Alessandro Mannarino – Apriti Cielo tour ph Maria Luisa Avella
Il 2017 è l’anno di Alessandro Mannarino, sempre più sovrano del palcoscenico. A poche ore dalla seconda delle tre date milanesi del suo ultimo “Apriti Cielo Tour”, ci si ritrova a fare un entusiastico bilancio di un concerto pensato come un lungo, coloratissimo e travolgente viaggio carnascialesco. Mettendo insieme i tasselli più importanti dei quattro album che compongono la sua discografia, Mannarino ha messo in piedi le trame di una storia, quella di un’umanità che fugge: dalla tristezza, dal dolore, dalle sconfitte. Per farlo si fa accompagnare dalle voci di Azzurra, Ylenia e Simona Sciacca e da una spettacolare band di nove elementi composta da Puccio Panettieri, Alessandro Chimenti, Giovanni Risitano, Paolo Ceccarelli, Niccolò Pagani, Mauro Menegazzi, Renato Vecchio, Antonino Vitali e dal noto percussionista brasiliano Mauro Refosco. Destreggiandosi con maestria e carisma in un carnevale di anime controverse, Mannarino cerca di restituire valore e dignità agli ultimi. Come? Attraverso il rifiuto di arrendersi, lo stesso raccomandatogli dall’affezionatissimo nonno, indimenticabile maestro di vita per il cantautore romano.
Alessandro Mannarino – Apriti Cielo tour ph Maria Luisa Avella
In un mondo sempre più disseminato di muri e barriere, la musica di Mannarino è concepita per unire, per demolire preconcetti, etichette e frontiere. E così, tra i quadri di una scenografia fatta di ruote dentate e cieli trapuntati di stelle, si va dai pagliacci, prostitute e barboni del “Bar della rabbia” alle donne forti di “Supersantos” passando per la rottura degli schemi proposta in “Al Monte” fino alla dimensione liberatoria di “Apriti cielo”. Ispirandosi ai ritmi del Brasile e del Sud America, Mannarino ritrova Gilberto Gil, Vinicius De Moraes, Chico Buarque ma non dimentica la potenza evocativa del folk nostrano dando vita ad una irresistibile bolgia multietnica. Tra percussioni, guitalele, banjio, chitarra portoghese, ronroco, chitarra classica, cavaquinho, sitar, fisarmonica, ma anche fiati come sax, tromba, flicorno, flauti indiani, shalumeau e duduk armeno, Mannarino si muove con grazia e naturalezza conquistandosi, meritatamente, gli applausi scroscianti di gente di tutte le età in grado di ritrovarsi nell’universale voglia di verace autenticità.
Raffaella Sbrescia
Alessandro Mannarino – Apriti Cielo tour ph Maria Luisa Avella
“Il secondo cuore” è il nuovo album di inediti di Paola Turci. Prodotto da Luca Chiaravalli su etichetta Warner Music Italy, il nuovo progetto discografico della cantautrice romana arriva dopo la trionfale partecipazione della cantautrice romana al 67esimo Festival di Sanremo e rispecchia un momento molto bello della sua vita. Le 11 tracce realizzate in co-scrittura con Giulia Ananìa, Marta Venturini, Fabio Ilacqua, Niccolò Agliardi, Enzo Avitabile, lo stesso Chiaravalli e Fink testimoniano una lavorazione fatta di incontri felici e ispirati. Paola Turci fa pace con la parte più inquieta di sé, si lascia finalmente andare e ce lo racconta lei stessa.
Intervista Ciao Paola, il tuo ritorno discografico è tra i più attesi di questa stagione. Come ti senti?
Questo è il disco che non ho mai fatto, è il frutto della realizzazione di me stessa. La musica mi riappacifica con me stessa, mi dà stimoli nuovi. Questo è un album di co-scrittura, un ‘esperienza che mi fa sentire forte, che mi ha permesso di avere un confronto affermando anche me stessa al contempo. Prima avevo difficoltà nell’affrontare persone, pensieri, caratteri, personalità diverse da me. Qui ho avuto la fortuna di avere confronti molto aperti, gentili, costruttivi con persone che mi amano e che mi vogliono bene. Uscita dal limbo e presa di coscienza sono i movimenti che fanno da filo conduttore un po’ a tutti i brani di questo album. In ogni canzone c’è la mia storia, mi sono finalmente lasciata andare, ho riaperto le chiusure, ho superato le paure che avevo nello scrivere. Insomma questo è un disco felice che afferma il mio stato d’animo, la mia situazione attuale.
Tutto nasce dalla tua prima canzone in dialetto “Ma dimme te”
Sì, questa è la prima canzone che ho realizzato per questo disco ed è anche la miccia che ha acceso il tutto. Quando ho ritrovato la Warner Chapell, mi sono stati fatti i nomi di alcuni autori con cui poter lavorare e mi sono scoperta subito entusiasta di lavorare in co-scrittura. Nello specifico ho lavorato con Giulia Ananìa e Marta Venturini. Visto che Giulia abita vicino a casa mia, un giorno mi è venuta a prendere a casa e, mentre ero in macchina con lei per andare in studio, abbiamo cominciato a parlare dell’idea di scrivere una canzone in romanesco, si trattava di una cosa che volevo fare da diverso tempo. Ho pensato a Gabriella Ferri, Anna Magnani, Chavela Vargas, quindi ci siamo messe a scrivere. Io ero con la mia chitarra, lei era al pc e in un paio d’ore è venuta fuori questa canzone che ho subito cantato e registrato. Ero un fiume in piena, sono partita da un semplice la minore, così come si sente nel disco. Questa canzone rappresenta un po’ quello che è per me la musica: impatto emotivo fortissimo, un rapporto viscerale con le mie radici. Scriverla è stato facile perché ho attinto alla vita, ad un’icona che mi ricorda mia nonna, a quel tipo di donna forte che ha sofferto nella vita. La canzone è nata da una poesia di Giulia Anania, intitolata “L’amore è un accollo” e subito mi sono immaginata un interlocutore, ho pensato a un rappresentante della romanità con un fascino di quelli da playboy e ho subito contattato Marco Giallini perché secondo me era perfetto.
Un ruolo chiave l’ha svolto Luca Chiaravalli…
Luca Chiaravalli è stata la scoperta della mia vita, ha una vitalità, un’energia, una gioia di vivere che mi hanno contagiata. Ci siamo parlati tantissimo e ci siamo sentiti molto uniti. Ho sempre amato le persone che hanno fatto delle loro difficoltà un punto di forza, le persone grate alla vita, Luca è così e anche io sono così. Penso che tutto quello che arriverà da adesso in poi sarà un grande regalo. Per ora aver fatto pace con la me più inquieta è un grande regalo. In questo disco ho cantato come non ho mai cantato, ci siamo emozionati insieme, è stato un incanto dopo l’altro, non smettevamo di sorprenderci di come stessero venendo fuori queste canzoni dirompenti anche per noi.
In che senso hai cantato come non hai mai fatto?
Luca ha messo in evidenza quella parte di me che è emersa quando ho cantato “Ma dimme te”. La prima volta che ho cantato “Fatti bella per te” nella tonalità che ha scelto lui temevo mi andasse via la voce, il giorno dopo in uno studio affittato al volo di domenica a Roma, ho cantato con poca voce ma Luca era felicissimo e quella voce è rimasta. Nel disco ci sono molte take che hanno una voce alla buona la prima.
Paola Turci ph Luisa Carcavale
Cosa ci racconti di “Ci siamo fatti tanti sogni” scritta insieme a Diego Calvetti?
Questa canzone mi ha sorpreso molto perché voleva raccontare una cosa ma ha finito per raccontarne un’altra. Il fulcro è una storia che non riusciva a risolversi e che ho vissuto in prima persona. Con Calvetti l’idea iniziale era più legata al sociale.
Come mai hai scelto di inserire la cover di “Un’emozione da poco” anche nell’album?
Questa canzone mi è venuta in mente dopo “Fatti bella per te”, ho pensato a una canzone che avesse grinta, che fosse struggente ma che mi permettesse anche di esprimere le mie capacità interpretative. Canto spesso certe canzoni che uno non si aspetta che io canti.
Sfrecciano i ricordi tra grovigli di emozioni nel testo de “La vita che ho deciso”…
Questa canzone è dedicata alla musica e ripercorre un po’ delle immagini di me piccola, di me in crescita. Man mano che scorrono le immagini il cuore e fulcro di tutto rimane sempre la musica. La musica davanti al mare di Porto Ercole, la spiaggia dove sono sempre andata, dove ho cominciato a suonare è un’immagine che mi porto dentro ed è la più bella che ho, quella che mi fa sognare davvero.
Una delle canzoni più vicine alla tua storia è “Combinazioni”
Dopo anni io e Niccolò Agliardi siamo riusciti a scrivere insieme. Lo conosco fin dai miei esordi, veniva ai miei concerti e poi diventato un grande autore. Stavolta ha fatto centro probabilmente grazie al libro che ho scritto e alla storia che ho reso pubblica. Nel testo ci sono dei precisi rimandi alla mia vita tra imprevisti, coincidenze e sliding doors.
Come è nata la collaborazione con Fink?
Questa è l’ultima canzone che abbiamo scritto in questo disco. Anche qui c’è stata una combinazione felice: ho conosciuto Fink un paio di anni fa, l’ho visto in concerto a Roma, sono andata a salutarlo in camerino e in quell’occasione mi ha proposto anche di fare qualcosa insieme chiedendomi se cantavo anche in inglese. Successivamente ho fatto un disco antologico quindi ho lasciato stare fino a quando un giorno in studio Luca Chiaravalli mi ha parlato proprio di lui. Un attimo dopo ho scritto a Fink proponendogli di venire a Roma per un paio di giorni per provare a fare qualcosa insieme liberamente. Lui ha subito accettato, è arrivato in studio e abbiamo cominciato a scrivere il pezzo firmandolo in 4. Sublime è un aggettivo altissimo che a me fa molto effetto.
A proposito di incontri, molto importante è stato quello con Enzo Avitabile
L’incontro con Avitabile è stato determinante perché ha fatto sì la mia più grande passione diventasse il titolo del disco che è tratto proprio dal suo testo “Nel mio secondo cuore”. Dopo i miei esordi, io ed Enzo ci eravamo persi, gli scrissi un tweet quando ascoltai “Lotto infinito”, lui lo lesse e mi cercò dichiarandomi la sua stima; un fatto reciproco che ci ha dato la voglia di fare le cose insieme. Questo, per noi, è un anello di congiunzione.
Cosa è cambiato all’interno del tuo percorso?
Tutto è successo in un breve lasso di tempo che a me è sembrato lunghissimo. La scrittura del libro “Mi amerò lo stesso” mi ha aperto una nuova prospettiva. Poi il ritorno in scena con il monologo ha segnato l’avvio di un vero e proprio percorso.
Qual è stato l’ostacolo più grande per te?
Togliermi i capelli dalla faccia. Nascondermi mi ha fatto soffrire fino a quando non ho trovato il coraggio di dichiararlo.
Come hai vissuto questo Festival di Sanremo?
Quando scrivi una canzone è inevitabile che il punto di partenza sia l’autoriferimento. “Fatti bella per te” contiene un messaggio preciso, mostra il mio sentire e il mio essere. Sarà per questo che il pubblico ha recepito in maniera forte la mia credibilità, la mia storia sostiene la canzone, in ogni caso non mi aspettavo una reazione così forte e così bella. A Sanremo ero molto concentrata. Ho voluto godermi il momento e fare le cose al meglio per poter trasmettere questo mio momento di equilibrio. A 53 anni mi sento più a fuoco, più forte e più leggera di prima.
Il prossimo 11 aprile ti esibirai sul palco del Teatro Manzoni a Bologna, a favore della Fondazione Francesca Rava NPH Italia insieme a Paolo Fresu. Cosa stai preparando?
Ho incontrato la Fondazione grazie a mia sorella Francesca che opera da anni al suo interno. Mi ha portato 3 volte ad Haiti e ogni volta che mi chiede di fare qualcosa, rispondo sempre con grande slancio. Stavolta abbiamo coinvolto anche Fresu. Mentre 4 anni fa facemmo un concerto a Firenze improvvisando tutto il tempo, questa volta faremo qualcosa di più strutturato. Paolo ha un grande cuore, è venuto anche lui ad Haiti e faremo qualcosa di molto speciale.
Come ti trovi a cantare senza chitarra?
La chitarra è sempre stata la mia coperta di Linus. Ai primi tempi della mia carriera quando suonavo senza strumento mi sentivo agitata, mi muovevo in continuazione, oggi invece sento tanta forza e, anche da ferma, percepisco una carica che mi travolge e che mi spinge verso il pubblico. Non vedo l’ora di suonare sul palco e sprigionare tutta questa intensità.
Raffaella Sbrescia
Dal 31 marzo Paola Turci incontrerà i fan negli store delle principali città italiane : il31 Marzo a ROMA (Feltrinelli, Via Appia Nuova, 427 – h. 18.00), l’1 Aprile a FIRENZE (Feltrinelli Red, Piazza della Repubblica – h. 17.00); il 2 Aprile a BOLOGNA (Mondadori, Via Massimo D’Azeglio, 34,a – h. 18.00), il3 Aprile a TORINO (Mondadori, Via Monte di Pietà, 2 ang. Via Roma – h. 18.00); il 4 Aprile a MILANO(Feltrinelli, Piazza Piemonte, 2 – h. 18.30); il 5 Aprile a NAPOLI (Feltrinelli, Piazza dei Martiri – h. 18.00); il 6 Aprile a BARI (Feltrinelli, Via Melo, 119 – h. 18.30); e il 7 Aprile a PALERMO (Mondadori – Via Ruggero Settimo, 16 -h. 18.00).
Da maggio Paola Turci sarà in tour per importanti eventi live:
SABATO 6 MAGGIO – TODI – Teatro Comunale (data zero)
MARTEDI’ 9 MAGGIO – Roma, Auditorium Parco della Musica
MARTEDI’ 16 MAGGIO – Fermo, Teatro Dell’Aquila
MERCOLEDI’ 17 MAGGIO – Trento, Auditorium Santa Chiara
LUNEDI’ 22 MAGGIO – Milano, Auditorium La Verdi -Fondazione Cariplo
MARTEDI’ 23 MAGGIO – Reggio Emilia, Teatro Valli
MERCOLEDI’ 24 MAGGIO – Vicenza, Teatro Comunale
DOMENICA 2 LUGLIO – Torino, Festival d’Estate c/o Piazzetta Reale
VENERDI’ 11 AGOSTO – Marina di Pietrasanta (LU), Teatro La Versiliana
“JAZZ&REMO IL FESTIVAL è il progetto discografico di BRUNO SANTORI musicista, pianista, direttore d’orchestra, arrangiatore e compositore italiano. Nato dalla volontà di accorciare le distanze tra due generi musicali (jazz e pop), l’album rappresenta un omaggio alla grande tradizione musicale sanremese ottenuto rielaborando in chiave jazz i più grandi successi della kermesse. Prodotto da BRUNO SANTORI e Zenart, pubblicato da Solomusicaitaliana (etichetta discografica di Radio Italia) e distribuito da Sony Music, il disco vede la partecipazione di Fabio Crespiatico (basso elettrico), Stefano Bertoli (batteria) e Giulia Pugliese (voce) giovane scoperta che nel 2015 ha partecipato a “The Voice of Italy”.
Intervista
Maestro, da cosa nasce l’idea di questo progetto e con quali prospettive l’album si colloca all’interno del panorama musicale nazionale?
All’interno del panorama nazionale toccherà farci spazio perché la rielaborazione musicale non è poi cosa così diffusa. Per quanto mi riguarda, si tratta di un aspetto da sempre insito in me. Anche nel 2009, quando sono stato direttore musicale del Festival insieme a Bonolis, ho realizzato delle aperture che lasciavano convivere un requiem di Mozart con “Another brick in the Wall” dei Pink Floyd. Ho sempre voluto andare verso qualcosa che ancora non era stato fatto ma è anche vero che da sempre sono arrangiatore di musica pop. Visto che da diversi anni coltivo anche la passione il jazz, mi sono preso un periodo per poterla sviluppare. L’anno scorso festeggiavo i 40 anni dal mio primo Festival di Sanremo quindi ho pensato di ricordare questa ricorrenza facendo un tributo al festival in jazz.
Come ha lavorato al progetto?
Mi sono messo al pianoforte per 4 mesi, ho rielaborato una ventina di brani dal festival, da lì è stata fatta un’accurata selezione insieme a Fabio Caspiatico, Stefano Bertoli e Giulia Pugliese. Per quanto riguarda la scelta della cantante, all’inizio cercavo una voce più matura perché pensavo che nel jazz servisse una vocalità diversa, la presenza del pop invece mi ha spinto a fare in un altro modo. I primi quattro mesi di lavoro li ho passati modificando le strutture armoniche e ritmiche dei brani cercando di non perdere l’originalità della canzone stessa, rispettandone la linea melodica e la riconoscibilità.
Che rapporto ha con il jazz?
Il jazz per me è la musica classica contemporanea. Se ripensiamo a Beethoven o Bach, capiamo subito quale possa essere il senso e il valore di un componimento estemporaneo non etichettabile. Sicuramente non avrò il plauso dei jazzisti puristi eppure credo di essere riuscito a portare la musica colta in un contesto più ampio. Ho voluto aggiungere un po’ di eleganza in un momento in cui ce n’è sempre più bisogno. Nel mio piccolo credo di avere dato un piccolo contributo affinchè si aprano nuovi scenari, anche Mario Biondi sta facendo musica pop con un piglio jazz.
E con il Festival di Sanremo?
In questo caso si parla di un rapporto di odio-amore. Non lo sto più cercando, l’ho un po’ allontanato dalla mia vita. Ad oggi credo che il Festival si stia macchiando del peccato della televisione, penso che si debba riportare all’attenzione del pubblico il valore artistico non solo di chi partecipa ma di chi in realtà produce questo evento. Al momento è un pò come portare un quadro di Van Gogh in un grande magazzino. Sono le strutture televisive a soffocare il valore artistico delle canzoni, anni fa poteva accadere che l’ultimo classificato potesse essere Vasco Rossi, oggi l’ultimo classificato non se lo fila più nessuno, a questo punto quello che ne esce suona molto come musica di regime; questo è quello che mi preoccupa del Festival.
JAZZ&REMO_M° Bruno Santori
Si ritiene un fautore del ritorno alla qualità?
La mia vita è stata soprattutto all’insegna dello studio della musica, non potrò mai essere quel musicista che cerca di colpire un bersaglio che rientra nell’ambito del marketing, per me la musica è l’espressione dell’umanità, un levare in alto sia per chi la fa che per chi l’ascolta, non mi interessa quanti dischi venderò, non mi interessa il successo ottenuto con atti di furbizia o fine a se stesso.
Il ministro del turismo dell’isola, Dr. Edward Zammit Lewis le ha conferito il titolo di “TOURISM AMBASSADOR OF MALTA”. Come vive questa nuova veste?
Sto lavorando alla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e culturale di una piccola grande nazione che da sempre è crocevia strategico del Mediterraneo. A questo proposito ho proposto alle più alte cariche dello Stato di intraprendere un percorso di interculturalità musicale mirato all’integrazione bilaterale tra i popoli e ho subito riscontrato una grande disponibilità. Malta rappresenta una grande opportunità per un nuovo modo di intendere la musica e mi spenderò molto per far sì che questo possa accadere.
Considerando la sua lunga e prestigiosa esperienza, come pensa sia cambiata nel tempo la figura del direttore d’Orchestra e cosa pensa del nuovo trend che vede tanti nuovi giovani maestri a dirigere sul podio?
Spesso vedo giovani direttori d’Orchestra dirigere orchestre storiche e, sebbene io rispetti molto i giovani e li sostenga da sempre, ritengo che il ruolo di direttore d’orchestra sia quello di una persona matura che con la propria esperienza possa impostare il suono dell’orchestra attraverso il proprio spessore personale. Sinceramente non posso pensare che questo possa accadere con un giovane di 20 anni, l’orchestra ha bisogno di qualcuno che produca un pensiero alto, altamente professionale e di grande esperienza. Il ruolo del direttore d’orchestra non va ripensato, penso piuttosto che vada capito il significato del suo ruolo e quali sono i motivi per cui debba essere scelta una persona invece di un’altra.
Raffaella Sbrescia
BRUNO SANTORI presenterà live “JAZZ&REMO IL FESTIVAL” nel corso del Kaz Jazz Fest 2017che si terrà tra il 7 e il 17 settembre a Bodrum (Turchia) e il 14 ottobre durante il Candle Festival di Birgu a Malta.
Questa la tracklist del disco: “E non finisce mica il cielo”; “Quello che le donne non dicono; “E poi”; “Cambiare”; “Ancora”; “Adesso tu”; “Luce”; “Vacanze Romane”; “Il cuore è uno zingaro”; “Volare”; “Le mille bolle blu”.
Esce oggi “Vulcano”, il nuovo album d’inediti di Clementino, il quinto da solista. Il disco contiene 13 tracce e rappresenta una precisa fase artistica del rapper che in questo lavoro ha voluto mettere a fuoco se stesso e la propria carica adrenalinica senza alcun featuring e con l’ausilio di tante nuove sonorità.
Intervista
Qual è il filo conduttore che lega le tracce di questo tuo nuovo lavoro?
Mi circondo sempre di tanta napoletanità. La cosa è testimoniata dal titolo dell’album: “Vulcano”. Il legame non è solo con il Vesuvio ma anche con la mia dirompente personalità. Con questo album ho cercato di riprendere il discorso di “Napoli Manicomio”. Negli ultimi 10 anni ho dato le mie strofe praticamente a tutti. Ho fatto decine di featuring ma ora ho detto basta, adesso è il momento di concentrarmi solo su di me. Un po’ come facevano gli umanisti: ci sono io al centro di tutto (ride ndr).
In queste nuove canzoni c’è tanto dialetto, non temi di perdere del potenziale pubblico?
Nelle mie canzoni mi muovo alternando italiano e dialetto cercando di creare il giusto equilibrio. In ogni caso anche se vado a cantare a Treviso, il pubblico vuole “Clementino ca spacc’ e vetrine”. Tra l’altro con il grande successo di alcune serie tv, il napoletano è stato ormai sdoganato ovunque.
Come ti approcci alla scrittura?
Non scrivo mai senza base, non ci riesco. A seconda dell’atmosfera, scrivo cose diverse.
In questo album ci sono dei suoni molto variegati con ampi riferimenti alla tradizione napoletana…
A differenza dei miei lavori precedenti in cui cercavo di fare le cose che piacevano agli altri, stavolta ho cercato le cose che piacevano a me. “Vulcano” rappresenta me stesso: ci sono beats anni ’90, beats napoletani, un pizzico di trap e una manciata di richiami alla West Coast dove sono stato di recente.
Nelle tue canzoni parli spesso dei più giovani, che tipo di responsabilità senti di avere?
Non mi sono autonominato voce di una città o dei giovani. Sono il rapper che è ascoltato dalla mamma e dalla fidanzata. Ho fatto l’animatore turistico per 12 anni, ero l’outsider che copriva tutti i ruoli, lo sono anche nel rap perché abbraccio tutti i temi. D’altronde le mie iniziali parlano chiaro: MC sta per maestro di cerimonie. Da bambino salivo sul tavolo con la penna a mò di microfono e facevo lo show di Clemente, i miei genitori recitano fin da quando ero piccolo ed è forse anche per questo che ho sempre sognato il palco. Mi faccio portavoce di un genere ben definito: il black pulcinella, un tipo di musica che unisce l’eredità lasciata da Pino Daniele al mondo hip hop. Mi sento un vero Pulcinella: allegro fuori e triste dentro. Il disagio psicologico lo tiro fuori attraverso la musica. Vengo dalla terra dei fuochi, un posto dove i ragazzi hanno pochissime possibilità e anche se qualcosa si sta iniziando a muovere, ci vorranno anni prima che la gente possa smettere di morire per mano della criminalità. A Cimitile ho aperto una scuola calcio per bambini, la “Iena Soccer Academy”, con il ricavato di ogni torneo compriamo defibrillatori e macchinari per gli ospedali; cerco di muovermi il più possibile per il sociale. C’è il Corriere della Iena, poi c’è l’iniziativa denominata “I messaggeri del Vesuvio” in cui invito i giovani emergenti a rappare con me.
Com’eri da adolescente?
Sono sempre stato molto disordinato e con la testa per aria. A scuola venivo continuamente ripreso perché mi perdevo in una sorta di torpore da sognatore incallito. Ho viaggiato molto, con la testa e non. Quando ho cominciato a fare le gare di freestyle affrontavo lunghissimi viaggi ma non mi sono mai fermato. Ho fatto tante comparse in teatro e qualcosa anche al cinema poi, però, le cose si sono ribaltate da un momento all’altro.
Sfizioso il video del nuovo singolo “Tutti scienziati”…
L’idea è di mio fratello Paolo. Abbiamo pensato dapprima a Emmett Brown di “Ritorno al futuro”, poi a Frankestein Junior e infine a Leonardo da Vinci. Abbiamo fatto riferimento a “Non ci resta che piangere” senza scimmiottare Troisi e Benigni, ci siamo solo ritrovati a vivere la loro esperienza. Poi abbiamo coinvolto i The Jackal con la loro parodia de “Gli effetti di Gomorra sulla gente” e ci siamo divertiti davvero molto. Con questo video mi è venuta voglia di fare cinema, magari con un bel ruolo comico. Ho studiato all’Università dello Spettacolo e mi sono laureato con il massimo dei voti. I miei genitori recitano il repertorio di De Filippo e Scarpetta, mi piacerebbe avere qualche ruolo da recitare anche se nelle mie esperienze precedenti interpretavo sempre me stesso. Per ora, in ogni caso, mi concentro sul rap che rimane la cosa che so fare meglio.
A proposito di cinema, come mai hai dedicato un brano al regista Paolo Sorrentino?
Tempo fa sono stato a casa di un amico che aveva il cofanetto con tutti i suoi film. Li ho guardati tutti, uno dopo l’altro e mi sono innamorato di Sorrentino. All’inizio la canzone si chiamava “L’uomo in più”, poi l’ho intitolata con il nome del maestro che, proprio ieri mattina, mi ha telefonato per ringraziarmi. Abbiamo parlato tutto il tempo in dialetto, gli ho promesso di raggiungerlo a Roma per stringergli la mano.
Clementino
Il tuo contributo all’interno del docufilm dedicato a Pino Daniele è stato uno dei più apprezzati. Che ricordo hai di lui?
Pino è stato il mio maestro, ho scritto una canzone per lui mettendo nero su bianco un flow che mi usciva direttamente dal cuore. Quando Verdelli mi ha chiesto di partecipare, ho voluto recitare a cappella quei versi, sono l’ultimo artista con cui Pino ha collaborato e conservo un prezioso ricordo di quando lo incontrai, terrorizzato, per la prima volta. Sono davvero onorato di aver avuto la preziosa possibilità di collaborare con lui, ascolto ancora oggi le sue canzoni, me lo sono persino tatuato sulla pelle. Cercherò di mettere sempre qualche suo verso nella mia musica.
Una delle canzoni più forti del disco è “Spartanapoli”.
Difficilmente scrivo roba incazzata, questa è una storia di strada. Il rap è verità e io cerco di mettere nero su bianco quello che vedo per strada.
Potente il dissing virtuale che proponi in “ ‘A capa sotto”
In effetti c’è tanto “explicit content” ma il freestyle è una cosa che fa bene, la sana competizione è la linfa dei rapper.
Che fine farà l’amata cover “Svalutascion”?
Dopo il plauso dell’orchestra sanremese mi aspettavo un destino diverso per questa canzone. L’arrangiamento l’aveva resa simile alla colonna sonora di un film di Tarantino, spero di riuscire a portarla nei miei nuovi live. A proposito, a maggio partirà la mia tourneè europea, poi da giugno a settembre girerò l’Italia. Stare con il pubblico è la mia forza, sono uno del popolo.
Raffaella Sbrescia
La tracklist di “Vulcano”
UE’ AMMO (prodotto da Deliuan)
STAMM CCA’ (prodotto da TY1)
CENERE (prodotto da Shablo)
TUTTI SCIENZIATI (prodotta da Marz)
KEEP CALM E SIENTETE A CLEMENTINO (prodotto da Amadeus)
RAGAZZI FUORI (prodotto da Shablo e Zef)
DESERTO (prodotto da Shablo)
JOINT (prodotto da Yung Snapp)
COFFEE SHOP (prodotto da Swan)
LA COSA PIU’ BELLA CHE HO (prodotto da Deleterio e Fabrizio Sotti)
I MURI DI BERLINO (Arealive / Warner) è il titolo del nuovo album di MALDESTRO che, dopo aver fatto incetta di premi e riconoscimenti in occasione della sua recentissima partecipazione al Festival di Sanremo 2017, nella categoria Nuove Proposte con il brano “Canzone per Federica”(PREMIO DELLA CRITICA ‘MIA MARTINI’, PREMIO LUNEZIA, PREMIO ENZO JANNACCI, PREMIO ASSOMUSICA e il premio conferito dalla REGIONE BASILICATA per il MIGLIOR VIDEOCLIP), decide di accompagnare chi avrà voglia di ascoltarlo nei meandri di un percorso emotivo fitto e frastagliato. Attraverso una minuziosa cura per la scelta delle parole e un’innata sensibilità, Maldestro scova le crepe esistenziali di ciascuno di noi con il vezzo di una leggiadra melancolia.
Intervista
Antonio, come si colloca questo disco all’interno del tuo percorso artistico?
Comincerei col dire che questo disco lo sento realmente mio perché, nonostante i testi e la musica del primo album fossero comunque miei, non ho avuto modo di lavorare agli arrangiamenti. In questo caso, invece, ho suonato nel disco e ho partecipato anche alla realizzazione degli arrangiamenti mettendo a punto gran parte delle idee che avevo in mente.
Leggendo i testi si evince anche un’evoluzione nel tuo modo di scrivere
Il primo disco era molto più arrabbiato, questo è più tenero. Racconto di sentimenti importanti guardandoli da un’altra prospettiva; c’è una visione più romantica del dolore.
In effetti si nota un mood più riflessivo. Hai cercato di racchiudere in un unico testo una serie di riflessioni che, invece, abbracciano dimensione più vaste. In questo senso la scelta delle parole riveste un’importanza ancora più forte?
Quando scrivo non sto molto a rimuginare. In genere prendo la chitarra e il piano e procedo, raramente vado a modificare qualcosa che ho scritto in modo spontaneo. Di solito scrivo per un’esigenza personale, per liberarmi dai dolori e consumarli. Mi dicono spesso che attraverso i miei testi si riesce a vedere quello che sto raccontando, questo è anche frutto dei miei ascolti (Fossati, Gaber, Dalla).
I Muri di Berlino – album cover
A proposito di questo, cosa ti ha ispirato il testo di “Lucì in un solo minuto”? Nell’unica parola in dialetto che usi in questo album c’è tutto il pathos necessario per rendere in maniera tangibile la forza di un sentimento preciso…
Nella parola Lucì c’è tutta la mia rabbia ma anche tutto il mio amore verso la mia città e verso la mia lingua che ultimamente è stata fin troppo abusata. Ho scelto di raccontare in italiano le mie storie anche se non escludo il napoletano. In questa canzone ho voluto vedere un film e non ho badato a spese per realizzare la chiusura ideale per questo album.
Approfondiamo un attimo la questione relativa all’uso del dialetto…
Ho riflettuto sul fatto che c’è stato chi per anni ha cantato in italiano snobbando il dialetto per poi decidere di seguire la tendenza del ritorno all’uso del napoletano. Per quanto mi riguarda continuo sulla mia strada, ci sono delle canzoni in napoletano che avrei voluto mettere nel disco, ne ho scritte anche parecchie ma poi ho pensato che non c’entravano niente con questo album. Questo sarà un buon motivo per inserirle in un altro progetto. Altre canzoni le sto regalando a persone che mi ispirano e che mi emozionano.
“Sporco clandestino” è un colpo al cuore. Perchè hai deciso di colpire lo spettatore con questa canzone così forte?
Penso che ci sarà qualcuno che questo pezzo lo manderà avanti perché non riuscirà ad ascoltarlo. Ci sono delle cose che vanno raccontate così, senza filtri. Non si può ricamare su argomenti così forti. Io stesso tremo al solo pensarci. Ho scelto un modo diverso per parlare di questo tema, non ho mai sentito parlare di immigrazione dal punto di vista di un bambino. Mi ha sempre colpito l’ipotesi che ad un bambino potesse essere tolta la cosa più bella che abbiamo: la meraviglia. Il pianto straziante di un bambino che a 9 anni cerca di raccontare di quando una bomba gli ha ucciso i genitori mentre lavora in un’officina è stato volutamente scelto per auspicare che i bambini vengano protetti dalla malvagità e dal terrore.
Che rapporto hai con il tempo? Nei tuoi testi sembra sempre un po’ tiranno…
Il tempo fa sempre paura, ci facciamo i conti tutti i giorni e in tutti i momenti, soprattutto quelli belli. Ho paura delle buone notizie perché non riesco a gestirle, penso sempre a quando tutto finirà. La felicità mi mette agitazione perchè non ne conosco la durata, sto sempre lì a pensare che finisca.
Hai fatto una piccola partecipazione nel docufilm dedicato a Pino Daniele. Che ricordo hai di lui?
Con Pino Daniele ho un rapporto strano, lo adoro anche se l’ho ascoltato solo 4 anni fa. Vengo da altri ascolti ma trovo che sia un genio musicale e letterario. Anche se la mia anima è più vicina a Gaber, penso che il primo Pino Daniele abbia detto praticamente tutto ciò che c’era da dire dopo la musica classica napoletana.
Che rapporto hai con i colleghi conterranei?
Non frequento nessuno per vari motivi, sono sempre stato una persona solitaria, ci sono molti personaggi e poche persone. Per me puoi essere Bob Dylan o l’ultimo dei cantautori, a me interessa innanzitutto la persona che sei. Una delle cose più tristi che possa capitare a Napoli è che i colleghi non ti perdonano il successo. Per come la penso io, se un mio conterraneo riesce ad uscire fuori da Napoli affermandosi altrove, ne sono felice e mi sento rappresentato. Aldilà di queste dinamiche, quando poi incontro persone della mia stessa razza, ci instauro legami di sangue.
Ad esempio?
Posso citare i miei fratelli Alessio Sollo e Claudio Gnut. Aldilà della musica, ci siamo sempre sostenuti a vicenda in qualunque contesto.
Cosa pensi dei tanti premi ricevuti in ambito sanremese?
Per me la musica è un gioco. Prendersi sul serio non serve, bisogna essere seri ma non seriosi. I premi sono importanti ma alla fine il vero premio mi viene dato da chi viene al mio concerto e si emoziona riconoscendosi nelle storie che racconto.
Raffaella Sbrescia
Dal 24 marzo Maldestra presenterà il suo nuovo lavoro e incontrerà i fan negli store delle principali città italiane: il 24 marzo a Roma - Feltrinelli Via Appia Nuova 427 (h 18,00); il 25 marzo a Napoli - Feltrinelli P.za dei Martiri (h 18,00); il 26 marzo a Senigallia (AN) – Mondadori C.so II Giugno 61 (h 18,00); IL 27 marzo a Milano - Mondadori Via Marghera (h 18,00); il 28 marzo a Torino - Mondadori Via M.te di Pietà 2 (h 18,00); il 29 marzo Bologna - Mondadori Via D’Azeglio 34a (h 18,00) e il30 marzo a Firenze- Galleria del Disco (h 17,30).
Video: Abbi cura di te
Il tour
Dal 12 aprile inizierà il tour che lo vedrà coinvolto anche per tutta l’estate:
KETTY PASSA è cantante, musicista, performer, speaker e presentatrice televisiva, collabora come cantante con il progetto Rezophonic e come dj/selecter per la serate di Milano Pink Is The New Black, progetto itinerante e tutto al femminile, e Smashing Wednesday. Ha lavorato, tra gli altri, con Rock TV, Deejay TV e Radio Popolare. È deejay e consulente musicale del programma di Rai2 Nemo-Nessuno escluso. “Era ora” è il suo primo album di inediti ed è stato finanziato da una campagna su Musicraiser. Il disco è stato presentato in anteprima con due showcase a Milano e a Roma che hanno battezzato la nuova band composta da Fabrizio Dottori (tastiere, synth), Marco Sergi (chitarra), Marco Pistone (basso) e Manuel Moscaritolo (batteria).
Intervista
Il tuo primo album da solista è in lingua italiana ma con suoni che strizzano l’occhio alla scena Urban americana. Come è venuta fuori questa idea?
Questo è stato un disco molto voluto ma anche molto sofferto. Se non dal punto di vista tecnico, lo è stato dal punto di vista psicologico perché ho sempre avuto paura a mettermi in gioco mettendoci la faccia. Sapevo che quello che volevo fare non era una cosa immediata, che richiedeva lavoro, nonché la capacità di coinvolgere persone che credessero in questa cosa. In ogni caso “Era ora” che mi convincessi a fare un mio disco ed “Era ora”che uscisse dopo due anni di duro lavoro.
Parliamo dei punti di forza di questo disco: in primis i suoni.
La scelta delle sonorità racchiude il pregio/difetto del disco: così come è figo l’essere un “unique” dal punto di vista di genere, lo è molto meno cercare di sapersi vendere e ritagliarsi un piccolo spazio. Cantare su dei beats nati per chi fa rap è un’attitudine tipica del linguaggio americano. In Italia questa cosa è fatta ancora molto poco, gli unici che ci si avvicinano sono Romina Falconi, Luana Corino e Cosmo.
Scendiamo nei dettagli della lavorazione del disco in studio…
Il disco è nato dall’ascolto di beats e dalla creazione di loop vocali su cui scrivevo in fake English quasi tutti i pezzi per poi tradurli in italiano. La difficoltà è stata proprio quella di traslare tutto in italiano attraverso un tipo di scrittura ben strutturato; ho dovuto posizionare bene le parole, trovare degli escamotage vocali dai suoni onomatopeici a delle parole inglesi ormai entrate a far parte del nostro linguaggio quotidiano.
La canzone che fa da apripista all’album è “C’mon”: in un mondo in cui tutti sono abituati al “cotto e mangiato” come ti collochi tu?
Faccio parte di una generazione di mezzo. Noi nati negli anni 80 abbiamo avuto un’infanzia legata ai valori del passato e un’adolescenza corrotta dall’arrivo vorticoso dei media. Un conto è essere nativi digitali, un altro è crescere con l’analogico; a me questa cosa ha spiazzato. Per realizzare un disco autentico potevo solo fare le cose a mio modo: apparentemente sono allegra e gioiosa eppure ho una vena malinconica molto spiccata e l’ho voluta mettere in questo lavoro anche se la profondità non fa business.
Ketty Passa
“Sogna” si collega a questo discorso?
I sogni sono un’arma a doppio taglio: se vivi di sogni, soffri mentre se non lo fai, vivi peggio perché non hai provato a darti delle risposte. Personalmente ho fatto pace con questa cosa perché ho un carattere che mi consente di farlo. In questo brano racconto alle persone cosa faccio, cosa ho fatto, di cosa ho bisogno. Più in generale nel disco mi sono tolta di dosso delle cose che mi stavano strette, la copertina è una metafora della purezza dell’essere nudi. Qualora l’album non dovesse avere un successo commerciale, non ne uscirò distrutta, sono già pronta a scrivere altro, intanto sono contenta.
Hai detto che è stato un disco sofferto anche se nel frattempo hai svolto tante altre attività…
I miei lavori non sicuri hanno accentuato una sensazione di disagio e di mancanza di terreno sotto ai piedi che ha mantenuo viva la mia vera essenza. Paradossalmente se lavorassi in ufficio avrei meno stimoli artistici o meno “trouble” per poter scavare dentro di me, forse la non serenità mi ha aiutato a dirla tutta.
Come porterai tutto questo dal vivo?
La mia band tradurrà il linguaggio del disco con un suono molto più vicino al rock un po’ come fanno Pink, Gwen Stefani o Salmo in Italia.
Dopo oltre 80 date nei club, nei teatri e nei festival con altrettanti sold out, il 1° aprile Motta cantante, polistrumentista e autore di testi, arriva all’Alcatraz di Milano per un concerto evento che chiude la seconda parte della tournée che ha fatto seguito alla pubblicazione de “LA FINE DEI VENT’ANNI”, il suo primo disco solista. Insieme a MOTTA ci saranno tanti artisti che negli anni hanno percorso un pezzo di strada insieme a lui tra cui Giorgio Canali, Criminal Jokers, Andrea Appino (Zen Circus) e Nada. Il 22 marzo alle ore 21.15 su Sky Arte HD andrà in onda una puntata speciale di “Italian Sound” dedicata a Motta e alla sua musica.
Intervista
Francesco, dopo quest’anno così intenso cosa hai capito di te e della tua scrittura?
Ho realizzato che la gavetta e i chilometri percorsi in furgone sono serviti a qualcosa. Mi sono reso conto che aver avuto pazienza prima di uscire con un mio disco da solista è servito per scegliere le parole e le note giuste in modo che venissero fuori canzoni mie attraverso un modo di fare musica e un modo di scrivere veramente miei.
Ci son voluti tanti anni per scrivere delle parole destinare a rimanere, parole che hanno assunto un’identità precisa. Cosa significa trascorrere dei mesi a scegliere una frase o anche solo una parola?
Si tratta di un’esperienza piuttosto drammatica, non c’è niente di particolarmente divertente in tutto questo. L’elemento più importante di tutti è la pazienza, una cosa che ho imparato a gestire anche grazie al produttore del disco Riccardo Sinigallia. Ci sono alcune frasi che davvero mi hanno chiesto mesi anche laddove mi è capitato di tornare sulla prima idea.
Cosa comportava ritornare indietro sui tuoi passi dopo tanta ricerca?
In realtà quando parti da uno spunto e non accetti subito che quello sia quello giusto, quando poi dopo ci ritorni su, il punto iniziale non è mai lo stesso di prima. In questo modo interagisci sempre con qualcosa di diverso.
Come si è evoluta nel tempo la forte alchimia che si è creata con Sinigallia?
Stiamo molto bene insieme, ci vediamo quasi sempre a parte questo periodo in cui sono sempre in giro per concerti. La cosa più bella è che è nata una grandissima amicizia tra noi, c’è una grossa stima reciproca per cui se non collaboreremo per il prossimo disco, lo faremo sicuramente per quello dopo perché Riccardo mi ha insegnato veramente tante cose.
Alla luce dei riconoscimenti che stai ricevendo, in che direzione senti di stare andando oggi?
Fortunatamente sto trovando la mia direzione, giusta o sbagliata che sia, la sento molto mia. Dopo un disco così, sento di avere la libertà di esplorare mondi che ho visitato ma anche di aprire porte di mondi in cui non sono ancora stato; adoro avere questa libertà musicale.
Motta live al Monk – Roma (scatti presenti sulla pagina Facebook dell’artista)
Hai fatto le prime prove con i Criminale Jokers per il live dell’Alcatraz. Quali sono state le tue sensazioni dopo tanto tempo?
È stato bellissimo perché siamo ritornati in sala prove completamente rigenerati e con una stima reciproca fortissima. Sarà bello avere loro lì per festeggiare questo anno perchè sono stati fondamentali per arrivare fino a questo punto.
In questo tour ci sono tante parti strumentali, quali sono le influenze e le correnti che le attraversano?
Il mood presente nel disco viene fuori dal vivo con più forza e più audacia. In particolare metto in luce il mio amore verso la musica africana e alcuni miei ascolti di altro genere.
Lo studio della composizione per musica da film ti aprirà nuovi orizzonti artistici?
Sì mi piacerebbe però, per ora, la mia priorità sarà lavorare al mio prossimo disco.
Ti sei conquistato i mezzi per esprimerti… qual è la tematica di cui senti di dover parlare in questo momento della tua vita?
Per la me la cosa più importante è prendere posizione sulle cose, anche laddove canto di canzoni d’amore; lo è soprattutto in questo preciso momento storico.
Come vivi la definizione di “cantautore rivelazione”?
Cantautore vuol dire cantare le canzoni che scrivo e questa è la cosa di cui vado più fiero in assoluto. Vengo da una gavetta lunga, certo non lunghissima, però va bene così. Io penso a scrivere le canzoni, non penso alle etichette.
Che sorprese ci saranno durante l’ultima data del tour a Milano?
Io e la mia band abbiamo fatto circa 100 date, siamo più che rodati, faremo quello ci riesce meglio. Emozionarmi e divertirmi saranno le cose meno banali e più importanti per me. Farò tutto senza trucchi, non li ho usati finora, non vedo perché usarli nell’ultima data!
Esce oggi “Spirit”, il nuovo atteso album dei Depeche Mode. Il quattordicesimo album in studio della band apre un nuovo importante capitolo all’interno della loro discografia. La prima ventata di novità la porta James Ford dei Simian Mobile Disco (Foals, Florence & The Machine, Arctic Monkeys) attraverso una speciale formula di assemblaggio dei suoni in grado di metterne in risalto sia la potenza che i dettagli. La seconda è insita nel contenuto quanto mai politico dei testi racchiusi nella tracklist: evoluzione, perdita di controllo, rivoluzione, spiritualità sono i grandi temi affrontati in un album che mira ai punti dei deboli dell’ascoltatore avvolgendolo con delle sonorità sintetiche dal potere catartico. “Spirit” rappresenta, di fatto, il modo per immergersi in un’impietosa autoanalisi dal gusto masochistico. Sadici ma non troppo, i Depeche Mode riescono a mitigare il colpo con qualche suadente ballad in grado di far riprendere il fiato dopo una lunga apnea. Per quanto riguarda gli elementi grafici, artwork e fotografie che accompagnano l’album sono state realizzate da Anton Corbijn, celebre film-maker e collaboratore storico della band. La versione standard (fisica e digitale) di Spirit contiene 12 brani, mentre la deluxe in doppio cd, comprende uno speciale booklet di 28 pagine di foto e artwork esclusivi e 5 remix realizzati da Depeche Mode, Matrixxman e Kurt Uenala, chiamati Jungle Spirit Mixes.
Entrando nello specifico dei brani, il disco si apre con “Going backwords”, un brano con un testo che non le manda di certo a dire: “Stiamo tornando indietro, armati di nuove tecnologie, torniamo indietro all’età della pietra”, canta Gahan, mettendo subito le cose in chiaro. A seguire l’ascoltatissimo singolo “Where’s the revolution?” in cui i Depeche Mode ci invitano a impegnarci seriamente, a sporcarci le mani, a scendere in piazza per fare in modo che qualcosa inizi davvero a cambiare. In “The worst crime” la band ci dichiara tutti colpevoli dello stato attuale delle cose. A rincarare la bellezza dell’ascolto sono i sensuali momenti elettronici di “Scum” e “You move”, così come le pulsazioni strumentali di “Cover me”. Se “Eternal”, cantata da Martin, risulta più debole, “Poison heart”, rialza la posta con un’irresistibile ritmica. “You can despise me, demonize me, but there is so much love in me”, dicono i Depeche Mode in “So much love” per ridare forza all’idea di speranza. Algida l’intro di “Poor man” dedicata ad un ‘anima a cui resta ben poco da perdere. Un vorticoso crescendo di suono traghetta l’ascolto attraverso il limbo di “No More (This is the last time” fino alla conclusiva ed implacabile “Fail”. Pessimisti ma non catastrofisti, i Depeche Mode si guardano intorno per stimolare se stessi e chi li ascolta. Forti della loro potente riconoscibilità, Dave Gahan, Martin Lee Gore e Andrew Fletcher scelgono di dare più spazio alla loro urgenza espressiva servendosi di un sofferto lirismo e di un suono sublime dal fascino perturbante, a tratti ipnotico.
“Pulviscolo”è il primo album di Colombre, progetto che inaugura l’esperienza solista di Giovanni Imparato – già voce, chitarra e autore dei brani della band indie-pop Chewingum e co-produttore del disco “Sassi” di Maria Antonietta. Ispirato ad un racconto di Dino Buzzati (Il Colombre), il nome d’arte di questo artista rispecchia la sua voglia di affrontare le paure e di sfuggire all’immobilità. Registrato agli Artigiani Studio/Sala Tre di Formello (studio di Daniele Sinigallia), in presa diretta, senza cuffie né click, affinché “le canzoni oscillassero come le onde del mare”, prodotto da Giovanni stesso e da Fabio Grande (I Quartieri, Joe Victor, Mai stato altrove, Shalalalas) con l’ assistenza tecnica di Pietro Paroletti, l’album racchiude anche delle ottime collaborazioni: la voce e i cori di IOSONOUNCANE (featuring di Blatte), le percussioni di Francesco Aprili (batterista di Wrong on you, Giorgio Poi e Boxerin Club) e il basso di Nicolò Pagani (Mannarino) in Bugiardo.
25 minuti e 36 secondi sono il tempo che occorre per sentire l’urgenza e la veracità delle 8 tracce che compongono un disco composto e arrangiato in solitaria in un piccolo studio di Senigallia per affrontare temi privati come l’amore, l’amicizia, la malattia mentale, le illusioni e le disillusioni di un uomo contemporaneo attraverso un universo musicale davvero variegato. Muovendosi tra chitarre, omnichord e tastiere, Colombre gioca con gli strumenti tra pop e psichedelia. Il disco si apre con la title track “Pulviscolo”, brano senza ritornello scandito da una melodia su progressione di accordi suonati con l’organo. Bando alle scuse scelte, trovate, quasi inventate per tergiversare e perdere tempo. Uno spreco più simile ad un lusso quello raccontato in “Fuoritempo”. L’unico featuring del disco è presente in “Blatte”, un brano dal testo rude e scomodo che vede la partecipazione di Jacopo Incani aka IOSONOUNCANE. I suoi cori danno ampiezza e compattezza ad un pezzo che parla di un rapporto di amicizia finito dopo aver capito la vera natura dell’altra persona tra indifferenza, disgusto, falsità, rabbia. Il brano più difficile del disco è “Tso”: il protagonista è un caro amico di Colombre che, dopo un’adolescenza frenetica, è stato ricoverato all’improvviso in psichiatria. A lui l’artista augura di tornare ad essere spavaldo come una volta. L’immagine di incompletezza e solitudine dettata dalla mancanza del partner è quella più eclatante per descrivere l’essenza di “Dimmi tu”, la canzone d’amore che Colombre dedica alla compagna Letizia aka Maria Antonietta (che ha firmato l’art work dell’album). Fottetevi tutti, la gente fa schifo. Ecco la rivelazione di “Sveglia”, il pezzo ispirato al mondo musicale di Caetano Veloso, necessario per parlare a se stessi e darsi finalmente un benedetto scossone per destarsi dal torpore. Sapevo, tacevo, mentivo e ti confondevo: questa è l’ammissione di colpa contenuta in “Bugiardo”, una canzone che parla senza filtri di tradimenti. E poi c’è “Deserto”: e se hai pianto mille volte fino a solcarti il viso e hai sbagliato mille volte sentendoti fallito, sai che un nuovo oceano sta nascendo in Africa da un deserto. Prova a volerti bene senza aculei, te lo meriti tieniti stretta la tua diversità e non avere paura. La malinconia, il disincanto e quel pulviscolo di incertezze che ci attanagliano il cuore non saranno mai abbastanza forti da spegnere la speranza di un sorriso.
Dopo una lunga attesa gli STAG tornano in scena con “Verso le meraviglie” pubblicato per l’etichetta discografica indipendente INRI con la distribuzione Artist First. MARCO GUAZZONE (voce, seconde voci, pianoforte, tastiere, programming), STEFANO COSTANTINI (tromba e flicorno, seconde voci, tastiere, chitarra acustica), GIOSUE’ MANURI (batteria, percussioni, drum machine) e EDOARDO CICCHINELLI (basso, tastiere, programming) si rimettono in gioco con un concept album pensato per insegnarci a trovare la nostra stanza delle meraviglie, quella che custodiamo, forse inconsciamente, forse gelosamente, nel nostro io più profondo. Avvalendosi della loro speciale formula musicale capace di racchiudere elettronica, synth, musica sinfonica, musica orchestrale, folk e rock, gli Stag ci portano per mano tra i simboli della mappa dell’anima.
Stag
Con un titolo che prende ispirazione dalla traccia apripista “To the Wonders”, nonché colonna sonora del film “Un bacio” di Ivan Cotroneo, la band ci traghetta tra flussi di coscienza e nuove consapevolezze. Uno dei brani più intensi è “Le mie ombre”dal testo cupo e introspettivamente doloroso: “Ma quanto pesa il buio che mi porto dal passato, mi bussa dal passato”, canta Guazzone, alternandosi come di consueto tra italiano e inglese. Lo stesso mood viene ripreso da “Down”in cui ricorrono gli interrogativi, i dubbi e le perplessità che precedono un cambiamento importante. La scrittura collettiva traspare in “Kairòs”: “Svegliati prima che sia troppo tardi”: un monito ma anche una richiesta forte, urgente, necessaria. “Lasciati andare, riparti da qui”, dicono gli Stag in “Mirabilia”, il brano che racchiude l’essenza dell’album: siamo stanze da scoprire e per compiere questa ricerca c’ è molto da fare; non importa quando, non importa dove, non importa perché, non importa come. Questo è quanto c’è scritto in “Slay tilling” che gli Stag portano in giro da svariati anni e che, dopo essersi insediata nei cuori dei fedelissimi, finalmente trova la meritata collocazione in un disco. Giocosi i delicati equilibri del duetto proposto in “Vienimi a cercare” con Matilda De Angelis, giovane promessa del cinema italiano nonché musicista. Una forte dichiarazione di malessere doloroso emerge in “Dimmi se adesso mi vedi” propagandosi anche in “Da te”: più ti controllerò, più mi distruggerai, più mi allontanerò, più mi verrai a cercare. Questa sensazione di smarrimento esistenziale giunge ad una svolta in “The Helm”: il brano più sperimentale dal punto di vista sonoro che intende mettere in atto un vero e proprio risveglio dopo un momento di perdizione. La sensazione è confermata dal mood completamente diverso del brano “Oh Issa!”, che vanta il contributo di Paolo Buonvino: “Siamo pronti a salpare”, cantano gli Stag, e così sia. La band prende il largo con “I’m free”: un brano onirico che si fregia della poetica di tutto il gruppo e che testimonia in modo tangibile il primo passo verso la luce della maturità artistica. “Verso le meraviglie” non è un disco facile, è un disco intimo, introspettivo, ricco di parole, ricordi, difficoltà superate e melodie costruite poco a poco e con amore. Mettetevi comodi e iniziate a cercare le meraviglie che ci sono dentro ciascuno di voi insieme agli Stag.
Raffaella Sbrescia
Video: Vienimi a cercare
Instore tour:
10/03: MILANO, Ostello Bello, via Medici 4 – h. 18.00
16/03: PESCARA, La Feltrinelli, via Trento ang. Via Milano, h 18.30
18/03: SALERNO, Disclan, piazza Sedile di Portanova 23 – h 12.30
18/03: SALERNO, Modo Ristorante, viale A. Bandiera c/o The Space – h 22.00
20/03: TORINO, La Feltrinelli, piazza C.N.L. h 18.00
29/03: BOLOGNA, La Confraternita dell’Uva, via Cartoleria 20 b – h 18.30
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