Con imperdonabile ritardo ma con encomiabile entusiasmo vi presento S.P.O.T (Senza perdere ‘o tiempo) di Giovanni Block. Figlio dell’arte compositiva, immaginifico/letteraria di questo sorprendente cantautore, l’album rappresenta una boccata d’aria fresca per chi intende la musica come baluardo di artigianalità. Le 11 (10 più una) canzoni che compongono la tracklist del disco racchiudono i tratti somatici di un modo di intendere la vita, l’amore, il sogno, il dolore. Ironia, fatalismo, sagacia, disillusione, romanticismo convivono nell’anima, nella voce e negli strumenti di Giovanni regalandoci una dolce sensazione di benessere e completezza. Il dialetto è il plus ultra, è la chiave di lettura di un modus vivendi veramente comprensibile solo a chi ha l’anima forgiata da una vita vissuta alle falde del Vesuvio.
L’album si apre con “‘O mare va truann’ ‘e forte”: il mare cerca i forti di cuore, di spirito, di braccia per lottare, per vivere e barcamenarsi con destrezza durante le tante tempeste a cui siamo esposti. Dio, prenditi le mani e dammi le ali, canta BLOCK, allora sì che sarebbe tutto più semplice. Accattivante e ben strutturata l’impalcatura ritmica basata su un tipo di chitarrismo professionale e sapientemente calibrato. L’ascolto prosegue con “Tiempo ‘e viento”, realizzata con Alessio Arena e Batà: il vento è patrigno, il tempo è arcigno e indifferente al rovente ritmo latino che soffia dal sud del mondo. Si va avanti con “Sule” la ballad, riproposta più avanti in una versione con Epo, vince per il fascino regalatole dai versi blues di una chitarra che parla chiaro: guardare in faccia la gente ci rende nudi, ci spoglia, mostra la nostra paura di vivere e di parlare. Scarti di paradiso, soli tra soli, siamo destinati a sopravvivere a noi stessi.
Geniale, viscerale, irriverente è “Adda venì baffone”: attesa e invocazione di un riscatto esistenziale. Il brano è figlio della scuola di Pino Daniele; un blues rugginoso, scomodo, autentico, sporco di organico. Struggente e dolorosa la trama di “E va fernì semp accussì”: un uomo è solo sul suo letto, sordo al mondo se non a un amore non corrisposto; il ritratto dell’infelicità. Si arriva poi al rendiconto professione con “Dint all’underground”: una vita vissuta in mezzo al sound, con la vera passione per la musica nelle vene, con l’adrenalina e la consapevolezza di avere gli strumenti e i compagni di viaggio giusti per costruire qualcosa che prenderà tutte le proprie energie ma che sarà valsa la pena aver prodotto. Bella la collaborazione con Francesco Di Bella in “Senza dicere niente”, più bella e più intensa quella con la bravissima Flo in “Core mio”: due anime cantano un stream of consciousness dal messaggio preciso ed inequivocabile: lascia la paura, scendi dalla croce che ti sei costruito. Immancabile il rimando alla tradizione antica con la tammurriata di “Storia di un antico tradimento”. Onirico il finale con “Palomme ‘e notte”: una serenata fresca e gentile, un inatteso massaggio alla nostra anima tormentata.
Raffaella Sbrescia
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