Dave Gahan, sublime ed inimitabile voce dei Depeche Mode, pubblica “Angels & Ghosts”, il secondo capitolo della sua avventura artistica con i Soulsavers. Nelle nove tracce che compongono l’album, spicca un paesaggio sonoro maestoso, a tratti onirico, che lascia l’ascoltatore in una sorta di estasi contemplativa. Attraverso questo racconto in musica alla vecchia maniera, Gahan si lancia in astratti voli pindarici principalmente incentrati sulla caducità umana. Dave Gahan & Soulsavers si prodigano in una serie di languide ballads dall’anima gospel ma è l’interpretazione del cantante ad infondere fascino e sensualità ai brani. “Angels & Ghosts” si apre con “Shine”, connubio di gospel e blues tradizionale, segue “You Owe Me”, a metà strada tra speranza e tormento, chiude il trio d’apertura l’eterea “Tempted”. La traccia più avvolgente e più carica è “ All Of This And Nothing”, One Thing” acuisce la sensazione ansiogena attraverso un’atmosfera più lenta e dominata dal pianoforte, gli archi di “Don’t cry” preparano, invece, alla seducente attrattiva di “The Last Time”. La complessa interiorità di Gahan emerge in “My Sun”, epica conclusione dell’album, rivelando una notevole capacità di introspezione in grado di coinvolgere e stravolgere l’ascoltatore. Per godere dal vivo questa esperienza d’ascolto, l’appuntamento è fissato al prossimo 4 novembre al Fabrique di Milano.
“Irrequieto” (The prisoner records/Believe digital), il nuovo album di inediti di Mezzala (nome d’arte del genovese Michele Bitossi), esce a quattro anni di distanza dall’esordio solista “Il problema di girarsi”, anni in cui il cantautore ha realizzato un album e un ep dei Numero 6, ha scritto molte canzoni per sé e per altri e ha lavorato a vari progetti musicali in diverse vesti. In “Irrequieto” Mezzala lavora alla “vecchia maniera”, s’ispira a certi album degli anni 70 alla Ivan Graziani, Eugenio Finardi, Lucio Dalla, Alberto Fortis, Lucio Battisti e pone al centro di tutto la musica. Lunghe e meticolose sessioni di pre produzione hanno scandito le fasi di realizzazione di un lavoro che coinvolge Ivan Rossi e Tristan Martinelli e che cerca di esprimere un amore incondizionato per la musica e per un certo modo di farla. «Sono irrequieto di natura e questo mi porta a fare delle belle cose spesso e a fare grandi errori altrettanto spesso. Odio annoiarmi, scrivo in continuazione», spiega Mezzala, raccontando un disco fatto prescindendo da calcoli e previsioni commerciali. All’interno della tracklist brani come “Le tue paure” e “Mi lascio trasportare” uniscono un’analisi profonda dei sentimenti di tutti i giorni alle possibili soluzioni. Menzione di merito a “Capitoli primi” con il testo di Matteo B. Bianchi e all’emblematica “Chissà” in cui sentiamo Zibba recitare: “Caro Mezzala hai del talento/scrivi in modo originale e profondo/il tuo è un pop intelligente/mi ricorda molto il mondo di quei cantautori romani/fai piacevoli canzoni ma non basta/si tratta purtroppo di musica molto difficile da collocare/le radio non ti passerebbero/(ora siam sui talent)/ma tienimi sempre e comunque aggiornato/ascolto molto volentieri: hai un bel mondo”. Parole che risuonano come macigni e che Mezzala affronta a cuor leggero e con ironia dimostrando tempra, sicurezza e incondizionata dedizione nei riguardi della musica.
“Adesso guardami” è il titolo del terzo album di Roberta Di Lorenzo. La cantautrice si racconta senza filtri, mettendosi in gioco con brani autobiografici e assertivi, sofferti e d’amore; il filo conduttore? “Il coraggio di fare delle scelte”. Roberta scrive canzoni dalle melodie accattivanti e dai testi interessanti con la nonchalance di chi fa apparire semplici anche le cose più complesse. Lo dimostra bene in “Adesso guardami”, pubblicato per l’etichetta Cramps, un nome storico dell’avanguardia musicale in Italia riconvertito a suoni più facilmente appetibili. La produzione artistica dell’album è di Paolo Iafelice, che ha lavorato con artisti del calibro di Fabrizio De André, Ligabue e molti altri. La distribuzione è curata da Edel Italy.«Mi sono presa tutto il tempo necessario. Tre anni per fare chiarezza, buttarmi molte scorie dietro le spalle e dire a chi mi ascolta “adesso guardami”. Non è una richiesta di attenzione: «. È il bisogno di farsi sentire nel presente, non necessariamente di farsi amare per sempre, il che, se poi succede, è meglio. Gli occhi sono sempre il primo tramite di un contatto, destinato o meno a diventare profondo», racconta l’artista.
Dopo “L’occhio della luna” del 2010 – Premio Lunezia per il valore musical-letterario – e “Su questo piano che si chiama terra” del 2012, soprattutto dopo le collaborazioni con Eugenio Finardi (che l’ha portata in tour spesso e ha interpretato a Sanremo 2012 la sua “E tu lo chiami Dio”) e i Sonohra, per i quali ha scritto vari brani, Roberta torna a mettersi a nudo. Lo fa letteralmente nelle foto della copertina e del booklet, lo fa intensamente nelle nuove canzoni, dal sapore in parte autobiografico, in parte intese come impegni da descrivere e assolvere. Sempre personali e vere.
Roberta Di Lorenzo
Come “La storia della mia vita” che dice: “Non voglio fermarmi, credere che sia tardi/ Io voglio guardare avanti, capire che posto ho nel mondo/ che cosa sono adesso e come dovrei inventarmi”. Oppure “A piedi nudi”: “Le città che cadono e gli animali in estinzione/ dimostrano l’errore della nostra ragione/ a volte si fa chiara la motivazione/ ma poi guardo il cielo e non la vedo più”. E poi canzoni che parlano di suicidio (“L’ottavo piano”) e di futuro (“Scelgo una destinazione”), di musica e d’amore, di sofferenza e di rinascita. «La vita di oggi, così veloce e bulimica”, continua la 35enne cantautrice pugliese da anni a Torino, ci impedisce di ascoltare. Siamo distratti da tutto: la televisione è il simbolo di questa realtà. Invece avremmo bisogno di riconnetterci con gli altri, di incontrarci, per vivere meglio. È questo il filo conduttore del disco: l’importanza di trovare una destinazione, di scegliere, il coraggio della scelta comunque».
L’abbiamo notata sul palco degli MTV EMA 2015, sia da sola che in duetto con Andrea Bocelli. La qualità della sua performance e della sua vocalità ci hanno spinto a volerne sapere di più e ne abbiamo scoperte delle belle. Tori Kelly è cresciuta circondata da musica di tutti i generi grazie alle origini dei genitori (padre irlandese di origine portoricana e giamaicana e da madre di origine irlandese, inglese e tedesca); fin da piccola si è fatta notare nel mondo della musica ottenendo, a soli 12 anni, un contratto con la Geffen Records. Nel maggio 2012 ha pubblicato il suo primo EP “Handmade Songs”, mentre intorno alla metà del 2013 ha firmato un contratto discografico con la Capitol Records, grazie al manager Scooter Braun, pubblicando l’EP “Foreword”. Il 1° novembre 2013 ha aperto il concerto di Ed Sheeran al Madison Square Gardene, nel frattempo, si è fatta conoscere per la cover, registrata con la collega Angie Girl, del brano di Frank Ocean “Thinkin Bout You”, che ha oltre 23 milioni di visualizzazioni su YouTube.
Tori Kelly
Lo scorso 16 ottobre Tori Kelly ha lanciato in Italia l’album di debutto intitolato “Unbreakable Smile”. Il disco ha già conquistato le classifiche internazionali di vendita debuttando al #2 negli Usa, al #3 in Canada, al #6 in Nuova Zelanda e al #8 in Australia. Protagonista dei maggiori show televisivi americani e del Vevo Hits Takeover, Tori Kelly è stata anche scelta dalla Pepsi per la nuova campagna spot. Durante l’estate è stata protagonista dei maggiori festival musicali americani ed ora sta portando in giro per le principali città americane il suo Where I belong Tour. Entrando nello specifico dell’album, restiamo subito colpiti dalla grande varietà di generi e suoni contenuti nel disco. L’intro voce e chitarra di “Where I belong” ci trasporta subito in un’atmosfera calda e avvolgente. Il movimento funky della title track trova un morbido punto d’incontro con una speziata spruzzata di hip hop. Le lontane reminiscenze di “Jenny from the block” della Lopez irradiano la melodia della hit “Nobody love” mentre la potenza ritmica di “Expensive” feat. Daye Jack ci mostra il lato più carismatico di Tori. “Should have been us” sarà il nuovo singolo in rotazione nelle radio italiane nonostante non sia da considerare come uno dei brani più forti del disco. Struggente ed intrisa di pathos interpretativo la super ballad “First hearbreak”, seguita, a ruota, da “I was made for loving you” cantanta insieme ad Ed Sheeran. Potente ed elegante anche l’arrangiamento di “City Dove” mentre “Talk” è molto più vicina al mondo di Pink. Suggestiva la versione live di “Funny”, ideale come colonna sonora di un film la bellissima “Falling Slow”. Delle due bonus tracks finali citiamo “Personal” perché più intensa e rappresentativa di un’artista che a soli 23 anni dimostra di avere non solo una buona maturità artistica ma anche di saper coinvolgere l’ascoltatore in un mondo sonoro di qualità veramente elevata.
A cinque anni di distanza dall’ultimo album di inediti, Edoardo Bennato torna a farsi sentire a gran voce con “Pronti a salpare”. L’album, prodotto da Brando (Orazio Grillo), anticipato dal primo estratto “Io Vorrei Che Per Te”, è uscito lo scorso 23 ottobre per Universal Music ed include 14 brani di cui 11 pezzi originali e 3 riproposizioni di canzoni precedenti (“Povero Amore”, “La mia Città” e “Zero in Condotta”) con nuovi arrangiamenti. I temi affrontati nel disco spaziano dalla politica alla famiglia, ai figli, all’amore: «Era dal 2012 che avevo in mente questo titolo. Di solito quando scrivo le canzoni non ho l’idea del testo, parto sempre dal finto inglese. I fatti che ci circondano diventano poi materiale vivo per le canzoni in cui cerco di evitare il più possibile il buonismo, la retorica e i luoghi comuni – ha spiegato Bennato alla stampa durante la presentazione del disco a Milano. “Pronti a salpare” –ha continuato -non parla solo dei migranti che scappano da guerre, devastazioni ed epidemie. Anche noi privilegiati occidentali dobbiamo entrare in un altro ordine di idee. Il mondo cambia velocissimamente, molto più di quanto siamo capaci di immaginare, cambiano gli equilibri e pure noi, quindi, dovremo essere pronti a tutto questo».
Edoardo Bennato
Addentrandoci nei meandri del disco scopriamo una scrittura vivace, attuale, ispirata. Flussi di richiami blues americani vengono costantemente richiamati dalle chitarre di Scarpato e Porcelli, senza dimenticare Perrone e Duenas a completamento di una straordinaria band, da anni al fianco del cantautore napoletano. Tra i brani più autentici del disco spicca “A Napoli 55 è ‘a musica”: «Un brano che ha almeno 12 anni e che ho fatto credo in 18 versioni, poi ai tempi supplementari ho optato per questa perché l’album doveva uscire. Sono stato il primo a coniugare blues e dialetto napoletano, nel’76 con “Ma chi è” e continuo a farlo quando c’azzecc’ e in questo caso ci azzecca perché il brano parla della mia storia», ha raccontato l’artista commentando un talking blues che sintetizza il viaggio della speranza rock a Milano. Interessante anche l’artwork dell’album, realizzato dallo stesso Bennato, autore anche delle tele attualmente in mostra a EXPO col titolo “In Cammino”: «Le immagini ritraggono personaggi che avevo fotografato, venditori ambulanti che camminano incessantemente sulle nostre spiagge e sono emblematici di un’umanità che è in cammino da milioni di anni. Volevo rappresentare sia quest’umanità dolente, amara, che cerca via di scampo, sia il senso del cammino, di questo spostamento latitudinale, che ha comportato anche il cambiamento del colore della pelle e ha disegnato l’umanità di oggi. Tuttavia, a dispetto del colore della pelle, è innegabile che gli esseri umani abbiano tutti le stesse potenzialità fisiche e morali. Questo è il presupposto, che non è buonista, ma scientifico, con cui ho composto un pezzo come “Pronti a Salpare”. Nell’artwork dell’album sono presenti disegni che appartengono a un’altra mostra, che feci 10 anni fa a palazzo Durini, a Milano, assieme a Mimmo Rotella e rappresentano i profughi della guerra dei Balcani – ha aggiunto- Chi acquisterà il disco su iTunes, poi, troverà anche un libretto realizzato da Loredana Nicosia».
Edoardo Bennato
Nel nuovo album Bennato lascia ovviamente ampio spazio alla politica ne “Il gran ballo della Leopolda”, in cui i protagonisti sono Matteo Renzi e Pippo (Civati): «Sin dalla prima ora quello che faccio non è stato vidimato dal mondo della canzonetta ma dell’intellighenzia del nostro Paese. Il problema è: chi risolverà il tarlo dell’Italia, ossia il divario che c’è tra Treviso e Reggio Calabria? A noi in fondo cosa importa, facciamo solo canzonette noi», ironizza il rocker che, pur autodefinendosi un saltimbanco, finisce col dire sempre cose vere. L’ascolto continua con “La mia città”, autentico ritratto di Napoli pubblicato nel 2011 come primo segnale dell’album. A seguire “Il mio nome è Lucignolo”, scelto come anticipazione del musical “Burattino senza fili”, in scena dal 18 febbraio al Brancaccio di Roma. In due canzoni emerge l’amore mai sopito per la musica colta: “Non è bello ciò che è bello”: «Lo confesso, l’avevo scritto per Pavarotti. Ci frequentavamo, perché avevamo una casa nella stessa zona in Romagna. Luciano mi disse che gli scrivevano sempre canzoni tristi e mi chiese di scrivergli una canzone allegra, quindi nel viaggio di ritorno mi misi a scrivere e mi venne in mente questa frase “non è bello ciò che è bello”, con la melodia. Lui poi la provò anche, però quelli della Decca dissero che era una cosa troppo leggera e non gliela fecero fare». Particolare e sorniona “La calunnia è un venticello”, una delle canzoni migliori del disco in cui Bennato rilegge il testo scritto da Cesare Sterbini per l’omonima aria del “Barbiere di Siviglia” di Rossini dedicando sono strofe dedicate a Enzo Tortora e Mia Martini e, per estensione, a chiunque “sotto il pubblico flagello va a crepar”. Non ci rimane che goderci anche dal vivo questo nuovo riuscitissimo lavoro in cui Bennato dimostra, ancora una volta, di avere non solo molto da dire ma di riuscire a dirlo veramente bene.
Pronti a salpare
Io vorrei che per te
Povero amore
La calunnia è un venticello
Il mio nome è Lucignolo
A Napoli 55 è ‘a musica
Al gran ballo della Leopolda
È una macchina
Giro girotondo
Il mio sogno ricorrente
Niente da spartire
La mia città
Zero in condotta
Non è bello ciò che è bello
La strategia vincente alla fine è quella di non vedere la crescita come uno sradicamento progressivo, ma come un evolversi ogni giorno. Hegel affermava che la tesi, l’antitesi e la sintesi si succedono logicamente e ogni giorno è necessario contraddirsi. Penso che la forza degli artisti risieda proprio nel fatto di essere inquieti. D’Annunzio diceva “Ama il tuo sogno seppur ti tormenta”, la cosa che riesco a fare meglio, nonostante tutto, è la musica”. Sono queste le nuove inderogabili consapevolezze da cui Francesca Michielin parte per presentare “di20” (Sony Music), un album di inediti che arriva a tre anni di distanza dal disco d’esordio. Un lavoro importante, intimo, ben lavorato, arricchito dalla produzione artistica di Michele Canova Iorfida e che vanta le collaborazioni di Fortunato Zampaglione, Ermal Meta, Fausto Cogliati, Matteo Buzzanca, Federica Abbate, Colin Munroe, April Bender, Viktoria Hansen e Negin Djafari. Undici brani in cui Francesca mostra se stessa senza filtri ed è bello scoprire una giovane donna di grande intelligenza e di invidiabile maturità. «Mi sono concessa tre anni di esperimenti e collaborazioni. I dischi si fanno con calma, pensando, ragionando cogliendo l’istinto della scrittura. Finché non si capisce che cosa si vuol dire si può anche stare in silenzio. Non bisogna sovraesporsi», racconta la giovane cantautrice esponendo una filosofia in netta controtendenza con le logiche contemporanee.
«Questo album è un completo featuring con me stessa. “Di20” racconta molto di me, il mio percorso di crescita in musica, la mia visione della vita e del mondo che mi circonda. C’è stata anche una crisi, un continuo interrogare me stessa alla ricerca di qualcosa di vero da dire. Nel processo, di fatto, non ho distrutto niente di quello che ero all’inizio: nella sintesi c’è molta sincerità. In queste canzoni credo moltissimo e c’è molta coerenza. Dopo XFactor ho vissuto in maniera traumatica questo inizio, avevo paura. Mi sentivo cambiata, non capivo. Quando hai sedici anni qualsiasi cosa canti non sei credibile, a sedici anni di cosa puoi parlare? Pian piano ho imparato a scoprirmi e alla fine posso dire di essere contenta di aver iniziato così giovane, nessuno potrà dire fra un anno la Michielin è finita perché, in realtà, ho una vita davanti per continuare a dimostrare musicalmente qualcosa», spiega Francesca, mostrandosi timida eppure risoluta nelle sue affermazioni di spessore.
Francesca Michielin live @ Unicredit Pavilion – Francesco Prandoni
«Per quanto riguarda il titolo e la copertina del disco abbiamo scelto “di20” per esprimere il concetto di diventare. Poi c’è l’icosaedro con venti facce, venti lati di me, che rappresentano le mie tappe da 0 a 20 anni. E’ un disco ricco di simboli, dall’occhio di “Battito di ciglia” al prisma di “L’amore esiste”. Le illustrazioni sono state realizzate da Anna Neudecker in arte LaBigotta». Parlando della lavorazione del disco Francesca ha spiegato: «Mi sono presentata a Michele Canova appena ventenne con le idee un po’ ribelli ma soprattutto con la paura dello scontro, invece ho trovato una persona meravigliosa. Lui ha abbracciato con entusiasmo questo progetto e mi ha lasciato molto spazio. Questo è un album in cui mi sono messa molto in gioco nei testi. Mi ha fatto crescere ancor più la voglia di fare questo mestiere. Ho scritto, e scrivo, brani sia in inglese sia in italiano (in verità amo molto anche il francese…) solamente perché alcuni pezzi suonano meglio in una lingua o nell’altra. Un caso particolare è il brano Almeno tu, che è nato in inglese e poi l’ho tradotto in italiano, e non è stato facile! La vera sfida è essere originali rimanendo comprensibili e vorrei sforzarmi a fare sempre più cose in italiano, che una lingua legnosa ma ricca e interessante. Questo disco è un featuring con me stessa, a me piace fare duetti perché ti permettono di crescere e ampliare la visione della musica ma voglio far conoscere anche quello che faccio e che ho fatto prima dei featuring. Non sono state inserite nell’album le versioni estese di “Cigno nero”, perché non ho ancora scritto il testo giusto e di “Magnifico”, di cui esiste invece una versione che sembra la risposta della ragazza a quello che canta Fedez nel suo brano. Il disco si chiude con “25 febbraio”, un pezzo molto complesso. Si tratta di una sorta di dialogo tra la me nella pancia della mia mamma e la Francesca di ora, un racconto tra la me stessa che deve nascere e quella che sono adesso», racconta Francesca lasciando intravvedere tutta la cura, l’impegno e la dedizione con cui ha lavorato ad un album di respiro internazionale e che mette in risalto la sua nuova maturità artistica.
Francesca Michielin live (scatto presente sulla pagina Facebook dell’artista)
Subito dopo l’incontro con la stampa, Francesca Michielin si è esibita in uno speciale concerto all’interno dell’Unicredit Pavilion di Piazza Gae Aulenti nell’ambito dell’MTV Music Week. In scaletta tutti i brani del nuovo disco ma anche i successi tratti dall’album d’esordio. Una prova live intensa, arricchita da un’acustica eccellente e da sontuosi arrangiamenti intrisi di suoni elettronici. Convincente dal punto di vista vocale, Francesca Michielin ha dimostrato di essere anche una brava musicista polistrumentista e siamo sicuri che nel corso del tempo potrà fare sempre meglio.
L’amore esiste Battito di ciglia Tutto questo vento Almeno tu Distratto Io e te Amazing Honey Sun 25 febbraio Sons And Daughters Sola Un cuore in due DiVento Lontano Magnifico Tutto quello che ho
Venerdì 16 ottobre il pianista Danilo Rea ha inaugurato l’autunno musicale all’UniCredit Pavilion di Milano presentando “Somenthing in our way”” (Warner Music Italy). L’intero lavoro discografico è interamente dedicato alle pagine più belle del repertorio musicale dei Beatles e dei Rolling Stones ed il frutto di uno slancio emotivo molto intenso. Presentato al pubblico con un travolgente concerto in piano solo con il concerto intitolato “Across my universe: My Beatles, My Stones”, il disco trova un originale compromesso tra due realtà musicali distanti attraverso l’abile capacità interpretativa ed improvvisativa di Rea che, in questo modo, supera di fatto un’eterna dicotomia. Dalla melodia di “Let it be”, all’appassionata “Angie”, passando per il ritmo di “Ob-la-dì Ob-la dà” e l’energia di “Jumpin’ Jack Flash”, Danilo Rea scompone, riarrangia e ricostruisce, fino a restituirci una musica ricca di nuove sfumature da cui lasciarsi coinvolgere. «Ogni disco è una sfida, un punto di arrivo di un periodo durante il quale maturo nuovi stimoli per un inedito processo di improvvisazione. Un disco è qualcosa che rimane ed è per questo che reputo importante avere un messaggio ed un’identità precisa da trasmettere», ha spiegato Danilo Rea alla stampa durante la presentazione del disco.
Danilo Rea
«La prima cosa da ricercare è l’emozione poi arriva lo spunto melodico. Se la melodia mi emoziona mi dà uno stimolo. L’improvvisazione è una composizione estemporanea. Il linguaggio del jazz in alcuni casi è diventato standard ma io cerco di attingere a linguaggi diversificati. Nelle mie improvvisazioni emerge tutto il mio background. Il processo consiste nel lasciarsi ispirare da una melodia portandola agli estremi», ha raccontato Rea.
Danilo Rea
Aprendo una lunga digressione sullo stato attuale della musica l’artista ha dichiarato: «A volte l’errore più comune che viene fatto dai musicisti è quello di non cercare il proprio suono. Anche i Beatles e gli Stones si incontravano in studio per cercarlo. Il mio modo di affrontare le cose avviene attraverso la ricerca di un suono personale. L’obiettivo, in questo album, è stato quello di raggiungere un’identità riconoscibile in qualcosa che era già perfetto in partenza. Ho lavorato per sottrazione trasformando lo svantaggio di non suonare con una band in un vantaggio – continua – La selezione è il frutto di un’onda emotiva, nella tracklist ci sono brani melodici che hanno risposto al mio gusto personale ma anche ad una capacità di adattamento più facile. In tre giorni ho concluso le registrazioni, in tre pomeriggi ho suonato 40 brani per 4 ore di musica. In seguito ho scelto i brani che risultavano più interessanti da suonare dal vivo, servivano onde dinamiche in grado di catturare l’attenzione del pubblico. Durante la selezione dei brani mi sono reso conto che c’erano dei brani irriproducibili (ad esempio Strawberry Fields Foreverdei Beatles). Le piccole imperfezioni sono uniche, creano un compromesso inalterabile. In ogni caso un musicista non deve mai perdere l’ingenuità sennò si perde il contatto con la freschezza e la comunicatività. Credo molto nella semplicità, per complicare c’è sempre tempo».
“Something in our way” – la tracklist:
1. Let it be (Lennon/McCartney), 2. You can’t always get what you want (Jagger/Richards), 3. The long and winding road (McCartney), 4. Street of Love (Jagger/Richards), 5. Here comes the sun (Harrison), 6. Angie (Jagger/Richards), 7. And I Love her (Lennon/McCartney), 8. Jumpin’ Jack Flash (Jagger Richards), 9. Yesterday (Lennon/McCartney), 10. Lady Jane (Jagger/Richards), 11. You never give me your money (Lennon/McCartney), 12. Wild horses (Jagger/Richards), 13. Ob-la-dì Ob-la dà (Lennon/McCartney), 14. Paint it black (Jagger/Richards), 15. While my guitar gently weeps (Harrison), 16. As tears go by (Jagger/Richards/Oldham)
Rocco Hunt torna con un nuovo progetto discografico intitolato “SignorHunt”, in uscita il 23 ottobre (Sony Music). Per il titolo Rocco sceglie un sottile gioco di parole per un lavoro che lo stesso rapper ha definito come “l’album che ha sempre sognato di fare”. Masterizzato agli Sterling Studios di New York da Chris Gehringer (Mastering Engineer di Nas, MethodMan, 50 Cent, JayZ e molti altri) e prodotto da Ketra e Takagi (già produttori di “Nu Juorno Buono), Bassi Maestro (storico produttore hip hop italiano che ha collaborato con artisti hip hop americani), 2nd Roof (Guè Pequeno, Marracash), “SignorHunt” racchiude sedici inediti in cui Rocco si lascia finalmente andare; il suo rap è melodicamente morbido ma i testi lasciano trasparire un’anima forgiata da una crescita individuale vissuta all’insegna del rispetto dei valori sani. Rocco Hunt vive a Milano ma la sua testa e la sua penna sono ancora ben radicate a Sud e, se durante la presentazione del disco sulla Darsena di Milano, il giovane rapper parla in napoletano, nell’album è proprio questa lingua che si riveste di autorevolezza ed autentica credibilità. Tanti i featuring che arricchiscono le molteplici sfumature di questo lavoro: Clementino, J-Ax, Guè Pequeno, Neffa, Mario Biondi, Enzo Avitabile, Chiara, Speaker Cenzou, O’ Zulù, Luchè, Nazo,Zoa, Maruego e Chief hanno preso parte alla realizzazione di questo disco conferendogli una maggiore completezza e testimoniando la maturità artistica con cui Rocco Hunt si sta interfacciando con il mercato musicale italiano.
Intervista
“SignorHunt” è un disco libero?
A differenza del disco precedente, imprescindibilmente legato al Festival di Sanremo, non ho sentito la tensione di dover omaggiare “Nu juorno buono”. All’epoca avevo 18 anni, ero più chiuso in me stesso, mi facevo consigliare spesso. In questo caso, invece, non ho avuto paura di assumermi la responsabilità delle mie scelte. Non temo critiche e pregiudizi, esco con un album che non pretende altro che essere ascoltato.
Come sei cambiato in questi anni?
Oggi vivo a Milano ma la mia scrittura è legata ancora e soprattutto alla mia terra. Nel frattempo mi sono innamorato, ho scoperto per la prima volta l’amore. Anche in questo disco parlo dell’amore ma non in modo omologato.
Nel booklet del disco precedente c’erano le foto di posti a te molto cari, come ad esempio casa di tua nonna. In questo nuovo lavoro c’è qualcosa di simile?
Sì, ci sono degli scatti che ritraggono me da piccolo. Lo shooting fotografico è stato fatto interamente a New York ma avevo bisogno di integrare il tutto con qualcosa che parlasse di me. Quando mia madre ha saputo che avevo bisogno di alcune foto, si è messa a cercare dappertutto. All’epoca era difficile scattare foto sia per questioni di tempo che di costo. Ho scelto una foto della recita dell’asilo, una in cui avevo tre anni con un murales dietro di me con la scritta hip hop, una sorta di segno del destino. Ho voluto rivivere un’epoca ormai estinta. Ringrazio i miei genitori che, con i loro sacrifici, mi hanno fatto crescere con poco ma dandomi tutto.
Rocco Hunt
Come sei riuscito a duettare con Neffa?
In questo brano abbiamo invertito le parti. Lui, che parte dal rap e che ha sempre avuto chi gli costruiva le melodie, stavolta l’ha realizzata per me. “Se mi chiami” è un brano radiofonico ma anche introspettivo. Un pezzo che emoziona e che parla dell’amore autentico. Personalmente lo consideravo un featuring impossibile perché Neffa collabora con pochissimi artisti. La cosa più bella che mi ha detto è stata che tra tutte le collaborazioni fatte di recente, quelle in cui si è sentito più coinvolto sono state quelle realizzate con me e Ghemon.
Come mai hai scelto Chiara?
Il disco ha molti ospiti che hanno a che fare con la mia terra. Con Chiara, che è veneta, ho voluto creare un ponte di collegamento con il nord ed il risultato è molto originale. Sentirete una Chiara molto diversa da quella che conoscete!
Stupisce il duetto con Mario Biondi…
Alcuni mi hanno chiesto: “Cosa c’entra Mario Biondi in un disco come il tuo?”. Vorrei sottolineare che l’hip hop in America parte dalla musica black, dal soul e dal funk. Se in Italia vogliamo pensare a una persona che fa questo tipo di musica, andiamo direttamente da Biondi. La cosa di cui ci si dovrebbe meravigliare non è il fatto che io abbia collaborato con Mario bensì che nessun’altro lo abbia fatto.
Una delle collaborazioni più belle è quella con Enzo Avitabile su “Eco del mare”. Un messaggio di speranza forte e chiaro.
Credo che non possa esserci un mio album senza il contributo di Enzo Avitabile. Il Maestro è una persona squisita e, a differenza di tanti altri grandi artisti di grande successo, si mostra sempre aperto a nuove intuizioni, ho potuto dirgli cosa non mi piaceva e viceversa. In questo modo c’è stato un reale scambio reciproco.
Un legame a doppio filo con la scuola napoletana?
In futuro amplierò ancora di più le conoscenze della scuola napoletana perché la mia aspirazione è diventare uno dei baluardi di quella corrente musicale che ha fatto diventare grande Napoli nel mondo. Parlo di Pino Daniele, Tullio De Piscopo, James Senese, lo stesso Avitabile. Io nasco da loro e con la mia musica cerco di creare un ponte di collegamento tra generazioni lontane.
Per quanto tempo hai lavorato al disco? C’è qualcosa che hai inserito o tolto all’ultimo momento?
L’album è stato lavorato in un anno e mezzo. Per fortuna sono molto prolifico, scrivo molto. In effetti ho già quattro pezzi pronti per il prossimo disco (ride ndr). Stare fermo mi debilita! Per questo disco ho voluto prendermi molto più tempo e me ne sarei preso ancora. Vengo dagli ottimi riscontri ottenuti da “A’ Verità” però non sono molto bravo nelle strategie, mi lascio consigliare spesso. Ho tolto tre tracce dall’album che non sentivo mie e, anche per questo, mi sento ancora più fiero del risultato raggiunto.
Rocco Hunt
Nell’ultimo brano “’Na stanza nostra” parli del desiderio di paternità, come mai?
Il brano riprende la storia dei miei genitori. Mia madre mi ha avuto quando aveva 18 anni, quindi giovanissima. Era orfana, il suo sogno era quello di avere una stanza con mio padre in cui potermi crescere. La cosa non era economicamente possibile, infatti i primi anni della mia vita li ho vissuti a casa di mia nonna fino a quando mio padre non ha trovato un lavoro dopo tanti anni di disoccupazione. “’ ‘Na stanza nostra” è il sogno di tutti i ragazzi di strada che vogliono avere una stanza in cui le paure non posso entrare, in cui crescere una creatura dando vita al futuro della propria famiglia, una cosa che attualmente è sempre più difficile da realizzare. Ho scelto come questa canzone come ultima traccia perché racchiude un sogno.
La title track “SignorHunt” è un gioco di parole ma racchiude anche un messaggio che esce fuori dal coro?
Menomale che è stato capito! Ho fatto ironia su me stesso e mi sono messo in gioco. Ho voluto fare lo sbarco in Darsena nel video con Maccio Capatonda ndr), proprio per dare una scossa. Che faremmo se lo sbarco avvenisse da noi a Milano? Tutto è relativo finchè non avviene a casa nostra, un tipico ragionamento italiano. Certo, non posso risolvere il problema, posso solo denunciarlo e fare sì che i miei coetanei e le persone che mi seguono siano consci della situazione che viviamo.
Tornerai a scrivere pezzi come “Pane e rap”?
Quei pezzi così ho smesso di farli perché la gente purtroppo non li capisce. Mi demoralizza stare tre ore a scrivere un pezzo mega incastrato, mega metrico per poi farlo uscire e vedere che non funziona. Con pezzi più orecchiabili e più melodici ottengo molti più risultati, la gente non è pronta per canzoni così. Un po’ mi dispiace perché vedo che in America i rapper passano in radio con la propria arte senza scontrarsi con stereotipi e pregiudizi.
Suoni ricchi, corposi e stratificati popolano gli ambienti immaginifici di “Elements”, il nuovo album di Ludovico Einaudi, pubblicato il 16 ottobre 2015 su etichetta Decca Records – Universal Music Group, a due anni di distanza da “In a Time Lapse”. Questo progetto è il frutto di un lungo lavoro progettuale che ha spinto Einaudi a sperimentare mettendosi ancora una volta in gioco attraverso un complesso processo di ricerca sonora e concettuale. “Elements” è una potente e suggestiva miscela di suoni, immagini, pensieri e sensazioni. Punti, linee, figure, frammenti confluiscono all’interno di un unico discorso musicale che si avvale di piano, archi, percussioni, chitarra ed elettronica. Oltre alla presenza del gruppo ormai stabile di Ludovico, tra cui Francesco Arcuri, Marco Decimo, Mauro Durante, Alberto Fabris, Federico Mecozzi, Redi Hasa, l’album si avvale della collaborazione dell’ensemble d’archi olandese Amsterdam Sinfonietta, del musicista elettronico berlinese Robert Lippok, dei percussionisti dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, del percussionista brasiliano Mauro Refosco e del grande violinista sudafricano Daniel Hope, ospite nel brano di apertura “Petricor”.
Intervista
Descrivendo la genesi di “Elements” ha parlato di una sorta di confusione iniziale in cui ad un certo punto gli elementi hanno trovato un equilibrio ben definito. Come è andata?
In ogni mio progetto cerco sempre un tema, un’ ispirazione su cui riflettere. Ogni volta la musica fa da cornice a tutte le idee che mi vengono in mente. In questo caso mi interessava realizzare un progetto piuttosto ambizioso, ovvero cercare gli elementi fondamentali del linguaggio e della comunicazione e unirli a tutto ciò che siamo abituati a mettere in gioco in musica: melodia, ritmo e accordo svolgono, in questo senso, una specifica funzione espressiva. Volevo effettuare una sorta di analisi di questi elementi e spiegare il loro funzionamento un po’ come se un architetto dovesse spiegare perché una finestra deve essere fatta in un certo modo invece che in un altro.
Una ricerca che si è estesa anche ad altri ambiti del sapere?
Certo, mi sono avvicinato all’arte, all’architettura, alla geometria euclidea, alla filosofia di Empedocle. Partendo da elementi apparentemente semplici, mi sono avviato verso un’esplorazione sonora e culturale di tipo complesso; per me è stata l’occasione per fare delle letture interessanti e circondarmi di riflessioni e di spunti inattesi. Il fenomeno che mi ha incuriosito di più è stato scoprire come alcune idee possono essere trasformate in un linguaggio musicale via via sempre più strutturato e complesso.
Ludovico Einaudi
Come e dove ha lavorato alla realizzazione dell’album?
Ho iniziato a scrivere e a realizzare i primi esperimenti di questo progetto nel mese di marzo. Dopo aver suonato in Australia e Nuova Zelanda, son tornato in Italia e sono andato nella mia casa di campagna nelle Langhe dove ho convertito un fienile in uno studio di registrazione. Da un lato sapevo di avere una scadenza, seppur lontana; ero conscio del fatto che avrei voluto pubblicare un album in questo periodo, avevo già tante idee, tanti brani erano in stato embrionale, altri erano al vaglio. Dentro il mio telefono ci sono sempre spunti e piccole note che raccolgo mentre sono in giro in tutto il mondo. Ho iniziato a lavorare scrivendo e testando questo nuovo spazio che avevo creato per capire se, in effetti, avrei potuto registrare lì o meno. Ci speravo perché avevo realizzato il pavimento con determinati accorgimenti per espandere il suono ed ottenere una certa acustica. Certo, non è mai possibile prevedere eventuali imprevisti tecnici, invece, già durante le prime prove realizzate con i miei musicisti abbiamo iniziato a registrare. Durante queste prime giornate sono venuti fuori anche nuovi brani del tutto inattesi come “Elements” e “Petricor” e“Numbers”.
In questo lavoro ha collaborato con artisti provenienti da tutto il mondo. Tra tutti, spicca la ritrovata sintonia con il violinista Daniel Hope, presente anche in “Experience”, quinta traccia dell’album “In a Time Lapse”.
Mentre analizzavo e programmavo il resto del lavoro, avevo inizialmente pensato di non utilizzare l’orchestra d’archi poi però ho capito che ci sarebbe stata benissimo e alla fine ho registrato ben quattro brani con l’orchestra di Amsterdam. In seguito, per il violino del brano “Petricor”, ho pensato che sarebbe stato bello collaborare nuovamente con Daniel Hope. In realtà era tardissimo, stavo già mixando il disco ma siamo riusciti a fare una cosa all’ultimo momento. Lui è sempre molto disponibile, era pieno di altri impegni ma mi ha comunque dedicato una mattinata, siamo felici di avercela fatta.
In “Elements” c’è una particolare attenzione verso determinati suoni collegati alle percussioni…
Sì, ho cercato nuove colorazioni attraverso la ricerca dei ritmi presenti nel mondo delle percussioni. Ho usato il vibrafono, in “Four Dimensions” c’è il waterphone, uno strumento di metallo in cui si rovescia dentro dell’acqua determinando diverse modulazioni del suono. Insieme a Mauro Refosco, percussionista brasiliano che vive a New York, e con i percussionisti di Roma, con cui avevo fatto già un altro progetto qualche anno fa, sempre legato a Elements, c’è stato il tempo di investigare, sperimentare, capire. Il fatto di aver potuto fare questo viaggio a casa mia mi ha aiutato a dare un ordine preciso a tutto questo mare magnum di idee.
C’è un brano, in particolare, che rispecchia tutto questo percorso?
Nominarne uno solo mi dispiace sempre un po’. Potrei citare “Four Dimensions” perché è nato dall’osservazione di alcune proporzioni geometrico-matematiche. In particolare, il brano è scaturito dall’osservazione di una figura che al proprio interno aveva la forma del 3 e del 4. Per sperimentare ho usato una melodia di 3 suoni e una di 4 combinandole esattamente come se si trattasse di un esperimento scientifico o di un processo chimico. Osservando il risultato, l’ho valutato musicalmente interessante e ho ritenuto fosse in grado di rispecchiare anche la mia più profonda interiorità. Questo brano mi permette di sintetizzare la natura sperimentale del disco e di spiegare il modo in cui alcuni brani sono nati attraverso un processo di sviluppo graduale delle idee.
Dal 16 ottobre è in rotazione radiofonica il brano “Sei tu l’immenso amore mio”, il primo singolo del cantautore Umberto Tozzi che segna il suo ritorno sulle scene musicalieanticipa il nuovo album di inediti “Ma che spettacolo ” (Momy Records – distribuito Sony Music)in uscita il 30 ottobre. L’album contiene 13 tracce inedite, una bonus track e il DVD live.
Il disco è in pre orders su Itunes e Amazon, mentre dal 30 ottobreil disco sarà disponibile nei negozi tradizionali, in digital download e su tutte le piattaforme streaming.
Il video, disponibile in anteprima sul canale Vevo e visibile a questo link http://vevo.ly/JXcDhv, è stato scritto e diretto da Paolo Rossini e ambientato nella romantica città di Venezia con protagonista la conduttrice e attrice Elisabetta Gregoraci.
«“Sei tu l’immenso amore mio” è ispirato a una storia vera – racconta Umberto Tozzi – cercavo di raccontare una storia, ma non sapevo ancora quale, così ho provato un giro armonico strumentale e ho trovato la giusta melodia, l’ho provato e riprovato e ad un tratto, ho ripensato alla storia di un amore passato e di quanto siano incancellabili, per noi, i momenti vissuti con la persona che si è amata veramente. Un perfetto incontro tra parole e musica»
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