesi di fondo proposta dallo stesso Kapadia: “Questo è un film su Amy e sulla sua scrittura, è la storia di una persona che vuole essere amata, che ha bisogno di amore e non sempre lo riceve”. Un talento cristallino, un personaggio eccezionale capace di rompere schemi e convenzioni, una donna estremamente complicata, carismatica eppure ipersensibile, forse vittima di un mondo ormai abituato a mercificare il dolore e che sistematicamente disconosce la parola rispetto.
Raffaella Sbrescia