“MOLTO PIU’ DI UN FILM” è il progetto discografico che rilancia Federica Carta nel mercato musicale italiano. Prodotto da Dario Faini, Antonio Filippelli e Andrea Rigonat, l’album intende segnare il ritorno di Federica a poco meno di un anno dall’uscita dell’album di debutto. Reduce da diverse avventure televisive come il programma di Rai Gulp “Top Music, Federica Carta è nel pieno del suo tour in tutta Italia.
Cosa ci racconti in “Molto più di un film?
Questo è un disco un po’ vario. Ho lavorato con ben tre produttori, questo mi ha aiutato a fare uscire fuori più parti di me, sia dal punto di vista interpretativo che musicale. Ho rispettato i tempi necessari per pubblicare un lavoro che potesse soddisfarmi pienamente e così è stato. Rispetto agli altri ragazzi di Amici sono stata “ritardataria” ma è stato giusto così.
Sei ancora in contatto con Elisa, tant’è che hai lavorato con suo marito Andrea Rigonat…
Sì, mi piace molto il suo approccio al lavoro. Andrea è una persona molto semplice, non ti fa mai pesare che sia un grande, mi ha dato molto spazio anche se in fatto di arrangiamenti non ne so molto.
Il titolo del disco è autobiografico?
Partiamo dal presupposto che il programma “Amici” è una grandissima risorsa. Quello che so ora lo devo a Maria e a quel contesto. La mia vita sembra davvero un film, non ho familiari musicisti, ho questo sogno dentro di me sin da quanto ero bambina. Ho iniziato a cantare a 9 anni, poi ho cominciato a suonare il pianoforte. Quando sei piccolo, fai le cose con ingenuità, poi man mano inizia a palesarsi la tensione. C’è da fare i conti con il pubblico, con chi ti attacca. Per certi versi mi sento una bambina in un mondo di adulti. Non è facile muoversi e crescere in un mondo pieno di pregiudizi.
Quali sono le differenze tra primo e secondo album?
All’epoca ero dentro la scuola, ero limitata ed ero comunque distaccata dal mondo esterno. Le necessità televisive riducono i tempi di lavorazione, avevo poco tempo per scegliere i brani e impararli. Adesso, dopo un anno, sono riuscita a conquistare la possibilità di avere voce in capitolo, ho scelto i brani che volevo realmente cantare, ho potuto pensarci su e scrivere qualcosa anche io e ne sono fiera.
Il tema più gettonato è l’amore.
In effetti è vero. Non è una cosa voluta, sento semplicemente la necessità di parlare di queste cose. In questo album ci sono anche altre situazioni relative alla vita quotidiana. Anche se canto l’amore, credo di non essere mai riuscita a provarlo fino in fondo. Non mi è nemmeno andata così bene quando ho pensato di provarlo.
Sei percepita dal pubblico come Federica di “Amici”. Quali sono le tue ansie, le tue paure e le tue speranze?
Alla fine del programma avevo paura di essere dimenticata, ci ho scritto su e mi sono sfogata così. Quest’anno ho avuto modo di riflettere e capire chi voglio essere. Il mio obiettivo non è distaccarmi dal talent ma affermarmi come cantante.
Come hai strutturato il live?
Abbiamo arrangiato i brani in modo che rendessero al meglio dal vivo. Mi piace molto improvvisare, ci sono variazioni sulle melodie. Sul palco mostro più lati di me: c’è il lato grintoso ma non trascuro nemmeno quello più cupo. Sono contenta della mia band e, più in generale, sono felice di esibirmi dal vivo, mi dà carica e consapevolezza professionale.
Chi è, in sintesi, Federica Carta?
Vivo con i miei, non sono ancora pronta per andare via. Sono nostalgica, quando ritrovo una vecchia foto mi emoziono. L’emotività e la timidezza sono parte integrante di me ma, piano piano, sto trovando una mia dimensione comunicativa. A fine giornata mi capita di ritrovarmi arrabbiata e stanca ma, appena focalizzo l’attenzione su quello che sto realizzando, mi si riempie il cuore di soddisfazione.
“Bengala” è il frutto di un lavoro durato diverso tempo. Un tempo che Lorenzo Fragola si è voluto prendere con l’obiettivo di cercare una sua dimensione, una personale consapevolezza. Il fulcro di questo suo nuovo percorso è stato cercare di capire che tipo di artista voler essere e che musica voler fare. Lorenzo si spoglia del suo personaggio, sceglie di ricominciare daccapo seguendo la prospettiva di ricongiungere il personaggio televisivo con la persona. Ci vuole coraggio per capire cosa voler raccontare alle persone e con “Bengala”, anticipato dal singolo “Battaglia Navale”, ci sono 10 brani inediti a fotografare la ricerca di questa nuova direzione che Lorenzo ha intrapreso insieme a Federico Nardelli (a lui la cura di Lontanissimo, SuperMartina, Vediamo Che Succede, Miami Beach, Imbranati, Bengala), MACE (producer di Battaglia Navale, Cemento), SRNO (Echo) e Fausto Cogliati (Amsterdam).
Intervista
Ho girato molto in Italia e all’estero, sono andato ad Amsterdam con l’obiettivo di scrivere ma anche i viaggi di piacere mi hanno dato qualche spunto per chiudere dei brani. Ho scritto tante canzoni, ne ho scelte solo 10, il disco inizia con “Battaglia navale” e finisce con “Bengala”, inizio e fine coincidono con i limiti dettati dalla voglia che avevo di raccontare quello che ho fatto per cercare la mia strada.
Quali sono le conclusioni a cui sei arrivato grazie a questo lavoro?
Non ho voglia di fare altro che non sia quello che mi rappresenta. Prima di X Factor non avevo nemmeno pianificato di voler fare questo lavoro. Il primo brano scritto in italiano l’ho portato istintivamente a Sanremo ma non avevo idee nè strumenti per farlo. Ora ho strumenti per muovermi e con questo lavoro in solitaria sono cosciente della visione di un progetto di cui sono produttore. Scrivere un album in italiano è stato difficile, prima ero affiancato da autori che mi spingevano a cavalcare l’esigenza del momento. Quelli erano i miei primi tentativi di esprimermi, ogni volta speravo di poter fare un piccolo passo in avanti per crescere. I super producers pensano a cavalcare l’onda di un percorso televisivo, non creano l’identità di un artista, ho rifiutato un tour e la tv, ho rinunciato ai soldi e alla visibilità perchè non mi permettevano di crescere, ho scelto questa via perchè ho voglia di mettere insieme nuovi tasselli in grado di darmi una precisa identità.
Com’è cambiato il tuo approccio alla musica?
Il mio approccio alla musica ora è completamente diverso, “Battaglia navale” l’ho scritta due anni fa quando ancora suonava come qualcosa di completamente nuovo. Questo brano mi ha dato la forza di iniziare e di mettermi in gioco all’interno di un percorso con cui rischio di bruciarmi. Ho abbattuto i limiti, prima l’unico termine di paragone che avevo si è trasformato in una voglia di dire qualcosa che mi rispecchiasse.
Qual è il più grande risultato raggiunto finora?
Ho sviluppato delle vere competenze musicali, non mi sono fermato davanti alle distinzioni di genere, ho scelto ciò che ritenevo giusto e autentico sperando che chi mi ascolterà potrà ritrovarsi in questo tipo di pensiero. Non ho messo freni a quello che sento di voler essere, non ho più i filtri che prima usavo come protezione. Ho affrontato questo percorso da solo, ho voluto essere sincero con me stesso, non ho più intenzione di scendere a compromessi.
C’è stato uno strappo vero e proprio?
Sì ed è stato essenziale. L’importante è stato recuperare la serenità ed un rapporto pacifico con ciò che faccio. Trovo che sia giusto fare qualcosa che mi rappresenta, gli strappi creano fragilità ma fare delle cose senza capire chi si è mette comunque in crisi. Avevo voglia di fare quello che mi era proibito, solo così potevo crescere. Se mi fossi fermato a quello che il mio personaggio prevedeva non so che tipo di passi in avanti avrei potuto fare.
Uno dei brani più particolari è “Cemento” in cui canti con Mecna e Mace.
Il brano è venuto fuori esattamente così come è scritto. Con Mace eravamo partiti dalla chitarra. Questa è la prima volta che uso un riff di chitarra elettrica. Con Frah Quintale ho scritto la prima parte, volevo che la storia continuasse senza interrompersi quindi invece di comporre due singoli, ho preferito unire tutto in un unico flow. Il pezzo dura 6 minuti ed è tutto da ascoltare, dall’inizio alla fine. Gli accordi armonici sono gli stessi però l’influenza di mondi diversi ha influito sulla percezione del brano. Si tratta di due versioni della stessa storia: nella prima parte questa persona parla di quello che vorrebbe dire ma non dice mentre nella seconda parte c’è il superamento della rabbia. Il brano deriva dalla perdita e dalla modifica di tanti rapporti personali che ho perso e riacquisito.
Video: Battaglia Navale
E della collaborazione con Federico Nardelli, in arte Gazzelle, cosa ci dici?
Questa è stata una scommessa per entrambi. Fino ad un anno fa non aveva mai prodotto un disco pop, non è stato facile farlo digerire, dire no ai super big. Parliamoci chiaro, un mese a Los Angeles non mi sarebbe mai bastato. Nardelli ha avuto la voglia di abbracciare un ruolo e buttarsi a capofitto in questa esperienza. L’ho dovuto convincere che fosse lui la persona giusta, siamo partiti dalle sessioni di scrittura; questa è stata la scelta più naturale per me, con tutti i limiti del caso. Lui è la persona più vicina a questo discorso non chi pensava di sapere cosa fosse giusto per me. Ho dovuto prendermi la responsabilità di portare a termine il progetto e adesso mi sento più ricco.
Quali sono le più grandi soddisfazioni che senti di esserti preso?
La più grande me l’ha data Enrico La Falce che ha mixato il disco. Lui non si aspettava certi risultati da parte mia. Mi sono messo alla prova su tutto, ho rispettato il momento e l’emozione. Questo disco è stato il passaggio propedeutico per sviluppare delle competenze e confrontarmi con me stesso. La competenza principale che sento di aver conquistato è stata scrivere un album in italiano da solo e senza autori. Mi serviva per non tornare sul palco a cantare solo brani scritti da altri, oggi non ce la farei.
Mi metteva in crisi il fatto che le persone non capissero la mia ricerca, a 22 anni non avrei mai fatto il teen pop. Dopo aver ascoltato questo disco per la prima volta ero terrorizzato, mi sentivo anche in imbarazzo per i brani vecchi, mi sono chiesto il perchè. Essere da solo crea fragilità, insicurezza ma mi serviva per riacquisire consapevolezza. Prima mi sono odiato, ora mi riabbraccio e mi rassicuro. Non mi sono goduto niente, ho vissuto tre anni di non vita, ero frustrato dal fatto di non essere riuscito a crescere, ora sono qui a vivere il rischio ma con la sicurezza di sapere chi sono, cosa faccio e come lo faccio.
“Vivere o morire” è il titolo del nuovo capitolo discografico di Motta. Dopo la lunga gestazione de “La fine dei Vent’anni”, il cantautore torna in scena con un album emotivamente ricco con testi densi e arrangiamenti caratterizzati da un substrato musicale suddiviso su più livelli. L’impostazione dicotomica del titolo lascia intuire subito un’intenzione chiara: rivelarsi senza filtri, svelare da che parte stare; senza sfumature di grigi. Motta si lascia andare, decide che è ora di restare, di essere consapevole, di dare spazio all’urgenza espressiva, all’intimismo, all’anima.
Intervista
Ciao Francesco, raccontaci come stai e come hai vissuto la gestazione di questo nuovo disco.
Ho conquistato una felicità che mi sono guadagnato. Fare dischi è difficilissimo, suonare mi diverte, scrivere i testi invece è davvero complicato. Si tratta di un processo che richiede consapevolezza, impegno, responsabilità. Stavolta ho lavorato in modo diverso, in primis perchè avevo molti più mezzi a disposizione, lavorare a New York non è chiaramente lo stesso che lavorare a casa. Il trucco è stato è non metterci trucchi. In questo disco vi dico da che parte sto e come la penso: sto dalla parte del vivere ovviamente.
Dal punto di vista musicale invece?
Ho prodotto questo album insieme a Taketo Gohara ma ho suonato molte più cose io stesso. Così come tengo molto a riconoscere il lavoro delle altre persone, stavolta mi piace riconoscerlo a me stesso. Prima di cominciare il lavoro, avevo parlato con Riccardo Sinigallia che mi ha subito detto che stavolta non sarebbe stato lui il mio produttore artistico. Il lavoro di Taketo è stato importante perchè è molto diverso da me e Riccardo, ha svolto un lavoro complementare. Molti potranno obiettare che questo album sia nato in molto meno tempo ma non è vero, ho recuperato anche cose scritte nel 2011. Nel primo disco la gestazione è stata più lunga, più spalmata, non c’era la concentrazione che c’è stata adesso per questo disco a cui ho lavorato 24 ore su 24.
Cosa c’è di completamente nuovo in te e quanto ti porti indietro del passato?
Mi conosco meglio di prima, ho passato più tempo con me stesso. Dopo più di 100 concerti in giro, ho avuto modo di guardarmi indietro e fare delle scelte. L’ultimo brutto ricordo risale al concerto all’Alcatraz di Milano, l’ultimo del tour: non mi sentivo all’altezza di affrontare quel tipo di emozioni. Quando sali sul palco per spaccare tutto, stai sul palco nel modo peggiore in assoluto. In seguito, dopo 3 settimane di silenzio, mi sono vissuto il concerto del 1 maggio al meglio. Per me quel concerto all’Alcatraz è stato eccessivo, sono io che devo sentirmi pronto e se per primo mi accorgo di un errore, sono il primo a incazzarmi. Crescendo mi sono accorto che non è tanto importante la forza quanto scegliere di incanalarla bene. Bisogna capire come si impiega il tempo, questo tipo di considerazioni non le avevo mai fatte prima. A 20 anni mi affascinava descrivere il bivio, ora mi sento pronto a prendere una delle due strade, non so se sia quella giusta ma è la mia.
L’album si chiude con il brano “Mi parli di te”. Un testo molto intimo…
Avevo già parlato dei miei genitori, spesso ne parlo. In questo caso è stato molto complesso scriverne. Ho cercato di guardarli come degli essere umani pieni di pregi e di difetti, questo mi ha portato ad avvicinarmi molto di più a loro.
Tutti, a questo proposito, ricordano ancora con emozione il video del brano “Del tempo che passa la felicità”.
Ricordo che durante le riprese non ci siamo mai incrociati, poi soltanto alla fine ci siamo incontrati e abbiamo vissuto un attimo molto vero. In quel momento c’è stato qualcosa di intimo e privato, mentre tornavamo a casa abbiamo realizzato di non aver mai visto un tramonto insieme prima di allora.
Prima accennavi alla lunga gestazione de “La fine dei vent’anni”, magari adesso avevi semplicemente necessità di lasciarti andare e riempire al massimo questi nuovi testi.
Prima avevo una forte ingenuità nei confronti della mia esperienza di cantautore. In qualche modo c’era una confusione giustificata. In generale, per scrivere, mi serve sempre un gancio emotivo, ci vuole un’idea che mi serve per partire con la scrittura. Stavolta sono andato così tanto sul personale che non era giusto arrivare a compromessi. Ho scelto questa direzione a costo di essere scomodo e di non lasciare spazio per pensare. Ci sono frasi che ti arrivano come coltellate, le ho scelte per sentirmi meglio subito dopo. Per me questo è ciò che conta: ho esorcizzato tantissime cose, ho tolto tutto quello che era in più. In questo disco ci sono nove canzoni, non dovevano essercene nè in più nè in meno. Sono più tranquillo e più sobrio; questo album me lo sono guadagnato.
In “Vivere o morire” canti della paura di dimenticare. Tu ce l’hai?
La paura di dimenticare è quella più grande. Non voglio dimenticare gli affetti, da dove sono partito, quello che ho sbagliato. Per poter crescere la cosa più importante è l’accettazione dell’errore. Secondo la concezione binaria della vita bisogna scegliere se restare o andarsene, io scelgo di restare ma non voglio dimenticarmi delle scelte sbagliate.
Video: Motta presenta “Vivere o morire”
Per quanto riguarda gli arrangiamenti di questi pezzi, cosa ti sei portato dietro delle tue precedenti esperienze?
Non smetterò mai di ringraziare i miei musiciti con cui sono cresciuto. Ne “La fine dei 20 anni” ho praticamente rivisto tutti i brani in funzione del live. Al soundcheck filava tutto troppo liscio e ho pensato che ci fosse qualcosa che non andava. Mi è piaciuto e mi piace tuttora scrivere musica al computer, non la vivo come una maniera fredda di scrivere canzoni, mi piace la concezione digitale della musica.
Con questi presupposti, stavolta sei volato fino a New York con Taketo Gohara.
Sì, Taketo ha sfruttato questa mia tendenza a suonare un po’ tutto e male. Quindi siamo finiti nello studio di registrazione di Keith Richards e lì, oltre al grande Mauro Refosco, abbiamo trovato una serie di strumenti che non avevo mai visto e sentito. All’inizio mi sono spaventato, ma d’altronde in qualche modo per poter essere produttivi, bisogna essere spaventati da quello che si fa. Sono rimasto diversi minuti a suonare una sola nota senza muovermi, c’erano molti sintetizzatori, alcuni dovevamo fisicamente cercarli. Abbiamo trovato energia pronta a essere detonizzata.
Che musica ascolti adesso?
Ascolto poca musica, soprattutto quando lavoro alla mia. Ultimamente mi sono emozionato ascoltando il disco di Filippo Gatti. Il rap non mi interessa molto anche se è mi è sempre piaciuto Salmo per la sua concezione molto simile alla mia. Alla fine comunque finisco sempre con l’ ascoltare “Rimmel” di De Gregori. La trap è sotto gli occhi di tutti, non possiamo far finta di niente. Ascoltandola mi accorgo di non essere preparato, mi sono scoperto invecchiato e testualmente distante. In ogni caso mi fa piacere vedere ragazzi giovanissimi in grado di fare cose che io a sedici anni certamente non facevo.
Che rapporto c’è tra la tua musica e le immagini?
C’è tanta immagine nelle mie canzoni. Lo stesso mi è capitato anche quando ho lavorato per la realizzazione di colonne sonore. In quel caso ci sono tanti ego che devono collaborare, in quel contesto ho imparato a sapermi mettere anche da parte.
Sebbene tu sia riconosciuto come artista indie, andresti a Sanremo?
Il mio desiderio è che la mia musica possa essere ascoltata dal maggior numero possibile di persone. Quello che conta è che questo non sia mai il presupposto con cui scrivere. Al Festival della Canzone italiana ci andrei se avessi una canzone giusta. Non c’entra il concetto di pop, per partecipare a Sanremo devi essere inattaccabile e portare una canzone adatta al contesto.
Raffaella Sbrescia
Di seguito la tracklist dell’album:
1. Ed è quasi come essere felice
2. Quello che siamo diventati
3. Vivere o morire
4. La nostra ultima canzone
5. Chissà dove sarai
6. Per amore e basta
7.La prima volta
8.E poi ci pensi un po’
9.Mi parli di te
A maggio, Motta tornerà dal vivo con quattro eventi, anteprima del “Motta live 2018″, organizzato da Trident Music. Questo il calendario dei concerti:
26 maggio ATLANTICO Roma
28 maggio ESTRAGON Bologna
29 maggio OBIHALL Firenze
31 maggio ALCATRAZ Milano
I biglietti per le quattro date sono disponibili in prevendita sul circuito www.ticketone.it e presso tutti i punti vendita abituali.
Amore e violenza. I concetti si rincorrono, si intrecciano per poi distanziarsi all’interno del recente percorso artistico dei Baustelle. Ne “L’amore e la violenza vol.2 – Dodici nuovi pezzi facili” il gruppo nato a Montepulciano nel 1996 concede una tregua alla guerra per mettere in primo piano la love song che, in ogni caso, rimane lontana anni luce da quella inflazionata, mielosa e ormai trita che a ogni più sospinto ci viene riproposta.
Qui i Baustelle sfoderano la loro maestria linguistica, testuale e compositiva celebrando un amore che nasce con la consapevolezza che sarà destinato a consumarsi, previa la sublimazione assoluta.
Perchè un volume 2?
Abbiamo composto queste canzoni mentre eravamo in tour con “L’amore e la violenza vol.1″. Questo è un fatto inedito per noi che non abbiamo mai amato scrivere mentre siamo in giro. Forse stavolta l’immaginario sonoro e le cose che avevamo in mente di dire non si sono esaurite nel vol.1 e abbiamo voluto completare il discorso. Definire questi pezzi facili è un provocazione ironica che fa il verso a un film con Jack Nicholson. Il primo era un disco d’amore in tempo di guerra, c’era più focus sul contesto che sul racconto privato. Stavolta abbiamo dato spazio a relazioni sentimentali anche se le canzoni di questo album parlano di storie d’amor che contengono violenza al loro interno. Possiamo quindi dire che la guerra non è affatto finita, continua semplicemente in modo diverso da quella narrata del volume 1, in cui era più legata al contesto storico-sociale che stiamo vivendo.
L’unica eccezione, in questo senso, è data dal brano “Tazebao”?
Sì, in effetti lo è. Al suo interno ci sono folli aforismi sul presente. Possiamo considerarla l’eccezione che conferma la regola.
Come intendono l’amore i Baustelle?
In “Amore negativo”, ad esempio, raccontiamo che l’amore è quello in cui nella migliore delle ipotesi ci scappa il morto, attraverso il sacrificio del proprio io. L’annullamento del sè per l’adesione all’altro. Il testo parte con una negazione, poi si sublima in piacere, ancora più forte se si riesce ad annullare l’ego e darsi all’altro senza chiedere niente in cambio. Viviamo in una società che non incita assolutamente questo tipo di concezione, anzi, al contrario siamo al centro di un grande massaggio all’ego. Vogliamo vivere per sempre, essere belli, magri, in forma. L’amore per come lo intendo io è il contrario di questo: è sporco e distruttore.
L’amore è salvifico?
No. Applicare l’annullamento del sè per darsi a qualcosa d’altro è sicuramente qualcosa che dà piacere ma non so da cosa dovremmo salvarci, l’amore non serve per vincere o eliminare le guerre, è una cosa più alta.
Perchè ne “Il Minotauro di Borges” il mostro accetta di morire?
Il Minotauro viene descritto come un essere mostruoso ma in realtà è un essere solo, chiuso in una casa grande come il mondo con stanze ripetute all’infinito. Ogni 12 anni arrivano le fanciulle in sacrificio per lui ma, ancora prima che possa dilettarsi, quelle muoiono prima dallo spavento. Nel dialogo tra Arianna e Teseo si evince che il Minotauro non voleva più vivere. I suoi sono amori impossibili.
Cosa sceglierete di portare dal vivo stavolta?
Porteremo in tour gran parte di questo disco e del precedente. Naturalmente non mancheranno le vecchie glorie che non possiamo non fare. Inoltre abbiamo ritrovato l’amore per certe canzoni vecchie che con un nuovo arrangiamento sono più vicine al nostro modo di suonare contemporaneo.
Una canzone si può giudicare pop o semplice a seconda della fatica che si fa per comprenderla?
Troviamo che sia sempre giusto fare fatica. Tutte le cose che ci piacciono richiedono un importante lavoro interpretativo e, si da il caso che a queste corrispondano per lo più cose che hanno resistito al tempo. La storia ci insegna che le cose che hanno richiesto fatica interpretativa non sono state apprezzate subito e che i loro autori morissero di fame o scoperti postumi. Intanto però sono rimasti nella storia. Tutto il resto è puro commercio. Secondo noi, dunque, l’attitudine giusta per fare qualunque lavoro artistico è cercare di sopravvivere al tempo e rimanere nella storia.
baustelle- cover album
Cosa implica fare pop?
Questa è una definizione di gomma, in Italia questa distinzione è sparita abbastanza presto. Noi nel 1997 volevamo essere per tutti, all’inizio abbiamo avuto difficoltà, intorno a noi c’era molto più rock e scena alternativa. A noi va bene che si sia abbattuto questo muro. Se però abbattere l’indie significa diventare uguale al mainstream più becero allora sarà meglio rimettere su più di qualche mattoncino. Eliminiamo la musica prodotta solo per arrivare al commercio, a questa età non ci va più di perdere tempo a fare cose che non ci va di fare. Preferiamo l’ascolto alto.
Come convivete con la vostra spiccata estetica cinematografica?
All’inizio mescolavamo elementi rock alle colonne sonore. Siamo sempre stati affascinati dai compositori e dimenticati. D’altronde siamo nati quando all’estero cominciavano a scoprire proprio grandi compositori italiani, c’era tutto un sottobosco che allora di definiva “easy listening”. Abbiamo sempre amato il cinema e la musica per cinema. Ci ispirano le aperture prettamente strumentali e infatti ci sono anche in questo album. Ci piace l’idea che il disco si apra come una finestra. Rachele scrive molta musica senza testo, insieme gli diamo poi la forma canzone.
Un po’ come accade nel brano Jesse James e Billy Kid?
Ci piacciono i western, quelli di Tarantino in particolare. Nel brano questi riferimenti vengono usati in modo metaforico. I protagonisti vivono una storia d’amore turbolenta e travagliata.
A che punto siete della vostra carriera artistica?
Questo album racconta e fotografa in modo preciso chi siamo adesso. Le canzoni del vol.2 sono molto diverse dal vol.1, sono state scritte più in fretta e hanno visto un uso massiccio della chitarra, a differenza dei tre dischi precedenti. Quando ci si siede al pianoforte si ha a disposizione una maggiore possibilità di colori e complessità armonica. La chitarra invece ha un limite fisico che porta a scrivere canzoni più semplici, più veloci e più rock’n'roll. Per questo il disco ha una serie di colorazioni spigolose e un piglio ritmico più tirato. Naturalmente non abbiamo rinunciato ai sintetizzatori, sentiamo la differenza con il lavoro precedente e ci piace l’idea di poterlo suonare.
Qualcuno li definisce sfrontati, qualcun’altro arroganti. Loro sono i Maneskin, sono giovanissimi e sono i vincitori morali e non solo dell’ultima edizione di X Factor. La loro performance dal vivo è carica e avvincente. Certo, la scaletta comprende al 95% cover ma la cose che incuriosisce è che nessuna di queste ricorda l’originale. Questi ragazzi lavorano per dare un tocco personale a tutto quello che incontrano e, gran parte delle volte ci riescono. Vedere degli adolescenti buttarsi a capofitto in questa avventura con caparbietà, sicurezza, disinvoltura piace e spaventa. Piace vedere come ci credono, come si muovono, come convincono la piazza, come se ne fregano dei detrattori e di quelli che si rifiutano di credere nella loro favola rock. Sinceramente fa spavento pensare che a 17/18 anni si molli tutto per credere in un sogno effimero, come può apparire oggi quello della musica mordi e fuggi ma d’altronde molti grandi del passato lo hanno fatto suscitando reazioni ben peggiori. Per cui dico avanti Maneskin e fateci vedere cosa sapete fare.
Ieri sera li ho incontrati alla Santeria Social Club di Milano. Poco prima di due ore al primo concerto milanese della band capitanata da Damiano David ha incontrato la stampa per nuovi succosi aggiornamenti. Dopo essere stati definiti gruppo rivelazione del 2017 Damiano David e compagni annunciano l’uscita del nuovo singolo “Morirò da re”, prevista per il 23 marzo, dichiarano di essere al lavoro su un nuovo disco e che il prossimo autunno partirà un nuovo tour in location più grandi.
L’inedito in italiano.
“Con il nuovo singolo “Morirò da re” ci esporremo con l’italiano. Siamo al centro di un processo creativo molto bello. Il brano è nato in modo molto spontaneo, dal nostro bisogno di scrivere, dal nostro desiderio di raccontarci e dire qualcosa. La scelta dell’italiano è stata una casualità. Scriviamo in entrambe le lingue e vogliamo destreggiarci sia con l’una che con l’altra senza mai abbassare il livello del nostro prodotto. Abbiamo scritto questo pezzo durante giorni di off, abbiamo due modi di scrivere: o partiamo dall’arrangiamento oppure da un pezzo già scritto. Subito dopo l’esperienza in tv con X Factor abbiamo voluto tornare subito a suonare. Per noi la cosa principale è il contatto con il pubblico. Abbiamo scelto posti piccoli in cui esibirci per imparare e crescere”. Il significato del testo
“Al centro del testo c’è il concetto di redenzione. Dal male può nascere del bene. Da qualcosa che viene visto come sbagliato, così come è avvenuto con la nostra scelta di mollare tutto e dedicarci alla musica h24, può nascere del buono credendo in se stessi e in quello che si fa. Il messaggio è che non bisogna farsi spaventare dal mondo esterno, aldilà delle nostre canzoni vorremmo dire alla nostra generazione, in particolare ,di portare avanti quello in cui si crede. Bisogna cercare la felicità attraverso il proprio talento”.
Il sound
“Fin dall’inizio abbiamo cercato di creare un suono nuovo e fresco. Con questo brano siamo approdati a un suono che non avevamo mai affrontato prima. Questo anche grazie ai mezzi che abbiamo avuto a disposizione. Abbiamo lavorato in uno studio fantastico, la chitarra di Thomas ha un suono alla Frusciante dei primi anni ’90, siamo vicini alla scuola dei Red Hot Chili Peppers. La voce di Damiano ricorda quella di Fletwoodmac”.
Maneskin live @ Santeria Social Club ph Francesco Prandoni
Il nuovo tour
“In autunno ci sarà un nuovo tour con un allestimento inedito e cambieremo anche la scaletta. La tourneè partirà il 10 novembre 2018 e sarà prodotta nuovamente da VIVO CONCERTI dopo il fantastico successo che ci ha portato al sold out, in pochissime ore e per tutte le ventuno date, del primo tour. Possiamo anticiparvi che non ci saranno solo cover, cercheremo di portare principalmente noi stessi e i nostri brani, non vediamo l’ ora che questo tour possa portarci a uno step successivo ancora più soddisfacente. La nostra vera dimensione è il palco e questa cosa non vogliamo dimenticarcela. Il nuovo tour ci vedrà sui palchi di locali diversi e più grandi. Tra tutti possiamo già citare il Fabrique di Milano e il Palatlantico di Roma. Per ora abbiamo fissato una decina di date.
Il nuovo album
Stiamo valutando dove ficcare il naso, sicuramente faremo molto meno, abbiamo in programma di chiuderci in studio, saremo in ritiro per mettere mano al disco e lo finiremo sicuramente entro l’autunno, prima che inizi il nuovo tour. Abbiamo dei pezzi già scritti, dobbiamo continuare a lavorare con lo stesso spirito. Per il momento stiamo mettendo in pole position sia brani in italiano che in inglese, così come ci vengono.
Il marchio di fabbrica Maneskin
Si parte sempre da un compromesso intrinseco tra noi quattro. La nostra produttività ed efficacia è aumentata parecchio in questi ultimi mesi. Stiamo cercando di creare una dimensione nostra, il nostro desiderio è creare il nostro sound personale e il disco seguirà questa linea d’onda. Ognuno di noi ascolta generi diversi per cui il risultato è una mescolanza di quello che ci piace.
Raffaella Sbrescia
Video: Maneskin live – Santeria Social Club
La scaletta del concerto
Intro
Let’s get it started
Take me out/Somebody told me
Un temporale
You need me
Breezblocks
Gimme Shelter
Pyro
Gangsta’s paradise
Master Blaster
Alors on dance
Recovery
Dirty Diana
Beggin’
Hey Mama
Vengo dalla luna
Prisoners/Eatch me
Kiss this
Chosen
CALENDARIO TOUR AUTUNNALE 2018:
sabato 10 novembre 2018 – SENIGALLIA (ANCONA) – MAMAMIA – DATA ZERO
giovedì 15 novembre 2018 – PADOVA – GRAN TEATRO GEOX
sabato 17 novembre 2018 – BOLOGNA – ESTRAGON
sabato 24 novembre 2018 – MILANO – FABRIQUE
venerdì 30 novembre 2018 – BARI – DEMODÈ CLUB
sabato 1 dicembre 2018 – NAPOLI – CASA DELLA MUSICA
giovedì 6 dicembre 2018 – BRESCIA – GRAN TEATRO MORATO
domenica 9 dicembre 2018 – VENARIA REALE (TO) – TEATRO DELLA CONCORDIA
Non si tratta dell’ennesimo rapper. TOMMY KUTI, all’anagrafe Tolulope Olabode Kuti, pubblica “Italiano vero” per Universal Music Italia e segna un passo importante già all’esordio. Il motivo di questa affermazione risiede nel fatto che Tommy è un rapper afroitaliano di origini nigeriane e si fa portavoce dei cosiddetti “nuovi italiani” di seconda generazione che non trovano spazio nella società, che non vedono riconosciuti i propri diritti di cittadini italiani e che non riscontrano l’attenzione dei media, troppo accaniti sempre e solo sui fatti di cronaca nera. Attraverso uno stile diretto e rime non scontate, Kuti intende fare su luce su questa questione ma anche su temi di integrazione socio-politica multirazziale. Il disco spazia dal cantautorato Italiano, al sound impegnato del rap francese, mischiate alla trap tradizionale. Tra i plus, il fearuring con Fabri Fibra nel brano “Clichè”, una traccia che spara in faccia una serie di scomode verità. Un esordio che non passerà inosservato.
Video intervista:
Questa la tracklist del disco, mixato e masterizzato da Marco Zangirolami:
1. Forza Italia (prod. 2ndRoof)
2. Il Disco di Tommy (Prod. Pankees)
3. The Way I Am (Prod. 2nd Roof)
4. Skit Clichè (Prod. Marco Zangirolami)
5. Clichè (feat. Fabri Fibra) (Prod. Pankees)
6. Afroitaliano (Prod. Pankees)
7. Hassan (Prod. Pankees)
8. La Bella Italia (Prod. Yves The Male)
9. La Pelle (Prod. Medeline)
“ITALO BY NUMBERS” (Softworks / SELF Distribution) è il nuovo album di GAZEBO, l’artista, cantante e coautore di “I Like Chopin” (uno dei brani simbolo degli anni ‘80), che torna dopo 8 album in studio. All’interno di questo progetto GAZEBO ripropone alcuni classici della famosissima ondata di musica dance made in Italy, insieme ad brano inedito intitolato “La Divina”, in cui per la prima volta il cantante si cimenta con la lingua italiana.
Video intervista:
Raffaella Sbrescia
Questa la tracklist:“Passion”, “Give me one day”, “Self control”, “Wait”, “I like Chopin”, “Tarzan boy”, “Another life”, “Survivor”, “Happy children”, “Lunatic”, “Untouchable”, “People from Ibiza”, “Masterpiece”, “Easy lady”, “Dolce vita”, “Rainfall memories”, “La Divina”.
Il folk americano, la natura, l’inglese e l’autenticità sono il poker d’assi che Marco Zitelli, in arte Wrongonyou, cala per il suo album d’esordio “Rebirth” (Carosello Records), giunto dopo l’ep “Mountain Man”. La rinascita di cui si intende parlare è di tipo mentale e mette in luce la ritrovata capacità da parte di Wrongonyou di focalizzarsi sull’uso della voce e sulle vibrazioni dettate da un’interpretazione verace e senza filtri. Al centro delle 11 tracce c’è madre terra, lo si percepisce dai suoni che rimandano a grandi distese di boschi Canadesi e selvaggie brughiere. La forza immaginifica delle parole di Wrongonyou solca i confini tra i generi, distende i nervi, regala nuove e inedite prospettive. “Tree”, “Son of winter”, “Green river”, “The lake”, ‘I don’t want to get down’ sondano anche le vicende più personali del cantautore che si destreggia agilmente tra canzoni nuove, che lo hanno portato a collaborare con Michele Canova a Los Angeles, e canzoni meno recenti che lo hanno condotto a una presa di coscienza matura e consapevole. L’originalità della formula proposta da Wrongonyou sta nella squisitezza dell’artigianalità Made in Italy, coniugata ad un più organizzato metodo di selezione e rielaborazione di sonorità dalla bellezza senza tempo. Wrongonyou è un ragazzo che macina chilometri da sempre, la malinconia e l’intimismo sono parte integrante del suo linguaggio comunicativo eppure il risultato non è affatto cupo anzi, è fresco e delicato. Just “Prove It”.
Raffaella Sbrescia
Video: Prove it
Wrongonyou si esibirà in tre concerti al South by Southwest festival di Austin, in Texas, dal 12 al 17 marzo, poi in tour in Italia dal 21 marzo a Roma.
TRACKLIST
1. Tree
2. Prove it
3. Rebirth
4. Family of the Year
5. Son of Winter
6. Green River
7. Sweet Marianne
8. The Lake
9. I Don’t Want To Get Down
10. Shoulders
11. Killer
“Desert Yacht Club” è il decimo album in studio dei Negrita e contiene undici tracce inedite, scritte e composte dai Negrita e prodotte da Fabrizio Barbacci. Il titolo, “Desert Yacht Club” rimanda all’omonima oasi creativa fondata da Alessandro Giuliano nel deserto di Joshua Tree in California ma non lasciatevi ingannare, in questo disco c’è molto altro. I NEGRITA hanno scelto di guardarsi dentro e di trovare un nuovo modo di comunicare dopo un momento difficile. D’altronde anche questo è il bello di ritrovarsi.
Intervista
La lavorazione di “Desert Yacht Club” nasce da un’approccio diverso. Cosa si intende per kitchen groove?
Di solito ci si ritrova in una saletta umida e poco salubre, qui questo concetto è stato ribaltato. Abbiamo sfruttato quello che la vita ci ha dato in questi ultimi anni. Come sapete, in genere usiamo studi residenziali, per noi la musica si lavora h24, non esistono orari da ufficio. Stavolta il tavolo è stato il nostro campo da gioco, lavoravamo senza limiti di tempo con la fortuna di avere un chitarrista cuoco. Tra un passo e un altro la musica fluiva senza soluzione di continuità, avevamo il nostro trip dentro al trip.
E qual è stato questo trip geografico?
Abbiamo attraversato il Sud Ovest degli Stati Uniti, ci trasferivamo su gomma con un furgone, ogni volta cambiavamo casa, siamo stati in mezzo al deserto, a San Diego, ovunque ci andasse. Questo tipo di manegevolezza ha fatto sì che le idee non avessero limiti. Alla base di tutto c’è stato un ragionamento: vuoi essere figlio del tuo tempo o metterti sugli allori?
Cosa avete risposto?
Abbiamo scelto di guardarci in faccia, sono venuti fuori dei ragionamenti profondi, il deserto ti spinge a guardarti dentro, ti fa sentire piccolo. Non potevamo approcciarci alla scrittura come facevamo 20 anni, abbiamo scelto anche argomenti mai toccati prima.
Raccontateci il tipo di deserto che avete vissuto.
Abbiamo scelto una struttura, definita resort, comprensiva di tre tende e due roulotte. In quel contesto si vivono 4 stagioni nel corso di 24 ore. La natura è estrema, sei completamente isolato e hai la possibilità di concentrarti su quello che stai facendo in quel momento. In quel contesto poteva capitare, com’è capitato, che gli abitanti del luogo, americani che hanno scelto di trascorrere la vecchiaia lontano da tutto, ci invitassero a bere e mangiare con loro. Pazzesco.
Video: I Negrita raccontano la loro America
Tornando al disco, cosa vi ha portato questa profonda connessione con voi stessi?
Siamo arrivati a 50 anni, siamo tutti padri di famiglia, ascoltiamo quello che sta succedendo e vediamo che ci sono in atto cambiamenti importanti. C’è un vento nuovo nel mondo, confidiamo quindi in un cambio di mentalità. L’importante, secondo noi, è che ci sia questo sentore di cambiamento altrimenti saremmo solo degli zombie. Non siamo come ci collochiamo in questo contesto, di sicuro sappiamo che i tempi che sono stati, sono andati. Il presente è quello che ci interessa. Il nostro background deve aprirsi a cose che apparentemente non collimano, bisogna avere il coraggio e la passione di farlo, serve uno spirito temerario, questo ci spinge a ricecare una passione inscritta nel nostro tempo, abbiamo una mentalità aperta e tale resterà in modo che gli input che ci arrivano possano comunque finire nei nostri tratti distintivi.
Com’è la natura di “Desert Yacht Club”?
Questo è un disco da outsider, non è collocabile in una moda, per noi essere una band significa che nel momento in cui andiamo a comporre un album abbiamo raggiunto una certa sintonia mentale. La fase preliminare di questo progetto ci ha visto condividere delle playlist in cui inserivamo le ultime cose che avevamo avuto modo di ascoltare. Questa è stata la nostra agenda di riferimento, il modo per ritrovare un linguaggio comune. Tra le cose che abbiamo scelto ce ne sono tante che sono molto lontane dal rock classico; del resto sono almeno 20 anni che il rock non riesce a proporre qualcosa che raggiunga la massa e che diventi colonna sonora di momenti importanti della vita di ciascuno.
Che tipo di messaggio intende trasmettere la vostra musica cosmopolita
Questo dipende molto dalla sensibilità di ognuno. Ovviamente noi non facciamo musica barricadera. Avendo raggiunto una certa maturità umana, la nostra musica parla della vita, dell’esistenza. C’è il romanticismo, la rabbia, la disillusione, l’amore. Bruce Springsteen sapeva tramutare la vita in musica, così come fanno i grandi classici, questo è quello che preferiamo in assoluto. Cerchiamo di applicare la passione alla musica, il risultato è un ventaglio di ampio respiro. Quello che serve di più è la coscienza perchè i modelli imposti della società sono piuttosto confusi e inquinati da tanti input. I valori veri e importanti sono sempre meno focalizzati, bisogna dare strumenti ai ragazzi per intraprendere un percorso umano, stiamo annacquando tutto nel mondo del digitale e dei social network, in questo modo le cose perdono di significato e di intensità. Per noi artisti questo significa che abbiamo un ruolo, non che debba essere caricato di responsabilità, il che sarebbe vincolante per la nostra espressività.
Da dove nasce il brano “Non torneranno più”?
Tornavamo da San Diego, stavamo per chiudere la giornata ma all’improvviso è arrivato uno spunto così potente da spingerci a lavorare subito. Abbiamo preso coscienza poco a poco del contenuto di questo pezzo rivolto alla nostra generazione nata a fine ani ’60. Parliamo ai nostri coetanei lasciando un piccolo spazio al rimpianti. Ad un certo punto ci siamo resi conto che siamo genitori e ci è venuto naturale scrivere anche ai nostri figli in “La rivoluzione è avere 20 anni”. Abbiamo usato la frase di Gandhi “Be the change you wanna see in the world” per dire ai ragazzi di oggi: “Pensate come volete, l’essenziale è che capiate che quella lì è l’età giusta per cambiare le cose”. I ragazzi di oggi devono poter avere gli strumenti per leggere la realtà, se li costringiamo dentro format predefiniti creiamo degli infelici e degli irrisolti.
Quanta California c’è in questo album?
La California è stata un imprinitng. Dopo il tour europeo abbiamo toccato Los Angeles e ci siamo rimasti per quattro settimane. Questo non è un disco californiano, venivamo da un momento di down, il nostro gruppo cominciava a vedere un orizzonte finito, qualcuno cominciava addirittura a pensare di mettere un piede fuori dalla band. Per fortuna però veniamo dalla provincia che, nonostante i limiti, ci lascia intatti e così siamo rimasti. Il viaggio di questo album è arrivato dalla paura di essere arrivati alla fine, si erano create situazioni che ci facevano pensare di essere arrivati al traguardo, invece siamo ripartiti proprio da dove eravamo per creare un percorso nuovo basato su una soluzione comunicativa incentrata sulla condivisione.
Quindi questo album si può definire come una sorta di terapia di gruppo?
Sicuramente. Quello che proprio non accettiamo è che spesso ci viene chiesto di non cambiare mai. Ogni volta che pubblichiamo un album nuovo, la gente dice “Ma che cazzo si sono fumati i Negrita?”. Il nostro cruccio è che se viene fuori qualcosa che ricorda il disco precedente lo scartiamo, non accettiamo la pretesa egoistica di chi pretende che dobbiamo fare sempre le stesse cose. La nostra attitudine sicuramente è la stessa ma i Negrita sono camaleontici, cambiamo la codifica del suono in base alle nostre esistenze individuali e di gruppo. Cerchiamo quindi di interpretare il nostro tempo e questi anni a modo nostro.
Il disco si chiude con “Aspettando l’alba”, un brano particolare dalla doppia anima.
Drigo: ho scritto questo brano dopo l’improvvisa scomparsa di mio padre. Ho vissuto molto male questo momento, ero sempre l’ultimo che rientrava in hotel dopo i concerti e venivo da una lunga serie di addii che mi ha messo a dura prova per tanti anni. Nel momento in cui mi sono messo a scrivere, ho rielaborato questi addii, il fulcro della canzone è: ogni fine finirà. Io credo che non ci sia una vita sola, ci si reincontrerà in futuro.
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Pau: in questo brano Drigo ha sputato fuori gli ioni negativi. Il brano cambia vita nella seconda parte diventando una pseudo samba attraverso una componente brasileira senza i classici stilemi del samba. L’importante per noi è questi momenti si risolvano con una ricerca di positività. Questa, in effetti, è una caratteristica dei Negrita, molti non ci stimano perchè hanno la sensazione che siamo troppo positivi ma sono opinioni. Noi amiamo mettere in gioco la nostra componente solare, la gente invece tende a tirar fuori la depressione e a crogiolarvisi, noi no.
Dopo la pubblicazione lo scorso 26 gennaio di DELUDERTI, la canzone title-track dal nuovo album di MARIA ANTONIETTA in uscita il 30 marzo, è da oggi online il video del brano PESCI. Guardalo qui: https://youtu.be/C8YVlbtriYk
PESCI è il primo singolo ufficiale della cantautrice, reso disponibile su tutte le piattaforme digitali dal 2 marzo e in radio da settimana prossima. Ascoltalo qui: https://lnk.to/Pesci/
La regia di PESCI è stata curata da Leandro Manuel Emede e Nicolò Cerioni di SugarKane Studio, con i quali è già stata al lavoro sul suo primo album per il clip “Saliva”.
DELUDERTI, il nuovo album prodotto insieme a Giovanni Imparato (Colombre) è in uscita il 30 marzo 2018 per La Tempesta Dischi con distribuzione Believe.
Maria Antonietta al secolo Letizia Cesarini, è nata a Pesaro nel 1987; dopo aver autoprodotto nel luglio 2010 il suo primo disco Marie Antoinette wants to suck your young blood e dopo aver fondato il progetto shoegaze Young Wrists nella sua Pesaro, nel 2012 confeziona l’album d’esordio omonimo in italiano registrato e prodotto da Dario Brunori
Scrive un racconto, Santa Caterina al Sinai, pubblicato da Minimum Fax per l’antologia Cosa volete Sentire a cui ha fatto seguito un lungo tour che dura quasi un anno e mezzo, un brano come Animali (con inclusa una cover di Gigliola Cinquetti) e poi il secondo album Sassi, prodotto insieme ai fratelli Imparato nel marzo 2014 per la Tempesta Dischi. Nel 2015 accompagnata dai musicisti del gruppo Chewingum, decide di re-incidere i brani di Sassi in chiave elettronica, il risultato è l’EP Maria Antonietta Loves Chewingum.
Ora si prepara alla pubblicazione del suo terzo lavoro e del suo nuovo tour, organizzato da BPM CONCERTI, in partenza da Bologna il 20 aprile con in calendario una serie di appuntamenti già annunciati:
Venerdi 20 Aprile 2018
BOLOGNA – TPO
Sabato 28 Aprile 2018
TORINO – Hiroshima Mon Amour
Venerdì 4 maggio 2018
RONCADE (TV) -New Age Club
Venerdì 11 Maggio 2018 -
ROMA- Monk
Sabato 12 Maggio 2018
PESARo -Teatro Sperimentale
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