“Duri come me” è il quarto singolo estratto da “Manuale Distruzione”, l’album che la cantautrice siciliana Claudia Lagona, in arte Levante, ha pubblicato lo scorso marzo per Inri, l’etichetta di Davide Pavanello, riscuotendo una notevole e meritata attenzione. Dotata di una personalità originale e allo stesso tempo mai troppo fuori gli schemi, Levante scrive con sottile ironia e pungente cinismo. La sua voce, pulita e raffinata, ha riscosso un particolare interessamento da parte del pubblico e degli addetti lavori, anche grazie alla grinta con cui Claudia è solita esibirsi dal vivo. A proposito del singolo “Duri come me”, il cui videoclip ufficiale è stato pubblicato in esclusiva su Vevo e girato da Marco Cremascoli, Levante accompagna un testo importante ad un arrangiamento minimal, in cui è la batteria a dettare i ritmi di una marcia simile ai passi da compiere nella vita.
Levante ph Corrado Murlo
Uno sfogo ed un mantra quotidiano, “Duri come me” è un brano sinceramente ispirato al detto “o bere o affogare”, una lotta per la sopravvivenza. “Capisco la difficoltà di viver di sogni/ Osservo con invidia chi realizza i sogni…Ma questa è la guerra e combatto/ E stringerò i denti finché ne avrò”, recita il testo della canzone. Chi, tra tutti noi, non si è rispecchiato in queste parole almeno una volta nella vita? Chi non si è guardato allo specchio e non ha cercato di infondere fiducia a se stesso? Di darsi la spinta per continuare la lotta del quotidiano vivere? Levante lo sa bene e lo mette nero su bianco “Duri come me, duri come me a morire/ Duri come me, duri come me a morire per vivere”: duri a morire, per vivere, un ossimoro intensamente espressivo. Poche parole per esprimere un concetto che racchiude tutto l’amore per la vita, il nostro bene più prezioso. E non importa quanto grandi saranno le avversità che abbiamo davanti, perché “questa è la terra e la mangio/Mi pulirò i denti quando potrò”.
“Fomenta” è il nuovo progetto discografico di Antonio Castrignanò, riconosciuto come uno dei più apprezzati e dei più innovativi rappresentanti della musica tradizionale salentina ma anche, e soprattutto, un ricercatore di suoni ed emozioni. Non è necessario sottolineare quanto la pizzica sia una danza davvero molto amata in tutta Italia, rappresentando, a tutti gli effetti, un punto di intima connessione con le nostre radici. Quello che bisogna evidenziare è, piuttosto, la dimensione sempre più internazionale che questa musica sta acquisendo, ritagliandosi un ruolo centrale all’interno dello scenario musicale mondiale.
Antonio Castrignanò Ph Carlo Piro
In “Fomenta” luoghi, storie, leggende, profumi, sapori, lacrime e gioie della tradizione classica si ricongiungono al mondo contemporaneo e, attraverso il meticoloso lavoro di ricerca strumentale e contenutistica di Castrignanò, il risultato è un pregevole lavoro di ispirazione cosmopolita. “Fomenta”, prodotto su etichetta Ponderosa, rappresenta un’evoluzione all’interno del percorso artistico di Castrignanò il quale, anche grazie all’incontro con il dj e polistrumentista turco Mercan Dede, ha aperto le proprie composizioni ad interessanti incursioni elettroniche e suggestivi innesti di musica orientale.
Antonio Castrignanò Ph Giuseppe Rutigliano
Il ballo scaturito dai brani composti in “Fomenta” racchiude percorsi spirituali e rimandi a scenari che trascendono dal contesto contingente. Brani come “Core meu”, “Funtana gitana”, Lu culuri della terra”, “Sciamune” spaziano in lungo e in largo, regalando immagini e suggestioni oniriche di grande impatto artistico ed emotivo Così come avviene nel cantato vibrato di “La ciuccia nera”, in “Stornelli” e nell’appassionante “Luna Otrantina”. La grande varietà di suoni, strumenti, storie proposte in questo album, si rivestono di un fascino esoterico, quasi mistico. Le tracce strumentali, “Terraferma”, in particolare, rivelano in maniera decisamente efficace tutto il pathos, il dramma, l’emozione della vita: un’irresistibile fusione tra delizia e tormento.
Nella prima settimana di vendita “Ghost Stories”, il nuovissimo album dei Coldplay ha già stabilito un nuovo record, con il maggior numero di album, fisici e digitali, venduti, debuttando direttamente al numero 1 della classifica FIMI/GFK degli album più venduti della settimana in Italia e ottenendo da subito la certificazione di Disco d’Oro. Al secondo posto i Dear Jack, vincitori del premio della critica durante l’ultima edizione di “Amici”, con l’album “Domani è un altro film”. Al terzo posto l’album postumo di Michael Jackson“Xscape”, seguito dall’ep omonimo di Deborah Iurato, neo vincitrice del talent show targato Mediaset “Amici”. Al quinto posto c’è “Logico”, l’apprezzato album di inediti di Cesare Cremonini, seguito dall’unica new entry della settimana; si tratta di “Curriculum”, il nuovo disco di Denny Lahome. All’ottavo posto troviamo “L’amore comporta” di Biagio Antonacci, alle sue spalle c’è Caparezza ed il suo “Museica”. Soltanto nono è “Al Monte”, l’originale lavoro del cantautore romano Alessandro Mannarino. Chiude la top ten Laura Pausini con “20 The Greatest Hits”.
“Mojo Rising”, è il titolo del primo ep del quartetto palermitano denominato Concreat e composto da Riccardo Villanti (voce, chitarra, tastiere); Manfredi Mazziotta (voce, chitarre); Gaetano Solazzo (voce, basso); Marco Villanti (batteria, percussioni). Appassionatissimi degli eterni Beatles, i Concreat si sono lanciati in un progetto di ricerca strumentale raggiungendo un’inattesa formula musicale in grado di risultare innovativa, pur facendo riferimento a repertori e generi che hanno fatto la storia della musica mondiale.
L’ep dei Concreat si compone di 6 tracce, pubblicate per Som Non-Label lo scorso 11 aprile, che si districano tra la psichedelica ed il desert-stoner rock. Questo coinvolgente mix sonoro rimane,tuttavia, legato a doppio filo ad una melodia diretta ed spontanea. Riverberi di chitarre, synth studiati ad hoc e travolgenti cori sono gli elementi che il quartetto palermitano ha sposato al blues garage. I testi sono cantanti in lingua inglese, ad ulteriore dimostrazione della matrice completamente esterofila delle sonorità proposte dal gruppo. Tra i brani più interessanti, segnaliamo “Time”: una sequenza dall’identità fortemente strumentale e dai connotati decisamente seventies. Sporco, ruvido, virile, perturbante, epico, il sound dei Concreat è in grado di creare atmosfere ibride e particolareggiate al contempo; “Tea in the desert” rappresenta sicuramente l’esempio più adatto per testimoniare questa definizione. Lo stacco tra la nostalgia retrò di “Middle of the town pt.1” e lo strumentalismo importante di “Middle of the Town pt.2” si aggiunge, infine, alla lista di presupposti interessanti con cui i Concreat si affacciano allo scenario musicale internazionale.
Daniele Ronda è un cantautore piacentino, noto all’interno del panorama musicale italiano, non solo per i propri originali progetti discografici, ma anche per aver messo la sue notevoli capacità compositive anche a disposizione di famosi cantanti nostrani come Nek, Massimo Di Cataldo, Mietta, dj Molella. Attento, curioso, appassionato, Daniele è riuscito a costruire, tassello dopo tassello, un percorso artistico davvero molto articolato. Il suo cantautorato profuma di terra, di storie, di vite, di ragionamenti. La dimensione live per lui rappresenta il raccolto delle emozioni, il bagaglio di gemme e pietre preziose da riversare nel calderone delle sue canzoni.
In attesa di ascoltarlo dal vivo, in una delle numerose date estive che lo vedranno anche protagonista delle aperture dei concerti di Ligabue allo stadio Olimpico a Roma il 31 Maggio e allo stadio di San Siro a Milano il 7 giugno, abbiamo raggiunto Daniele al telefono per farci raccontare “La Rivoluzione”, il suo ultimo album di inediti, e per lasciarci conquistare da un cervello acceso, curioso, rivoluzionario.
“La Rivoluzione” è il titolo del tuo ultimo album. Partiamo da questo singolo per entrare nei dettagli di questo lavoro… quali sono i temi e le chiavi interpretative di questo disco?
Il disco ha una caratteristica importante, si tratta di un lavoro nato in maniera quasi inconscia. Mentre lo stavo registrando, mi sono trovato ad ascoltarlo e mi sono reso conto che le 11 tracce erano diventate una sorta di concept album. Tra le canzoni c’è un legame forte, qualcosa che le unisce ed è la necessità di cambiare una serie di cose che a mio parere stanno minando la nostra serenità, l’unione della nostra società. Questa voglia, questa forza, questa rabbia nei confronti di questa situazione mi è sembrata una sorta di rivoluzione, non di quelle classiche, una rivoluzione interiore che, secondo me, bisogna fare ogni giorno senza accettare tutta una serie di compromessi. Tutte le volte che decidiamo di incuriosirci, di informarci, di amare la cultura, di guardarci intorno, tutte le volte in cui facciamo cose che racchiudono i nostri valori, mettendo le cose davvero importanti al primo posto, ci avviciniamo verso la nostra felicità. Ogni volta che facciamo questo facciamo l’unica vera rivoluzione efficace. Alla luce di questo pensiero, mi ci è voluto poco per chiamare il disco “La Rivoluzione”, il brano che dà il titolo al disco è, tra l’altro, uno dei pezzi nati dopo le altre canzoni che compongono l’album.
Nel corso della tua carriera hai avuto modo di misurarti con vari generi musicali, nella veste di autore, attraverso molteplici collaborazioni artistiche. Qual è il contesto compositivo in cui ti senti più a tuo agio e come cambia il tuo approccio alla scrittura di volta in volta?
Lavorare e scrivere per altri è diverso dal lavorare per se stessi, si tratta di due mestieri che hanno sì qualcosa in comune ma hanno due approcci differenti. Quando lavori per un altro artista dipendi dalle sue esigenze, bisogna capire qual è il suo linguaggio, quale cosa detta da lui sarà più efficace, credibile, cosa lo rappresenterà di più e questo è un lavoro molto stimolante perché ti spinge a toccare dei temi, degli stili, dei suoni, dei generi che magari non avresti mai affrontato… Questa cosa mi ha spinto ad aprirmi a tanti mondi musicali. Quando si lavora con se stessi, invece, il lavoro diventa più doloroso, più difficoltoso. Nonostante ci si conosca, spesso ci si trova a combattere di fronte a dei conflitti interiori. Questa cosa ti fa crescere e, allo stesso tempo, ti consente di raccontarti attraverso la musica ed è una cosa che a me dà tanto, questo è il mio modo di urlare quello che sono, quello che sento, il mio modo di raccontare quello che vedo e che mi tocca in modo particolare.
Come ti è venuta la voglia di legare la tua musica al territorio piacentino in particolare ed emiliano più in generale?
La musica è una parte fondamentale della mia vita, tutte le scelte del mio quotidiano si rispecchiano nel mio modo di fare musica. Sono stato per un periodo lontano da casa, lontano dalla mia terra perché consideravo la mia città quasi un luogo troppo piccolo, che mi stava stretto per i miei sogni e i miei progetti. Quando sono andato via, però, ho scoperto che mi mancava tremendamente, mi mancavano tutta una serie di cose che mi facevano sentire a casa. Allora ho cominciato a raccontare la mia città con l’intento di raccontarle tutte. Il legame con le proprie radici è qualcosa di universale, questo non significa che siamo ancorati al posto in cui siamo nati, significa che abbiamo un punto di riferimento, un posto che, guardandoci indietro, possiamo ritrovare sempre e comunque trasformandolo in una ricchezza, una nostra peculiarità. Nel mio caso è stato così, sono orgoglioso di raccontare le storie che sono nate nella mia terra.
Secondo te l’uso del dialetto nella canzoni può rappresentare un valore aggiunto?
Il dialetto è una forma di comunicazione, prima ancora che una lingua. Credo che certe cose dette in dialetto abbiano un’efficacia, una forza, una potenza particolare ed è per quello che ho scelto e sceglierò ancora di scrivere in dialetto. Non è una scelta commerciale e, anche se in questo mio ultimo disco non ci sono canzoni in dialetto, per me si tratta di una necessità, certe cose mi viene spontaneo dirle in dialetto perché dietro ogni parola, ogni modo di dire, c’è tutta una serie di incastri etimologici e questa è una cosa meravigliosa.
In “Ognuno di noi” parli della comune usanza di fare grandi progetti di notte e di ritrovarsi al mattino dopo con il ricordo appannato della sera prima….Si tratta di un racconto dalla valenza universale?
Ho parlato della notte perché a me è capitato di notte, ma credo anche a tanta altra gente capiti che in certi momenti del giorno ci si senta padroni del mondo e altri in cui ci si sente persi, distrutti, abbattuti… Questo ci destabilizza, ci aggrappiamo a una serie di cose che ci vengono propinate in maniera assillante, io invece credo che dobbiamo credere in noi stessi, non dobbiamo voler essere qualcun altro, dobbiamo credere in quello che siamo e, su questa base, dovremo costruire la nostra vita. Il brano ha anche un video che, con ironia, dice che cercare di vivere la vita di un altro significa frustrazione. Io sono uno che guarda, che si informa, che cerca la gente… poi, però, prendo quello che mi interessa, lo faccio mio, lo rielaboro, lo modifico, lo riutilizzo per quando mi servirà. In sintesi: vivo la mia vita con tutti i pregi ma anche con tutti i difetti che mi contraddistinguono.
“Le donne italiane” si riferisce ad una storia in particolare o intende parlare di una tematica più generale?
In Italia abbiamo tantissime diversità, tradizioni diverse, lingue diverse, storie diverse e queste differenze rappresentano una delle nostre ricchezze più grandi a livello culturale, storico e sociale. Spesso sembra che cantando in dialetto ci vogliamo chiudere e non voler scoprire quello che c’è intorno, invece è il contrario! Quello che racconto nelle mie storie è il frutto di un viaggio in cui mi piace scoprire il luogo in cui vado, la storia dei luoghi che mi circondano. Questa è una pizzica salentina che ho scritto in Emilia Romagna, un asse tra nord e sud, un’unione della diversità. Ho voluto valorizzare quello che è diverso come qualcosa da scoprire, la diversità deve unire le persone, deve unire i popoli…La vera maniera che abbiamo per uscire da questa crisi è valorizzare la nostra diversità perché siamo uno dei paesi che ne ha più di ogni altro; ogni 23 km cambiano i dialetti, le storie, le tradizioni e questa è una cosa davvero speciale.
Che ruolo ha la fisarmonica nella tua musica?
Nei dischi precedenti la fisarmonica rappresentava addirittura la colonna portante di alcuni arrangiamenti. In questo disco è ancora tanto presente ma lo è in particolar modo in una canzone intitolata “La Regina”. Questo strumento è stato messo in disparte per tanti anni, era considerato vecchio, sembrava che con la fisarmonica si potesse fare solo musica da ballo come il liscio. Io penso, invece, che questo strumento sia vivo: l’aria passa attraverso piccole lamelle ed il suono fuoriesce quasi come se fosse un canto. La versatilità del suono permette di interpretare col cuore le canzoni, ecco perché la fisarmonica è uno strumento magico.
Daniele Ronda Ph Alessio Pizzicannella
Ti esibisci spesso in contesti molto legati all’identità territoriale…che tipo di impressioni e riscontri ricevi ogni volta?
Per noi artisti il live è qualcosa di fondamentale, è la nostra forma di contatto con la gente. Io e i Folkclub siamo partiti da qualche settimana con il nuovo tour, questo è quel periodo dell’anno in cui diventiamo un po’ degli zingari, siamo in macchina e maciniamo chilometri incontrando gente. Anche sui palchi scopriamo cose che ci portiamo dietro. “La Rivoluzione” è, infatti, un disco che nasce molto in viaggio, incontrare le persone è fondamentale tanto quanto lo è vederle provare delle sensazioni insieme a te. Questa cosa mi arricchisce sempre tantissimo. Poi ovviamente ci sono dei periodi dell’anno in cui siamo in studio per lavorare il disco, ed è in quei momenti che a volte mi vengono crisi di astinenza da palco. Il live è veramente una di quelle cose che salva la musica. Mentre tutti parlano di crisi discografica, il live è qualcosa che è lì e che non si può scalfire perché è vero, è vivo, crea un contatto tra chi è sopra e chi è sotto il palco.
Come è andata al concerto del Primo Maggio a Roma?
Un conto è dire le cose, un conto è metterle in atto ed io l’ho fatto scegliendo di fare il mio set insieme ad un gruppo che fa musica popolare calabrese come i TaranProject. Addirittura una delle canzoni l’abbiamo cantata un po’ in dialetto piacentino, un po’ in dialetto calabrese per ricordare il concetto di asse nord-sud e di diversità che unisce. Questo è avvenuto perché sono sempre alla ricerca, scopro sempre cose nuove, tengo gli occhi aperti, non mi faccio influenzare da un meccanismo che fa comodo e che impone di non guardarci troppo intorno. Queste sono le cose che mi danno gioia, che mi arricchiscono, voglio capire perché si suona un determinato strumento e scoprire storie della terra. Tutte le volte riempio il mio bagaglio ed è una cosa che mi tiene su e mi dà sostegno.
Si ringraziano Daniele Ronda e Tatiana Corvaglia per Parole e Dintorni
“Vinilici. La Passione per il disco. I negozi – i collezionisti – le fiere” è il titolo del volume realizzato da Iuppiter Eventi, associazione culturale senza fini di lucro che organizza e promuove due volte l’anno a Napoli Discodays, la fiera del disco e della musica. Il testo è a cura di Nicola Iuppariello ed è edito da Zona. Il volume rappresenta, a tutti gli effetti, un punto di riferimento per i cultori del vinile ma anche per chi, ancora giovanissimo, vorrebbe avvicinarsi ad un supporto musicale dal fascino inalterato ed inalterabile.
Lungi dal voler auspicare un ritorno esclusivo all’utilizzo del vinile, il libro mira, piuttosto, alla creazione di un network tra persone legate da una passione comune. Condivisione, scambio, incontro, esperienze, emozioni sono gli ingredienti principali di questa interessante raccolta, introdotta dalla prefazione di Renzo Arbore. Il popolare artista si sofferma a lungo sul valore emozionale del vinile e sul periodo in cui, durante la sua attività di Dj, ebbe modo di innamorarsi del vinile. La globalizzazione, l’avvento dei motori di ricerca e degli strumenti di ascolto e compravendita digitale hanno decimato i piccoli rivenditori, quelli dove ci si incontrava, si parlava di musica e si condivideva la propria vita. Allo stesso tempo, però, è aumentata la specializzazione e la capacità gestionale delle vendite. Il risultato di questo trend è chiaramente tangibile nelle testimonianze raccolte e proposte nella sezione dedicata ai titolari di negozi di dischi italiani che hanno voluto raccontare la propria storia e gli aneddoti più interessanti, legati alla propria attività commerciale. Storie di persone che hanno basato la propria vita sulla musica, lanciandosi in vere e proprie crociate, che li hanno condotti alla conoscenza di persone e realtà di ogni genere.
Scheda dopo scheda, la parola “crisi” è sicuramente la più ricorrente ma, in ogni documento, l’epilogo è sempre all’insegna dell’ottimismo. La chiave per riuscire nei propri obiettivi è l’impegno, la ricerca, lo studio, la perseveranza, la voglia di mettersi in gioco, la consapevolezza di poter anche sbagliare e di poter porre rimedio ad eventuali errori di valutazione. “Vinilici” è anche, e soprattutto, una sorta di vademecum per collezionisti di vinile ed aspiranti tali; ecco perché la sezione più ricca e più eterogenea è quella dedicata ai collezionisti. Figure quasi mitologiche, “metà uomo-metà disco” che hanno dedicato tutta la propria vita, o gran parte, alla raccolta, all’ascolto, alla ricerca della musica. Le loro collezioni sono simili a vere e proprie gallerie d’arte, miniere preziose da cui attingere un fiume di prezioso nettare con cui deliziare corpo e spirito.
Sacrifici, rocambolesche avventure, appassionanti ricerche sono gli elementi che popolano le vite e le storie di persone che hanno messo a disposizione anche i propri recapiti e-mail per innescare e potenziare un meccanismo di scambio e arricchimento reciproco. Pazienza e fortuna sono gli assi nella manica di questi eroi che del vinile hanno fatto un vero e proprio stile di vita. Le “vie del vinile” si esauriscono, infine, col calendario delle mostre e delle fiere del disco in vinile in Italia: una ricca ed esaustiva proposta per tutte le tasche e tutte le età.
Deborah Iurato è una cantante siciliana di 22 anni, nota al pubblico televisivo per essere stata una degli allievi più apprezzati dell’ultima edizione di Amici 13. Prescindendo dal legame della ragazza con il talent show, in questa sede ci concentreremo sull’approfondimento del suo ep d’esordio, intitolato, per l’appunto “Deborah Iurato”. Il lavoro discografico è stato prodotto da Mario Lavezzi e si compone di 7 tracce in cui spicca la fresca e potente vocalità della giovane interprete. Anticipato dal singolo profumato di spunti folk, intitolato “Danzeremo a luci spente”, questo breve lavoro contiene due o tre testi particolarmente azzeccati, sia per quanto riguarda il contenuto sia per la modalità con cui Deborah si è appropriata delle parole per dare loro una nuova prospettiva interpretativa. Tra questi c’è “Piccole cose”, il bellissimo brano scritto da Lorenzo Vizzini e che rappresenta un vero e proprio inno alla positività: “Se cadrai tante volte, ti alzerai più forte” e poi, ancora, “sono le piccole cose a cambiarci la vita”, una riflessione profonda e delicata, qualcosa che si discosta dal grigiore emotivo a cui ci siamo ormai abituati. “Anche se fuori è inverno” è il singolone firmato da Fiorella Mannoia e Bungaro. Il testo parla di una donna che riacquista sicurezza e fiducia in se stessa, la consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie misure.
L’altro brano che vale la pena citare è “Ogni minimo dettaglio” : anche in questo caso la protagonista è una donna che prende coscienza di quello che vuole e che non è disposta a scendere a compromessi. “L’oro di cui siamo fatti” pare cucito su misura per la Iurato mentre molto meno riuscito è, invece, il brano intitolato “A volte capita”: i vocalizzi di Deborah finiscono per risultare banali e a tratti fastidiosi. La versatilità della voce della giovane cantante rappresenta un punto di partenza importante e, in un momento cruciale per la sua carriera, per lei sarà fondamentale evitare passi falsi e concentrarsi sulla cifra stilistica che possa esaltare al meglio le evidenti risorse di cui dispone.
I Park Avenue sono un gruppo rock italiano, nato nel novarese, composto da Federico Marchetti (voce e chitarra), Marcello Cravini (chitarre), Alberto “Spillo” Piccolini (basso) e Vinicio Vinago (batteria). La versatilità del gruppo rappresenta, a pieno titolo, uno dei punti di forza di questa compagine musicale che ha avuto l’opportunità di girare l’Europa e toccare con mano i più disparati contesti artistici. Dopo l’esordio anglofono con “Time To”, i Park Avenue presentano “Alibi”, un album composto quasi interamente da canzoni in lingua italiana. Abbiamo raggiunto Federico Marchetti, frontman della band, per conoscere più a fondo il percorso del gruppo e i contenuti del loro ultimo disco.
“Alibi” arriva a 4 anni di distanza dall’esordio di “Time to”… cosa hanno fatto e quali passi hanno compiuto i Park Avenue durante questo tempo?
In questi 4 anni abbiamo ovviamente promosso il primo disco, abbiamo girato molto per l’Italia e abbiamo tenuto molti concerti… quello che ci piace di più è proporre la nostra musica dal vivo, siamo stati in giro 2 anni e nel frattempo abbiamo cominciato a scrivere il nuovo disco. Alla fine di questo percorso ci siamo accorti che stavamo un pochino cambiando la nostra direzione…A livello macroscopico la grande differenza sta nel fatto che, mentre il primo disco era in inglese, il secondo è per l’80 per cento cantato in italiano; questo è stato un grosso passo per noi e probabilmente è frutto del rapporto che abbiamo col pubblico.
A cosa si deve la scelta di questo titolo per il disco?
Il ragionamento che ho fatto nello scrivere i testi è il seguente: viviamo un momento in cui si parla tanto di crisi, è sempre colpa del mondo esterno, non c’è lavoro, non c’è prospettiva, siamo tutti un po’ tristi e avviliti e questo, per carità, è un dato di fatto però il messaggio è questo: dobbiamo cercare di avere meno alibi possibili. Partendo da noi stessi possiamo cercare di cambiare la nostra situazione, il nostro è un invito a tenere duro.
Qual è la cifra stilistica musicale che sentite più vostra?
Siamo più o meno sempre gli stessi… Scriviamo le nostre canzoni sempre prima in inglese per cercare di dare un’immediatezza all’ascolto delle canzoni. L’italiano è più cantautorale mentre l’inglese è un po’ più commerciale, forse grazie alla presenza di frasi molto più corte, il nostro obiettivo è, in ogni caso, quello di essere incisivi…
Come avete lavorato alla scrittura e all’arrangiamento dei brani e quali sono i temi cardine attorno a cui ruota questo progetto?
Creiamo tutto in sala prove, suoniamo molto, improvvisiamo, cerchiamo di lasciarci trasportare dal nostro umore nel suonare tentando di non creare canzoni molto lunghe a livello di minutaggio e cercando di essere immediati nel messaggio testuale ma non scontati a livello musicale. Per quanto riguarda gli arrangiamenti, i nostri brani sono costruiti su intrecci di chitarre, abbiamo una formazione base con due chitarre, un basso e una batteria, anche se ogni tanto una chitarra viene sostituita da un pianoforte. Anche la musica è testo e noi cerchiamo di essere riconoscibili anche dal punto di vista sonoro, non bisogna sottovalutare nessuno dei due aspetti.
Chi è, secondo voi, il “social lover”?
In questo brano prendiamo un po’ in giro quelle persone che, all’interno della sfera social, sembra abbiano un alter ego molto diverso da come sono in realtà… anche tra le nostre amicizie, ci sono quei tipici amici che quando ti scrivono un messaggio sono dei leoni, poi magari li vedi in giro e neanche ti salutano, proprio come se fossero due persone diverse…quando noto questa discrepanza mi faccio delle domande e questa canzone è a metà strada tra critica e presa in giro…
“Le cose parlano, straparlano, complottano, si alleano con lei” è uno dei titoli più enigmatici dell’album…qual è la chiave interpretativa di questo brano?
Si tratta di un brano leggero, proprio per questo è a metà della track list. Questa canzone rappresenta un volta pagina all’interno del disco e ho pensato di darle un titolo che spiccasse tanto rispetto agli altri per fare in modo che potesse subito colpire chi legge i titoli delle canzoni. Per questo ho preso quasi tutta la frase del ritornello e l’ho messa nel titolo. In parte è stata anche una scelta un po’ provocatoria…
Qual è, invece, il testo a cui siete più legati?
Le preferenze del gruppo ricadono tutte su “Alibi”, la canzone che ci rappresenta di più nel disco e che ne tira fuori il messaggio principale.
La dimensione live è indubbiamente quella in cui riuscite ad esprimervi al meglio… che tipo di concerto è il vostro?
Quello che noi facciamo dal vivo rappresenta l’amplificazione di quello che accade nella nostra sala prove, ci divertiamo veramente tanto a suonare, tutto è molto poco studiato, i nostri concerti non prevedono una scaletta fissa, decidiamo al momento, a seconda di come stiamo, di come ci sentiamo, di dove ci troviamo. Siamo liberi di divertirci e cercare di essere sempre al 100 %, questa cosa viene apprezzata anche da chi si segue. A volte ci sono persone che vengono ad ascoltarci più volte e ci dicono sempre che ogni nostro concerto è diverso. Il fatto che ci divertiamo nel suonare per noi è fondamentale, fare le cose come dei robot dopo un po’ potrebbe annoiarci quindi cerchiamo di tenere viva la nostra voglia di stare insieme suonando.
Che riscontri avere ricevuto durante i concerti all’estero e gli opening act di artisti italiani come Ligabue, Antonacci, Baustelle…? Quali differenze avete notato in contesti così diversi tra loro?
All’estero il pubblico ci ascolta di più, le persone hanno meno preconcetti, c’è una cultura di base più propensa all’ascolto della musica dal vivo e a dare un’opportunità anche a un gruppo che magari viene ascoltato per la prima volta. In Italia, invece, il pubblico è tendenzialmente più diffidente anche se se devo dire che, in occasione delle nostre operture, ci è andata piuttosto bene! Abbiamo aperto due concerti di Ligabue negli stadi ed è stata un’esperienza veramente molto bella. La prima volta avevamo un po’ paura invece il pubblico è stato molto corretto e ci ha davvero ascoltati. So di altri gruppi, in altri contesti, che invece si sono trovati di fronte ad un pubblico che non ha voluto ascoltarli, pur trattandosi di realtà musicali molto valide… Questo accade perché il pubblico italiano richiede molto più tempo per essere educato all’ascolto di qualcosa di nuovo e di diverso… Noi abbiamo assaggiato un po’ tutto però ci siamo trovati molto bene in tutte le situazioni perché se la musica è buona la gente ascolta sempre con piacere… Dal vivo riusciamo a mettere in evidenza le nostre sfaccettature in base al contesto in cui ci troviamo e sappiamo adattarci in maniera naturale al contesto.
In quale direzione vi state muovendo adesso e che prospettive ci sono sia per il vostro percorso artistico che per il vostro disco?
Adesso siamo molto concentrarti nella promozione del disco, siamo pronti a fare dei concerti estivi, a farci sentire, a incontrare il pubblico tra piazze e Festival, finalmente si suona tanto e si registra meno. Stiamo a cominciando a comporre anche nuove cose, abbiamo la nostra linea e il nostro sound rock anche siamo comunque aperti a tutto, senza nessun preconcetto.
Si ringraziano Federico Marchetti e Alessandra Placidi
Lavinia Mancusi @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
Lo scorso 23 maggio, nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, Lavinia Mancusi e Gabriele Gagliarini, insieme con l’orchestra di musica greca Evì Evàn, hanno dato voce alle armonie e ai ritmi che abitano il bacino del Mar Mediterraneo. Un omaggio personalissimo ed originale alla storia di un territorio che, anche dopo millenni, continua ad emanare fascino e a trasudare bellezza. Vento, acqua, terra, fuoco sono ancora gli elementi chiave per interpretare le sfumature del calderone di storie che, artisti di tutto il mondo ci raccontano, cullando sogni, ricordi e speranze.
Lavinia Mancusi @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
“L’uomo è diventato stanziale ma la musica è rimasta nomade e noi e la nostra cultura siamo i frutti di tale movimento”, questo è il messaggio racchiuso in “Semilla”, il lavoro discografico che Lavinia Mancusi cantante, violinista e percussionista ha creato insieme a Gabriele Gagliarini, percussionista di origini peruviane, tessendo le trame di un interessante percorso di ricerca strumentale, inseguendo contaminazioni fra tradizioni centenarie e sensibilità contemporanee.
Gabriele Gagliarini @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
Termine derivato dallo spagnolo e indicante la “semina”, “Semilla” sparge semi musicali che, pur nella loro diversità, germogliano vicini e ci parlano di un’umanità nomade e poetica.Il disco si apre con “Angela Rè” un brano scritto da un anonimo napoletano del XVIII secolo e arricchito da un suggestivo e coinvolgente arrangiamento, perfetto per mettere in evidenza l’intensa e potente vocalità di Lavinia.
Lavinia Mancusi @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
Davvero molto riuscita è “Alba (da Durazzo ad Otranto)”, la pizzica ospita il violino di Olen Cesari creando un amalgama sonoro di pregevole qualità. “Omenaje A Rosa (Bottana De To’ Ma)” e “Omenaje A Rosa (Cu’ Ti Lu Dissi)” sono grida di dolore a cui è impossibile rimanere indifferenti. La malinconia impressa ne la “Tarantella del Bosforo” ritrova lo stesso mood anche nello struggente “Fado Romanesco ”. Il disco presenta una struttura ciclica, il brano di chiusura è, infatti, “O Sole ‘E Pulecenella”: dopo essersi spinta, in lungo e in largo, attraverso le culture del sud del mondo, Lavinia Mancusi ritorna al luogo di partenza piena di tesori e ricchezze da reinvestire nella prossima tappa di una carriera destinata a brillare.
Raffaella Sbrescia
Fotogallery a cura di: Roberta Gioberti
Lavinia Mancusi @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
Lavinia Mancusi @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
@Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
@Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
Lavinia Mancusi @Auditorium Parco della Musica Roma Ph Roberta Gioberti
“Maestri distorti” è il progetto discografico, pubblicato nel 2013, dagli Occhioterzo, il trio nato nel 2009 che riunisce Giampiero De Leonardis, Antonello Nitti e Francesco Maria Antonicelli. Il disco, pubblicato su etichetta One More Lab e Don’t Worry Records, racchiude 13 brani caratterizzati da un anima genuinamente rock. Immediatezza, istintività e attenzione per la parola scritta sono i dettagli su cui è importante concentrarsi per capire che, oltre l’emozione e la dirompente energia, c’è un contenuto, frutto di una riflessione. Come detto, gli arrangiamenti si concentrano tutti sul genere rock, le chitarre degli Occhioterzo picchiano duro con la precisa intenzione di graffiare quanto basta per lasciare un segno nitido.
Occhioterzo
Tra le tracce più interessanti, citiamo “Mangiando Eva”, un brano che si destreggia tra “chi non dice, chi non sa, chi non è, chi non ci sta”. L’irriverente testo de “La Rivoluzione delle Scimmie parlanti” ci mette con le spalle al muro tra desideri privi di cuore e l’amore che conviene. La scia nebulosa e confusionaria di “Marasma” si accompagna all’enigmatica filosofia di “Babilonia”. La destabilizzante scarica strumentale di “Nella torma” trova esaurienti risposte di denuncia ne “L’Impero”, un testo pregno di considerazioni sulla nostra attualità. Il disco si conclude con “Meglio quando smetti”: 10 minuti di musica in cui gli Occhioterzo spaziano tra l’italiano e l’inglese, il presente ed il passato storico, offrendo un esauriente campionario aperto alla ricerca e alla sperimentazione. Da approfondire con un attento ascolto dal vivo!
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