“Interlude”, il nuovo album di Jamie Cullum. La recensione

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Il giovane e talentuoso cantante e compositore jazz Jamie Cullum ha appena pubblicato il suo nuovo album intitolato “Interlude”, un lavoro discografico di notevole qualità e dotato di un particolare spessore. Co-prodotto insieme a Ben Lamdin, un producer che lavora sotto lo pseudonimo di Nostalgia 77, il disco è stato registrato in uno studio di registrazione analogico nel nord di Londra insieme agli stessi musicisti del suddetto studio e al bassista Riaan Vosloo. All’interno delle tracce proposte non ci sono  scelte standard, Jamie Cullum ha, infatti, selezionato brani e composizioni variegate, frutto della sua lunga esperienza in radio e di numerosi e particolari riferimenti musicali. Presenti nel disco anche due duetti di notevole qualità: oltre al vocalist, compositore e vincitore di un Grammy Gregory Porter, che duetta con Cullum nel singolo “Don’t Let Me Be Misunderstood”, in “Interlude”  è presente anche Laura Mvula, in coppia con Jamie nel brano “Good Morning Heartache” . Così come dal vivo, l’artista inglese è, dunque, riuscito ad irrorare le proprie composizioni con eclettica creatività, unendo ballate intense ed intimiste ad allegri e travolgenti beat boxing. In “Interlude” Cullum celebra e mette a nudo tutto quello che ha imparato nel corso degli anni, che lo hanno visto attivamente partecipe di numerosi progetti musicali concepiti da artisti di tutto il mondo. Spontaneo e divertente, “Interlude” è un album che si presta a molteplici ascolti, perfetti per i più disparati contesti. Dalle 12 tracce che compongono la versione tradizionale del disco si percepisce la genuina intenzione di Jamie di lasciarsi trasportare dalla poesia e dall’eleganza della tradizione senza perdere di vista un innovativo contributo contemporaneo. Ad arricchire la versione fisica della deluxe version sono i brani registrati dal vivo durante il Jazz a Vienne Festival.

Jamie Cullum

Jamie Cullum

Nello specifico della tracklist a colpire l’immaginario è la classe e la raffinatezza della title track “Interlude”, seguita dalla carica sensuale di “Don’t you know”. Il ritmo ondulatorio ed i richiami latineggianti di “The Seers Tower” differenziano le sensazioni, offrendo delle sfumature variegate. L’enigmaticità latente del testo di “Walkin’’” diventa arrendevole scioglievolezza all’interno del flusso delle vellutate e morbide note di  “Good morning Heartache”: le voci di Laura Mvula e Jamie si fondono in un irresistibile vortice di passione. Divertente e disinibito lo swing’n jazz della ritmatissima “Sack O’ Woe”. Originale e gradevole, invece, la rivisitazione in chiave jazz di “Don’t let me be misunderstood” (feat. Gregory Porter). Malinconico e struggente il mood di “My one and only love”, uno dei brani più intimi e romantici del disco insieme a “Losing you”. Spassosa e sorniona è “Lovesick Blues”: bando alle ombre e ai pensieri tristi, qui c’è solo da ballare. Decisamente fuori dal coro è “Out of this world”, tra le composizioni più controverse delll’album, che si chiude con la bellissima “Make someone happy”: una dedica d’amore incondizionato. “Love is the answer, someone to love is the answer”, canta Jamie, riempiendo, ancora una volta, il cuore di emozione.

 Raffaella Sbrescia

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Video: “Good Morning Heartache”

“…E Fuori nevica”: il film di Salemme nelle sale dal 16 ottobre. La recensione della colonna sonora

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Sarà in tute le sale italiane, a partire dal prossimo 16 ottobre, “…E FUORI NEVICA”, il film di Vincenzo Salemme, tratto dalla trasposizione cinematografica della commedia teatrale del 1994, nata da un’idea di Enzo Iacchetti. A distanza di 20 anni Enzo (Salemme), Stefano (Carlo Buccirosso) e Cico (Nando Paone) torneranno a divertire il pubblico italiano attraverso le loro storie ed il tentativo di incrociare tre universi paralleli. Incontri, scontri, gag,  amori, amicizie e drammi familiari saranno al centro di un lavoro incentrato su una comicità di situazione. Ad accompagnare il film, ci sarà l’omonima colonna sonora, in uscita il prossimo 14 ottobre, realizzata ad hoc da Paolo Belli, suonata dalla big band e prodotta da Roberto Ferrante per Planet Records. Sonorità swing e ritmi jazzati attraversano le tracce proposte in una tracklist allegra e legata a doppio filo con i temi proposti nel film.

Nel brano “Splash” Paolo Belli duetta con lo stesso Vincenzo Salemme, riprendendo i tratti caratteristici della tradizione musicale italiana. Molto più sbarazzine le melodie di “Italian Boogaloo”, “Veramente Jazz”, “Senti Che Rombombom” (versione italiana di “Hot Hot Hot”). Il tema della diversità viene affrontato con leggera spensieratezza in “Io Non Sono Uno Normale” mentre la drammatica brevità di “E’ Finito Il Teatrino” ci riporta repentinamente coi piedi per terra. Vincenzo Salemme bissa la propria performance canora nella versione solista di “Splash” mentre il brano che chiude i titoli di coda è “Rido”. Testo e melodia si intrecciano creando i cardini di una struttura inossidabile; parole intense, profonde e significative provano a fornirci gli strumenti per reagire alle difficoltà contingenti, continuare il cammino e guardare lontano, senza mollare mai. Le voci di Paolo Belli e della cantante ed attrice Loretta Grace si fondono all’interno di una dimensione sonora equilibrata e coinvolgente, offrendo, dunque, all’ascoltatore, una gradevole parentesi riflessiva.

L’intervista

Presente all’incontro di presentazione con la stampa, Loretta Grace si è gentilmente prestata ai nostri microfoni raccontando non solo la sua partecipazione alla realizzazione della colonna sonora del film ma anche alcune delle importanti esperienze professionali che stanno rendendo il suo curriculum artistico davvero prestigioso.

Loretta Grace con Vincenzo Salemme e Nando Paone

Loretta Grace con Vincenzo Salemme e Nando Paone

Come hai lavorato al brano “Rido” ed in cosa consiste il tuo contributo vocale?

“Rido è il brano che chiude la proiezione del film. Pur essendo già stato ritmato, ho modulato l’aspetto creativo della melodia. Per quanto riguarda il testo, credo che esso proponga dei temi e degli spunti interessanti; durante la promozione io e Paolo non ci stancavamo mai di sottolinearne la profondità”.

Sei stata la protagonista del musical “Sister Act” presso il Teatro Nazionale di Milano…come andò l’incontro con la leggendaria Whoopi Goldberg?

“Avvenne tutto grazie alla regista dello spettacolo. “Sister Act” viene rappresentato ormai in tutto il mondo e Whoopi partecipa solo ad alcune prime. Nel mio caso, lei era interessata a conoscere uno dei pochi neri italiani che avevano mai preso parte a questo show e fu un’emozione grandissima, mi ha dato molti consigli e mi ha caricato a mille”

Cosa ci racconti della tua esperienza in “Ghost”?

“Beh, sicuramente me la sono goduta di più. Il mio personaggio era scritto molto bene e ha messo in luce le mie qualità. Anche il compositore delle musiche del musical Dave Stewart è stato entusiasta della mia performance”.

La tua vocalità di presta molto bene a diversi generi musicali ma qual è la tua dimensione ideale?

“Partendo dal presupposto che mi sento italiana al 100% visto che sono nata a Teramo e che sono cresciuta nelle Marche, sono molto vicina alla componente black & soul della mia voce. Sono figlia d’arte, mio padre e mio nonno lavoravano in ambito musicale e sono davvero tanti i riferimenti che mi hanno fornito nel corso degli anni”.

Stai lavorando anche ad un disco tutto tuo?

“Sì. Attualmente sono in fase creativa, sto lavorando ad un disco di inediti ma, dato che sono anche nel cast di una parodia ispirata al best seller “50 Sfumature di grigio”, mi sto concentrando principalmente sui testi poi, presumibilmente da gennaio, sarò in sala di registrazione… non vedo l’ora!

 

 

“In Diverso Canto”: a Napoli suoni, rituali e racconti dal mondo

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Tutto pronto per “In Diverso Canto”, la rassegna ideata e diretta da Gigi Di Luca nata dall’esperienza ventennale del festival Ethnos, organizzata da La Bazzarra e presentata dal Forum Universale delle Culture di Napoli e Campania. Suoni, rituali, racconti e danze senza tempo, dall’Africa all’Asia, dal Medio Oriente ai Balcani daranno voce alle tradizioni secolari e storie di lotta, canti autentici e di rivalsa, liturgie sonore e popolari. Sono sette gli spettacoli in programma dal 12 ottobre al 2 novembre nel Villaggio del Forum presso la Mostra d’Oltremare di Napoli, contenitore creato ad hoc per tracciare un ideale percorso stilistico tra musiche, culture e linguaggi apparentemente lontani. Ad inaugurare la rassegna domenica 12 ottobre all’esterno dell’Arena Flegrea (ingresso via Terracina) sarà il New Trio del compositore e pianista cubano Omar Sosa, accompagnato dal pluripremiato trombettista tedesco Joo Kraus e dal percussionista venezuelano Gustavo Ovalles. La musica del combo, sospesa tra jazz, elettronica, etnica e contemporanea, creerà un’atmosfera magica originata dall’esperienza di ciascuno dei musicisti e dall’espressione delle loro differenti radici musicali.

Cuban composer and pianist Omar Sosa.

Il 13 ottobre al Teatro Mediterraneo (ingresso piazzale Tecchio)andrà in scena Al-Kindi, uno dei migliori ensemble di musica classica araba, che accompagnerà le suggestioni dei siriani Dervisci Rotanti di Damasco in uno spettacolo evocativo e ipnotico. Una sintesi perfetta tra ricerca spirituale, danza e canto. Sabato 18 ottobre ritornerà a Napoli Moni Ovadia: il drammaturgo, scrittore e cantastorie originario di Plovdiv con la sua Stage Orchestra presenterà, sempre al Teatro Mediterraneo, il recital “Senza confini. Ebrei e zingari”. Un concerto-spettacolo fatto di racconti e sonorità klezmer, di storie rom, sinti e melodie dell’est Europa. Il giorno seguente Seun Kuti & Egypt 80 porterà sul palco allestito all’esterno dell’Arena Flegrea sonorità tipiche della più ricercata black music, fatta di ritmi incalzanti, new soul, rap, funk e testi battaglieri. Il figlio del Fela Kuti – rivoluzionario musicista e attivista nigeriano, inventore dell’afrobeat – accompagnato dai 12 musicisti della più travolgente macchina ritmica dell’Africa tropicale, presenterà l’ultimo album “A long way to the beginning”.

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Moni Ovadia

Come il padre, Seun lotta con la musica per l’affermazione del proprio popolo. Lunedì 20 al Teatro Mediterraneo, invece, andrà in scena “Donne d’Oriente”. Un affascinante connubio di danza e musica nel quale Sonia Sabri, accompagnata  da Sutapa Dey e Sarvar Sabri, esplorerà le radici del kathak, una danza tradizionale che unisce elementi hindu e islamici, diffusa nell’India settentrionale tra Uttar Pradesh, Rajasthan e Madhya Pradesh. In apertura, l’esibizione del duo coreano S:um, ovvero Jiha Park (piri, saenghwang, yanggeum) e Jungmin Seo (gayageum). Il 30 ottobre Trilok Gurtu renderà omaggio a Don Cherry col suo nuovo progetto “Spellbound”Ad accompagnare il virtuoso percussionista indiano sul palco del Teatro Mediterraneo ecco Frederik Köster alla tromba, Jonathan Ihlenfeld Cuniado al basso e Tulug Tirpan al pianoforte e tastiere. Gran finale il 2 novembre con un’icona della musica sudafricana e della lotta contro l’apartheid: Hugh Masekela.

Hugh Masekela

Hugh Masekela

Il leggendario trombettista e cantante classe 1939 vincitore di due Grammy Awards, in oltre 50 anni di carriera ha esplorato le melodie tradizionali e i ritmi della sua terra riversando nella sua arte sia i colori del jazz che il pop occidentale, inventando di fatto la world music. Nella sua unica data italiana, al Teatro Mediterraneo, presenterà un live set che racchiude il meglio del suo straordinario percorso artistico che ha segnato la storia del continente nero. “In Diverso Canto” è il progetto che il festival Ethnos ha pensato per il Forum delle Culture’ sottolinea il direttore artistico Gigi Di Luca. Un attraversamento culturale che va dal Sud America al Medio Oriente passando per i Balcani, l’Asia e l’Africa. Un Unico Canto di pace intonato a più voci, con più stili e in differenti religioni. Un diverso canto per un diverso futuro d’integrazione e di unione tra i popoli.

Classifica FIMI: Fedez scalza Fabi-Silvestri-Gazzè e Subsonica

“Pop-Hoolista”, il nuovo album di Fedez.  La recensione

“Pop-Hoolista”, il nuovo album di Fedez. La recensione

Fedez conquista subito la vetta della classifica FIMI/GFK degli album più venduti della settimana in Italia con “Pop-Hoolista”. Al secondo posto troviamo il trio Fabi-Silvestri-Gazzè con “Il padrone della Festa” mentre i Subsonica scendono in terza posizione con “Una nave in una foresta”. Alle loro spalle c’è “Strut” di Lenny Kravitz mentre la prima new entry della settimana è Red Canzian (Pooh) con il nuovo album di inediti intitolato “L’istinto e le stelle”. Sesti i Modà con “Gioia. Non è mai abbastanza” mentre Francesco Renga è settimo con il suo “Tempo reale”. All’ottavo posto scopriamo Leonard Cohen con “Popular Problems” mentre la seconda new entry della settimana è Prince con “Art official Page”. Chiudono la top ten i Club Dogo con “Non siamo più quelli di Mi Fist”.

“Il Grande Abarasse”, la recensione del nuovo album di John De Leo

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“Tutto quello che pensiate significhi, è”. Con queste parole l’innovativo compositore e cantautore italiano John De Leo ha presentato, lo scorso 7 ottobre, “Il Grande Abarasse”, il nuovo ed ambizioso album di inediti giunto a sei anni di distanza dall’ultimo progetto discografico dell’artista, su etichetta Carosello Records. In questo concept album, ambientato in un ipotetico condominio, ogni brano descrive un’esplosione improvvisa, corrispondente ad una deflagrazione interiore la cui miccia era già accesa in ognuno dei condomini. Dotato di una personalità vocale duttile e di un’attitudine sperimentale, John De Leo usa la voce come uno strumento innestandola all’interno di composizioni eterogenee, spaziando dal folk popolare, al jazz, al rock, alla musica contemporanea. Nel suo universo sonoro convivono particolari combinazioni: la sua voce dialoga con un ensemble di archi, con chitarre e una sezione fiati di legni. Originale anche la ricerca del suono: spesso gli strumenti o la voce stessa vengono filtrati, manipolati attraverso strumentazioni analogiche, dispositivi per chitarra, live looping sampler, modificati con distorsori giocattolo.

John De Leo

John De Leo

La ricerca di possibili rapporti tra suono e parola si esprime nei versi dei brani, scritti dallo stesso De Leo: allitterazioni, assonanze, dissonanze sconfinano nel neologismo o nell’onomatopea. Testi immaginifici, spesso ironici, esplorano la sfera umana e gli consentono di  raccogliere l’eredità di artisti come Demetrio Stratos, Cathy Berberian e Leon Thomas. L’originalità della ricerca vocale-musicale di De Leo e l’alchimia con cui egli combina musica, arte e letteratura lo rendono un artista unico e riconoscibile, un vero e proprio uomo-orchestra. Ne “Il  Grande Abarasse” si va dalle divagazioni sonore e pensierose di “Io non ha senso”, alle fusa in chiave jazz de “Il gatto persiano”, alle parole impossibili di “Muto (come un pesce rosso), passando per le unioni e i grovigli di corpi “Di noi uno”, la spettrale malinconia di “Primo moto ventoso”, in cui si cerca di combinare il gusto e le sonorità di due compositori come Nino Rota ed Ennio Morricone o brani come “Apocalissi Mantra Blues”, vicino al gospel eppure dotato di una propria identità.

John De Leo

John De Leo

Canzoni come armi di una battaglia ludica e creativa come “La mazurka del Misantropo”, “è già finita/Il cantante Muto” o “50 euro”, intriso di elettronica,  rendono “Il grande Abarasse” una fonte di nutrimento per menti libere e curiose. Uno dei componimenti più particolari del disco è “The Other Side of a Shadow” . Il brano vede la partecipazione del pianista e compositore Uri Caine  e contiene un interessante testo recitato, tratto da “La linea d’ombra” di Conrad, finalizzato alla creazione di un geniale sottotesto tutto da interpretare. Sono tantissimi i riferimenti musicali, letterari, cinematografici che potremmo individuare in questo disco che è ulteriormente arricchito da un ghost album, realizzato con l’Orchestra Filarmonica del Comunale di Bologna. Si tratta di sei tracce che, pur muovendosi in un territorio neutro, completano il mastodontico lavoro di John De Leo delineando ulteriori linee guida, in grado di stimolare un ascolto mai uguale a se stesso.

Raffaella Sbrescia

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“Un giorno di sole”, il nuovo album di Chiara Galiazzo. La recensione

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Chiara Galiazzo torna alla musica con “Un giorno di sole”, l’album prodotto da Fabrizio Ferraguzzo e distribuito da Sony Music Italy. Per la giovane interprete padovana si tratta di un lavoro importante che potrebbe segnare una svolta all’interno del suo percorso artistico iniziato con la vittoria di X Factor nel 2012. La cura per i dettagli, la rinnovata motivazione ed una nuova consapevolezza attraversano le 11 tracce che la Chiara ha scelto, interiorizzato e racchiuso in questo suo nuovo album. Tanti i sono i nomi che figurano nei credits del disco:Daniele Magro, Dario Faini, Ermal Meta, Pacifico, Virginio Simonelli, Piero Romitelli e Davide Simonetta, Antonio Di Martino artisti coi quali Chiara si è confrontata a lungo alla ricerca di storie ed emozioni da raccontare a se stessa e agli altri. Il risultato di questo lungo e complesso percorso si intravvede nella maggiore spontaneità delle interpretazioni e nell’accurata realizzazione di un sound più vicino al pop inglese, in grado di spaziare dal folk blues al country, fino alla tipica melodia da ballad. Il tratto più interessante di questo lavoro sta nella felice collaborazione tra artisti giovani che, attraverso le loro fresche penne, sono stati in grado di raccontare emozioni, storie e sentimenti in maniera immediata e facilmente fruibile. “Un giorno di sole” non è, dunque, soltanto il titolo del suo nuovo album, bensì la trasfigurazione della nuova fase esistenziale ed  artistica di Chiara.

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Ad anticipare il disco è l’omonimo singolo “Un giorno di sole”, scritto da Daniele Magro. La particolarità di questo brano sta nella forte contrapposizione tra la melodia spensierata ed un testo intriso di sofferenza per la fine di un amore. Propositiva e concreta è, invece, la struttura testuale di “Siamo Adesso”, con musiche scritte dalla stessa Chiara, insieme a Fabio Campedelli ed Emiliano Cecere e con le parole di Pacifico finalizzate alla valorizzazione  di quanto di buono si abbia tra le mani. La delicata poetica di Daniele Magro risplende in tutta la sua lucentezza in “Il rimedio, la vita e la cura”, una ballad intensa e profonda che ha consentito a Chiara di mettersi in gioco con sincera autenticità. Pur muovendosi su un altro binario semantico, “Che valore dai”, scritta da Dario Faini e Antonio Di Martino, è una canzone pensata per far riflettere: “Che valore dai alle promesse fatte, ai pugni, alle ferite, alle cicatrici?”, canta la Galiazzo, spingendo l’ascoltatore in un interessante territorio fatto di pensieri, rimorsi, pentimenti, ripensamenti. L’ incoraggiante messaggio contenuto in “La vita è da vivere”, il brano scritto a quattro mani da Ermal Meta e Antonio Filippelli, racchiude l’essenza di un mantra : “cos’altro possiamo fare se non vivere?”; un messaggio diretto, semplice ed efficace che viene subito incalzato da “ll meglio che puoi dare” con testo di Ermal Meta: “Mi hanno detto che la vita è ciò che accade mentre tu più del viaggio vuoi la meta e non ti accorgi che hai di più”. Parole, queste ultime che hanno il pregio di riuscire a mettere a nudo i nostri pensieri più reconditi. Definita dalla stessa Chiara come la canzone più “chiaresca” dell’album, “Nomade”, scritta da Daniele Magro, definisce con grande efficacia e spensieratezza i tratti di una giovane artista abituata a porsi al pubblico senza filtri. Leggera e ritmata, “Ruba l’amore” introduce la parentesi più romantica del disco. A seguire troviamo “Amore infinito”, scritta da Niccolò Corrienti: “Abbi cura di splendere, ogni giorno sorprendere”, “rendere ogni giorno possibile”, canta Chiara, definendo i tratti di un sentimento forte, trasparente e coinvolgente. “Il  senso di noi” mette in evidenza le fasi di un percorso a due vissuto con grande intensità. La traccia di chiusura è “Qualcosa resta sempre”, nata da un brano in inglese scritto da Virginio Simonelli. Piano e voce riportano l’ascolto in una dimensione onirica ed essenziale, testo e musica rappresentano gli ultimi tasselli di un percorso evolutivo in cui Chiara pare aver raggiunto un grado di maturità artistica che le potrà consentire l’atteso salto di qualità.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Un giorno di sole”

The Ophelia’s Nunnery, la recensione di “Non basta vivere”

Cover CD_Non basta vivere (2)The Ophelia’s Nunnery è una band nata nell’hinterland milanese quattro anni fa. La compagine musicale composta da Matteo Arienti (voce, chitarra), Matteo Zappa (basso, voce), Simone Manzotti (batteria), Dario Azzolini (chitarra) è giunta alla pubblicazione di un primo ep autoprodotto, intitolato “Non basta vivere”, la cui uscita è prevista per il prossimo 7 ottobre. Registrato al Blap Studio di Milano sotto la produzione di Riccardo Carugati e masterizzato da Giovanni Versari, questo primo lavoro del giovane gruppo lombardo intende muoversi a metà strada tra l’indie rock ed il pop d’oltremanica ma, sebbene il sound si avvicini agli intenti dichiarati è il cantato in italiano, in alcuni momenti molto simile a quello di Raf, a tenere gli Ophelia’s Nunnery ancora lontani dall’obiettivo prefissato. Ad aprire l’ascolto è “Martedì”: “Non basta vivere per sentirsi vivo” è la frase che racchiude lo spirito ed il messaggio chiave di questo primo lavoro della band lombarda raccontando un’urgenza ed una impellente necessità di svolta.

The Ophelia’s Nunnery

The Ophelia’s Nunnery

Intensi e curati sono gli intrecci di chitarre proposti sulle note de “Il rumore del passato”, un brano intimo, ispirato al tema dello scorrere del tempo. Il mood malinconico  di “Benedire” è più vicino a tematiche di valenza socio- culturale ed è attraversato da linee melodiche più incalzanti ed aggressive. Le preannunciate atmosfere british si palesano ne “Il pentito” : “Si cade per riparare e rialzarsi, è la più grossa bugia di questo mondo perché quando tocchi il fondo sei solo sulla cima opposta e cerchi una risposta”, canta Matteo Arienti, mettendo a nudo debolezze e pensieri comuni. A chiudere l’Ep è “Solo Mostri”: lacrime di inchiostro danno voce a piccole alienanti ossessioni.  “Non basta vivere” racconta, dunque, le emozioni, i pensieri e le riflessioni di quattro ragazzi che hanno scelto di unire le proprie strade in nome della musica e che, dopo quattro anni di lavoro, sono stati in grado di gettare le prime fondamenta di un percorso che, a giudicare dai presupposti, possiede le carte in regola per farsi strada.

Raffaella Sbrescia

Tosca appassionata e cosmopolita in “Il suono della voce”. La recensione dell’album

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Tiziana Tosca Donati, in arte Tosca, torna in sala di incisione per “Il suono della voce”, l’album di inediti pubblicato lo scorso 30 settembre per Sony Classical. Prodotto dalla stessa Tosca e dalla violoncellista Giovanna Famulari, in collaborazione con la Bubbez Orchestra, questo lavoro racchiude molto più di un pugno di canzoni. Si tratta, infatti, di un’opera pensata, ragionata, nata dal  continuo sedimentarsi di idee, emozioni, sentimenti, pensieri, suggestioni che, nel corso di un lungo trentennio, hanno forgiato l’anima, umana ed artistica di Tosca. Musiche, suoni, lingue, ritmi si fondono nei percorsi creati dalle 22 tracce che compongono l’album nel nome dell’arte. “Il suono della voce” è il suggestivo titolo di questo album che prende il nome dal brano che il maestro Ivano Fossati ha appositamente composto per l’artista romana. Un biglietto da visita seducente, appassionato, dall’essenzialità ricercata.

Con la chiara intenzione di omaggiare la forma canzone utilizzando il maggior numero delle declinazioni possibili, Tosca ci accompagna, mano nella mano tra le tappe di un viaggio finalizzato alla ricerca di noi stessi nelle altre culture. Attraverso l’uso dell’ Yiddish, del portoghese, del francese, del rumeno, del giapponese, del libanese, Tosca rilegge antiche e nuove melodie con grazia e leggerezza conferendo loro un’innata bellezza, avulsa dallo scorrere del tempo. La cura per il dettaglio, la valorizzazione di ogni singolo strumento si evince dagli spazi e dalla scelta di musicisti eccellenti tra cui ricordiamo il compositore brasiliano Guinga, Gabriele Mirabassi, Germano Mazzocchetti e il duo Anedda.

La suadente delicatezza di “Gelosamente mia voce” apre l’album, i cui toni si fanno subito intensi e veraci sulle note di “Marzo/Mars”. Un saliscendi emotivo destinato a confluire nei colori e nelle melodie africane di “Nongqongqo (To those we love)”. Suggestivo e toccante l’incontro tra il dialetto romano e la lingua portoghese in “Nina / Nina, se você dorme”, brano in cui Tosca duetta con il chitarrista Guinga narrando i sogni, gli amori e le paure di Nina. Di tanto in tanto, il tempo si ferma sui rintocchi degli intermezzi strumentali tutti intitolati “Il suono della voce”, voce, che, in questi piccoli rivoli di emozioni, è esclusivamente quella di uno strumento, pronto ad emozionarci forse meglio di mille parole. In “Via Etnea” la protagonista è Mimì, una donna mediterranea che, grazie al potere dell’immaginazione, ritroviamo in “Shtel”, il canto della tradizione Yiddish che Tosca interpreta con voce vibrante e pathos tangibile. La gemma più luminosa del forziere è “L’annunciazione”. Il brano scritto da Ivano Fossati su melodia di Guinga tira le fila di una preziosa texture di note e parole lasciando che l’ascoltatore possa contemplarne, non senza stupore, il risultato.

Sogni, paure, desideri e sentimenti si differenziano nella modalità espressiva ma non nel contenuto. “Cicale e chimere”, realizzato in collaborazione con Joe Barbieri, immerge le corde vocali di Tosca in fresco contesto Jazz mentre “Succar ya banat” valorizza la sintonia umana e artistica tra due donne: Giovanna Famulari col suo vibrafono e Tosca con le sue vibranti parole immergono la mente in una dimensione immaginifica ma non è ancora tempo di tornare alla realtà; Tosca si congeda con “Miao”, un canto felino sospeso tra il reale e l’onirico che, unendo il mondo degli umani a quelli degli animali, sancisce e sigilla la valenza ancestrale di un prezioso microcosmo da cui attingere bellezza e poesia.

Raffaella Sbrescia

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Intervista a Paolo Di Sabatino: “Trace Elements? Sono i micronutrienti della vita”

Paolo Di Sabatino

Paolo Di Sabatino

“Trace elements” è il nuovo lavoro discografico del pianista e compositore Paolo Di Sabatino, pubblicato su etichetta Irma Records. In questo elegante e ricercato progetto musicale, l’artista ha racchiuso le suggestioni, le influenze e le impressioni del suo e del nostro presente, raggiungendo un risultato in grado di coniugare classe, qualità e contemporaneità. Tante sono le sorprese e le particolarità che Paolo Di Sabatino ha incluso in “Trace Elements” è questa ampia intervista rappresenta l’occasione per scoprirne qualcuna.

Quali sono le idee, le emozioni e i ritagli di vita vissuta che hai racchiuso nel tuo nuovo disco”Trace elements”?

In questo lavoro ci sono tutte le emozioni che mi accompagnano in questo momento della mia vita, soprattutto quelle legate ai miei splendidi figli Caterina e Luigi, fonte inesauribile di ispirazione, insieme a mia moglie Chiara. Le idee musicali sono a loro volta figlie di quello che vivo quotidianamente, non potrebbe essere altrimenti!

Da dove nasce la scelta di questo titolo?

Da una certezza che ho da sempre, cioè quella che nessuno di noi potrebbe mai fare a meno della musica. Trace Elements sono, in biochimica, i micronutrienti. Ognuno di noi si nutre di musica, dalla nascita! E poi nel titolo c’è un’assonanza col numero 3, come i componenti del gruppo.

Nel tuo lavoro hanno partecipato due eccellenze musicali…stiamo parlando di Peter Erskine, batterista riferimento negli ultimi quarant’anni di jazz,  e del bassista Janek Gwizdala, definito “l’astro nascente del basso elettrico a livello mondiale”… Raccontaci come avete instaurato il vostro rapporto di amicizia, in che modo i due artisti hanno preso parte al tuo progetto e cosa ha significato per te questa collaborazione.

Suonare e registrare con Peter è stata una delle soddisfazioni più belle della mia vita. Ci conosciamo da anni, e di tanto in tanto gli ho sempre inviato qualcosa di mio. Un giorno ho ricevuto una sua email di congratulazioni per un mio cd, e da quel momento ho capito che avrei potuto pensare ad un progetto con lui. Io amo suonare con chi dimostra una certa affinità col mio mondo musicale e palesa apprezzamento per le mie composizioni. In effetti lo scorso marzo ho avuto la prova che tra me e Peter c’era la giusta sintonia, e dall’ascolto del CD credo si evinca senza dubbio alcuno. Peter ha dato un grande apporto umano e musicale, ed è stato lui peraltro (conoscendo la mia musica) a presentarmi Janek, ritenendolo perfetto per questo progetto. E ha avuto ragione!

Paolo Di Sabatino

Paolo Di Sabatino

La prima traccia contenuta in “Trace elements” è “Driving blues”, un brano ispirato alla vita on the road di voi artisti…cosa ti regala questo stile di vita e cosa, invece, pensi possa toglierti?

Innanzitutto mi ha regalato l’ispirazione per scrivere dei brani! Anni fa ho anche composto “F.S. Blues”, dedicato ai miei viaggi in treno. Credo di aver raggiunto un sano equilibrio nella gestione del mio stile di vita. Non sono un musicista che suona tutte le sere, non avrei le forze e l’ispirazione per farlo. Quindi le volte che parto, anche se sto fuori un mese, sono bello carico e pieno di energia. Quando torno ho sempre tempo di rilassarmi, recuperare appieno e godermi la casa e la famiglia.

Cosa vorresti che la tua musica comunicasse al pubblico e a quali contesti credi che le tue composizioni si prestino al meglio?

Vorrei sempre comunicare emozioni intense, che si tratti di un brano del mio trio jazz, di una canzone o di una ninna nanna. Sarebbe una tragedia lasciare indifferenza a chi ascolta, è la cosa che mi ferirebbe di più. Metto l’anima in ogni nota che suono e che scrivo sul pentagramma, negli ambiti più disparati, e credo che le melodie che compongo siano adattabili a molti contesti, dallo strumentale jazzistico al cinema. La melodia è sempre il comune denominatore della mia musica e spero sempre di riuscire nell’intento di regalare qualcosa a chi mi ascolta: un sorriso, un pensiero, anche una lacrima, perché no.

In “Trace elements” ci sono anche due standard jazz uno è “Nature Boy”  di Eden Ahbez, l’altro è “They Can’t Take That Away from Me” di George Gershwin; come mai hai scelto proprio questi due brani? Sono legati in qualche modo alle altre tracce che compongono l’album?

Nessun legame particolare, se non il fatto che sono delle melodie che amo. Gershwin però è uno dei miei compositori preferiti, e mi vanto pure di essere nato il 26 settembre come lui!

“Time for fun” è un “lusso” che sempre meno persone possono permettersi, l’hai inserito per sottolinearne l’importanza vitale?

Assolutamente si! Oggi si corre a destra e a manca, senza un attimo di respiro. Ovviamente mi riferisco a chi ha la fortuna di avere un lavoro, che sta diventando quello si un lusso, cosa che stride molto in un Paese dove il primo articolo della Costituzione dice che siamo una repubblica fondata sul lavoro. Il privilegiato che lavora però, spesso lo fa perdendo di vista l’essenza della vita, alla ricerca spasmodica di un benessere economico maggiore. Perdendo di vista così il fatto che il benessere reale è quando ti fermi a guardare un tramonto, quando mangi bene e bevi meglio, quando leggi un bel libro o vedi un bel film, quando riesci a dedicare tempo agli amici e alla tua famiglia: “Time for fun”, appunto.

Ci racconteresti com’è nato il neologismo “Ciclito”?

Mio figlio Luigi ha una sorta di triciclo col quale scorrazza per casa. Spesso e volentieri i bimbi storpiano le parole, soprattutto quelle più difficili. Ed ecco nato “Ciclito”! Ho scritto il brano di getto, immaginando Luigi in frenetica attività su suo amato triciclo/ciclito.

Come nasce e come si sviluppa la bonus track “Ce que j’aime de toi”, scritta a quattro mani con Kelly Joyce?

Conosco Kelly da molti anni, ma a parte una jam session, non avevamo mai avuto l’opportunità di collaborare. Ho pensato che questo brano potesse essere giusto per lei, cantato in francese. Gliel’ho inviato e le è piaciuto subito. Così ha scritto il testo e lo abbiamo inciso. C’è anche un bellissimo videoclip su youtube (http://youtu.be/iDoWMvq7fv4)

Hai collaborato con tantissimi artisti, sia italiani che stranieri, come riesci a conciliare, di volta in volta, il tuo stile con quello altrui?

Diciamo che cerco di collaborare con musicisti che sento affini già prima di suonarci insieme. Va fatto invece un discorso diverso per i cantanti. Quando accompagno i cantanti cerco sempre di immedesimarmi nel loro stile e nelle canzoni che cantano, col l’obiettivo di valorizzare musica e testo, senza perdermi in inutili e dannosi virtuosismi che prevaricherebbero l’interpretazione vocale. Il jazz è bellissimo, ma senza controllo può diventare deleterio!

Paolo Di Sabatino Ph Alessandro Pizzarotti

Paolo Di Sabatino Ph Alessandro Pizzarotti

Sei docente di musica d’insieme e coordinatore del dipartimento di jazz presso il Conservatorio Alfredo Casella di L’Aquila… come sono cambiati, negli anni, i metodi di insegnamento e le modalità di apprendimento da parte degli studenti?

Veniamo da una recente riforma che ha trasformato i Conservatori in Istituzioni di Alta Cultura, come le Università. I metodi non sono cambiati, è cambiata la forma. Ora ci sono i corsi pre-accademici, poi la laurea triennale e poi il biennio superiore. Ci sono molte materie complementari che però tolgono, di fatto, tempo prezioso allo studio dello strumento a casa. Secondo me è una riforma zoppa, che in ambito classico ha anche eliminato la possibilità di sostenere esami da privatista. Mia figlia Caterina, ad esempio,  studia pianoforte con mio padre, che a causa di questa riforma non potrà portarla a compimento degli studi. Dovremo per forza iscriverla in un Conservatorio o Liceo musicale. Secondo me è un’assurdità. La ciliegina sulla torta è che non ci hanno nemmeno equiparato gli stipendi a quelli dei docenti universitari…

A novembre sarai in tour e ti dividerai tra Russia, Cile ed Argentina… che tipo di concerto offrirai al pubblico e come riesci ad instaurare un feeling empatico con la platea internazionale?

In Russia suonerò col progetto “Inni d’Italia”, con l’amico fisarmonicista Renzo Ruggieri. Abbiamo in repertorio i classici della melodia italiana, da Verdi a Baglioni, si tratta di un progetto che abbiamo già portato in Russia, con grande soddisfazione nostra e del pubblico russo. In Cile ed Argentina invece suonerò col mio trio (con mio fratello Glauco alla batteria e bassisti sudamericani che troveremo nelle città dove ci esibiremo, la cosa rappresenterà una preziosa possibilità di scambio artistico e culturale), quindi la mia musica. Mi esibirò anche al festival jazz di Buenos Aires e devo dire che la cosa mi emoziona al solo pensiero. Sento grande affinità con il Sudamerica, da sempre. Poi in Argentina ci sono tantissimi italiani! Sarà meraviglioso per me, e spero anche per loro,  fargli ascoltare le mie melodie.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Time for fun”

“2974. Music for Dark Airports”, il full lenght del combo P. oZ.

CoverP.oZ

Preparatevi a lasciarvi travolgere dalle atmosfere oscure, ossessive, a tratti claustrofobiche di “2974. Music for Dark Airports”, l’album realizzato da P. Oz. il combo nato nel 2001 da un’idea di Antonio Bufi e Antonio Lisena. Alla base di questo lavoro d’avanguardia c’è una forte contaminazione tra suoni di matrice rock ed elettronica minimal. Il risultato è una miscela sonora di impatto immediato, pronta a conquistare la psiche e l’epidermide di un ascoltatore attento, pronto a cogliere ogni singola sfumatura tra le innumerevoli stratificazioni sonore scelte per esprimere concetti spesso troppo dolorosi per poterli descrivere attraverso l’uso delle parole. In questo specifico caso il tema che ricorre in questo concept album è il crollo delle Torri Gemelle, avvenuto l’11 settembre 2001, in seguito ad un attacco terroristico a New York. Coadiuvato dalla drammatica forza empatica della copertina, questo disco si fa strada in maniera apparentemente marginale, eppure profonda, nei cuori degli ascoltatori grazie al perturbante fascino dell’oscurità misterica che pervade gran parte delle tracce proposte. Echi e riverberi, voci e rumori distorti, strutture sonore noisy e frequenti cambi ritmici non eliminano il mood onirico che attraversa tutto il lavoro. Giochi elettronici e miscugli strumentali immergono l’ascolto in una dimensione liquida, priva di limitazioni e di etichette, un’opera frastagliata, difficile da inquadrare e da gestire; quasi un buco nero in cui riversare emozioni, suggestioni, pensieri e incubi. Un lavoro visionario, forse estremo, che si presenta come una ipotetica perfetta colonna sonora di una tragedia che va oltre l’immaginabile. “2974. Music for Dark Airports” è molto più di un lavoro strumentale, troppo riduttivo parlare di ambient music, qui si tratta di un lavoro pensato per azionare meccanismi interpretativi individuali, tutti da rimescolare e filtrare per provare a comprendere il mistero della vita.

Raffaella Sbrescia

 

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