Il suono che unisce le frontiere, che intende coniugare gli animi esiste? Un mistero che non ha ancora una risposta ma che sopravvive, fiammante ed energico, nel cuore di Goran Bregovic. Emblema dello spirito gitano, il musicista giramondo rompe il silenzio discografico durato cinque anni con “Three Letters from Sarajevo”: un album simbolico con cui Bregovic rompe il tabù della guerra e mette in primo piano il tema della convivenza tra religioni diverse. Il suo intento è nobile, il modo per veicolare il messaggio è sublime. L’incedere voluttuoso degli arrangiamenti corposi, ricchi e maestosi si accompagna a testi che trasudano pathos e sofferenza, tentativi di conciliazione e altrettanti furiosi fallimenti. Quasi dieci anni di guerra nei Balcani, l’assedio di Sarajevo dal 1992 al 1996, gli accordi di Dayton, la fine delle ostilità, il lento ritorno alla normalità.
Un uomo di frontiera che la racconta come nessun altro e che attraverso la musica e la poesia si trasforma in un demiurgo di bellezza. Come? Ideando un concerto per tre violini solisti, orchestra sinfonica e la Goran Bregovic Wedding and Funeral Orchestra. L’idea delle tre lettere prende simbolicamente vita grazie a tre assoli di violino suonati rispettivamente da Mirjana Neskovic (Serbia), Zied Zouari (Tunisia), Gershon Leizerson (Israele).
La vera curiosità di questo disco è che in realtà esso rappresenta il primo capitolo di un doppio album, di cui la seconda parte vedrà la luce nel 2018: la connotazione pop di questo progetto sarà completata da quella propriamente orchestrale concepita per orchestra sinfonica.
Ad arricchire ulteriormente i contenuti di “Three Letters from Sarajevo” sono gli ospiti: l’israeliano Asaf Avidan, l’algerino Rachid Taha, la spagnola Bebe. Le storie da loro raccontate esulano dal tema centrale ma a loro modo completano la panoramica secondo cui dovremmo riuscire a mettere insieme gli elementi necessari per convivere pacificamente.
Le contraddizioni, le imperfezioni, la volatilità dei sentimenti e dei pensieri, l’instabilità dell’equilibrio umano sono modellate da voci e suoni trascinanti. L’irresistibile fascino di una festa tragica rapisce l’inconscio, capace, a sua volta, di trarre forza dalle cose più infime e terribili.
Atmosfere scure, neoromantiche e sanguinarie cedono il passo alla richiesta urgente di vita, di cultura, di compartecipazione. Quasi un invito a buttarsi verso il futuro come degli scavezzacollo. Il marchio di fabbrica è sancito da “Made in Bosnia”: la vita gipsy è tutta qui; a noi le istruzioni per l’uso.
Raffaella Sbrescia
Video: Three Letters From Sarajevo