“La musica è pericolosa” è il titolo del libro scritto da Nicola Piovani, edito da Rizzoli nella collana Saggi Italiani. Il titolo del volume si ispira ae una frase di Federico Fellini, l’indimenticabile regista con cui Piovani, musicista, compositore, direttore d’orchestra, creatore di musica “d’avanguardia e di retroguardia” ha collaborato per diverso tempo. Ad unire queste due speciali personalità una rara amicizia e una profonda sintonia spirituale, raggiunta attraverso l’irresistibile e reciproca attrazione nei confronti della musica.
Proprio la musica, scrive Piovani, agisce ad un livello profondo e inconscio e, attraverso, la fedele narrazione di idee, pensieri e impressioni personali, l’artista ci porta per mano nella sua vita, ci lascia affacciare alla finestra della sua anima per scoprire aneddoti, incontri, esperienze, momenti di vita vissuta e conoscere le persone, i fatti, i momenti che lo hanno ispirato. Privo di orpelli, appellativi ed onorificenze Piovani racconta se stesso presentandosi innanzitutto come un appassionato e attentissimo amatore della musica, nei cui riguardi invoca amore e rispetto: “La musica merita rispetto, che si chiami leggera o pesante, colta o commerciale. Usarla come uno zerbino sonoro mi ricorda quei milionari texani cafoni che hanno la Gioconda stampata sugli asciugamani, il macinapepe a forma di Tour Eiffel e Albinoni in sottofondo”.
E poi, ancora, “ tanti e diversi sono i modi di frequentare la musica, tante e diverse le ragioni che ci inducono a frequentarla”, scrive Piovani, “una grandissima parte delle musiche che ascolto con attenzione silenziosa, è stata concepita all’origine per espletare una funzione. Il livello espressivo di una musica non è strettamente legato alla nobiltà dell’occasione che l’ha vista nascere”. Lo sa bene lui che ha composto tante musiche, ormai celeberrime, ispirate anche dalla sua infanzia, come “La banda del pinzimonio” composta per Benigni, la combinazione mi-fa-sol de “Il bombarolo”, scritta per De André, o la canzone “Quanto t’ho amato”, scritta con l’amico Vincenzo Cerami, al fianco del quale ha lavorato per tanti anni. Lui che, nel suo libro, ricorda com’è cambiata la sua vita con l’arrivo in casa della rivoluzionaria Lesaphon Perla, la fonovaligia acquistata per le feste di suo fratello e su cui lui ascoltava insaziabilmente Bach e Beethoven per studiarne ogni singolo dettaglio. “La musica che mi seduce è quella che sa sorprendermi e arriva spesso da zone diverse da quelle che mi aspetto, quando meno me l’aspetto”, spiega Nicola, che aggiunge,“ chi non sa stare al tempo, prego andare”, cantava Enzo Jannacci, chi va fuori tempo a volte si crede un artista trasgressivo ma spesso è solo un somaro”.
Attento ai dettagli e alla cura artigianale della costruzione del suono, Piovani dedica anche un’ampia critica al teatro lirico contemporaneo: dal volgare stravolgimento dei grandi classici, all’introduzione dei microfoni a teatro, definiti “viagra della virilità vocale”. Piovani si scaglia contro l’utilizzo delle nuove tecnologie a teatro che rischiano di uccidere l’essenza e l’anima del linguaggio teatrale criticando l’opulenza invasiva della tecnologia. Lui che si è sempre inoltrato come uno sprovveduto esploratore in zone distanti per scoprirne il lessico e le retoriche, detesta la musica passiva, la cosiddetta “musica da parati”, quella musica banale, “di sottofondo”, priva di idee o spunti di riflessione, che spesso accompagna le azioni di ogni giorno, nei luoghi pubblici, in albergo o persino al supermercato e che ci viene proposta per scampare all’abominevole condanna dell’anonimato.
“Le canzoni vivono nell’aria, vengono respirate anche da chi non ci fa attenzione. Le canzoni attraversano la vita dei nostri giorni, delle nostre città, delle nostre intimità, se ne infischiano della critica. Il segno che una canzone lascia nel suo tempo è qualcosa che sfugge all’analisi critica, è qualcosa di imprevedibile, “una delle testimonianze più irrazionali e convincenti dell’essenza del soprannaturale”, per dirla alla Piovani.
Raffaella Sbrescia