Umbria Jazz: quattro spettacoli all’insegna del jazz etnico, con sconfinamenti nel tribal e nel repertorio latinoamericano più ricercato.

I concerti del 18 e del 19 luglio all’Arena Santa Giuliana hanno avuto un carattere monotematico e geografico: Africa il 18 e Cuba il 19: quattro spettacoli all’insegna del jazz etnico, con sconfinamenti nel tribal e nel repertorio latinoamericano più ricercato.
E tre di loro sono stati veramente eccezionali.

La prima menzione è per Somi, che ha sostituito Laufey, e che con la sua caratterizzazione vocale crea un raccordo tra il le sonorità jazz più pure e raffinate, il soul e le radici musicali africane. Somi, statunitense dell’Illinois, si ispira alla figura di Miriam Makeba, cantante gigantesca, attivista per i diritti civili in sudafrica per cui ha composto anche un musical: “Dreaming Zenzile the reimagination of Miriam Makeba”, in celebrazione di quello che avrebbe dovuto essere il suo novantesimo compleanno. Un lavoro è stato premiato con il Jazz Music Award per l’interpretazione vocale. E la voce sicuramente non manca a questa statuaria artista, che propone sul palco della Santa Giuliana un’ ora abbondante di performace vocale nella miglior tradizione jazzistica, con vocalizzi che riportano alla mente le evoluzioni di Nina Simone e Dianne Reeves cui viene spesso paragonata, e anche Joni Mitchell. Già presente in rassegna lo scorso anno, con movenze di danza quasi tribali, nonostante la raffinata mise scenica, e con una vocalità articolata e plasmabile molto espressiva e spontanea porta una nota diversa rispetto a ciò che andremo a vedere in seconda serata e nella giornata del 19.

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Qui il Jazz è dominante, la coniugazione con la tradizione sudafricana avviene più in termini di contenuti che di espressione sonora, l’ascolto è impegnativo, e non ce ne sentiamo all’altezza: quando il jazz si fa puro, purtroppo, i nostri padiglioni auricolari non hanno la capacità di sostenerlo in tutta la sua integrità, ma è un limite nostro. La donna che è sul palco merita un profondo inchino e un prolungato applauso per i suoi vocalizzi di assoluta qualità, per la sua performance artistica, per la sua formazione, per lo spessore umano, e per l’impegno in ambito politico e sociale. E si esibisce il giorno del Mandela Day, non crediamo sia una coincidenza, ma se lo è, è una coincidenza assai significativa.

E’ poi la volta dell’attesissima, colorata, esplosiva Fatoumata Diawara, e la musica cambia completamente. Qui siamo nella dimensione afrotribale più convinta, e, va detto, assistiamo a qualcosa di davvero entusiasmante. Nata in Costa d’Avorio ma genitori provenienti dal Mali, in Mali torna all’età di 12 anni, e poco dopo, comincia la sua carriera artistica come attrice. Ha lineamenti bellissimi e particolari, Fatoumata, già solo i primi sorrisi che rivolge a noi fotografi nel pit, ci annunciano una serata all’insegna del “feeling good“, standard inserito nella performance e proposto anche a Propaganda Live che l’ha voluta nei suoi studi proprio di recente. Ha chiesto di non occupare la parte centrale del PIT: le foto si (e ci caveremo la voglia, per la tanta bellezza che c’è da ritrarre), ma nel rispetto del pubblico.

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Ora, apriamo una parentesi: i fotografi sono molesti, soprattutto quando sono tanti. Spesso non hanno rispetto per il pubblico pagante che ha il sacrosanto diritto di godersi il concerto in santa pace. Ne siamo consapevoli, noi fotografi. Forse non tutti, ma sicuramente chi sta sotto un palco da decenni sa come ci si deve muovere. Non sempre accade, quindi bel venga, almeno per quanto ci riguarda, la decisione presa a tutela del pubblico.
Ma torniamo a lei: Fatoumata si ispira al canto wassoulou, con incursioni nel jazz e nel blues. Ha avuto modo a inizio carriera di collaborare con Herbie Hancock, e diventa in breve tempo una delle rappresentanti più significative della musica contemporanea africana. Colore, danze, musica pirotecnica, scenografie variopinte e raffinate, in cui si mostra, anche attraverso i filmati che scorrono alle sue spalle, in tutta la sua bellezza: messaggi incondizionati di amore, pace e serenità. Un invito continuo ad aprire la mente, a lasciarsi andare, a partecipare. Chiama il pubblico sottopalco, e il pubblico non se lo fa dire due volte.
Fatoumata Diawara è quasi profetica nel suo raccontare l’Africa e il potenziale espressivo del continente nero, nell’immaginario che lo unisce all’Europa, crea una dimensione in cui è possibile impadronirsi del proprio futuro, e si, chi l’ha definita “Afrofuturista”, non ha sbagliato.
Ci lascia con un’esibizione, in un bis più volte reiterato, di impatto squisitamente tribale. Maschera tradizionale e una grande energia, che riscatta la difficoltà di ascolto del concerto precedente. E le auguriamo un futuro coronato da meritati successi e grande visibilità. Il mondo della musica ha bisogno di lei.
Nella giornata del 19 luglio, invece la protagonista è la Isla grande, Cuba: la patria della musica per eccellenza.
A Cuba suonano tutti. Abbiamo avuto l’opportunità di soggiornarvi a lungo, e abbiamo visto fare musica con tutto. Cuba si sveglia a passo di danza e va a dormire a passo di danza, quando va dormire: non esiste nulla di tanto coinvolgente al mondo come l’energia positiva che arriva dai ritmi cubani, che sono qualcosa di profondamente diverso e raffinato rispetto ai ritmi latinoamericani più ortodossi.
E questo ci racconta l’ultra ottuagenario Chucho Valdès, in un’ora e mezza di concerto che ne vale dieci. Probabilmente il più famoso musicista cubano di Jazz, dopo un’entrata divertente e divertita (oddio, questa sera i cubani ci hanno fatto impazzire di gioia e divertimento) questo potente figlio d’arte comincia subito con Mozart, e che Mozart: scoppiettante e allegro sui tasti del pianoforte il musicista austriaco viene reinterpetrato in chiave jazz con una fluidità che sente l’influenza del sudamerica, e in particolare di Cuba, dove con la musica si può tutto. Entra in scena a pugno chiuso, e con tanto di bandiera cubana e italiana al seguito, eppure negli Stati Uniti è stimatissimo: cittadino onorario di Los Angeles, San Francisco, New Orleans e Madison, premiato con i grammy awards, gli states lo amano, lui non disprezza, ma cuore e anima sono a Cuba. Ha ridisegnato i tratti della musica cubana , ha diretto molte band e questa sera celebra Ikarere, e il suo cinquantennale. Si muove, scherza, dirige, suona…quanta energia positiva questa cariatide del Jazz, nella festa in onore di quella che ha rappresentato una vera e propria linea di demarcazione per quanto riguarda la musica della Isla Major. Esiste un prima e un dopo il progetto Ikarere, e Valdes ne è la mente raffinata, che ha fatto della contaminazione ad ampio spettro quasi una missione. Musica popolare, afrocuba, fusion, jazz, rock, musica classica: quante cose ci mette Valdès sui tasti del pianoforte. Tante da mandare in visibilio e lasciare letteralmente a bocca aperta.

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Musica e alchimia, diremmo, in una performance difficile da dimenticare e, sì, commovente.
Ci commuove Cuba, ci commuove la sua generosità: come non ricordare la sorridente equipe medica sbarcata con i vaccini (a prescindere da come la si pensi, un gesto di generosità assoluta), in un paese che, forse con meno convinzione di altri, va detto, ma è pur sempre complice di quella politica di embargo che da più di sessant’anni ne determina le condizioni di vita, decisamente poco agevoli. Eppure i cubani non perdono il sorriso, l’energia e le note.
Non lo fa Roberto Fonseca, incredibile protagonista del concerto successivo. L’aria già frizzante, si riempie di un perlage di bollicine che scoppiettano su per il naso, di energia densa e quasi materica.
Con all’attivo collaborazioni con i mitici Buena Vista Social Club e Ibrahim Ferrer, anche per Fonseca la contaminazione è fondamentale criterio di espressione.

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Siamo di fronte a un pianista che abbraccia il pianoforte, fisicamente, che fa vibrare i bicipiti mentre “pista” elegantemente sui tasti, che accompagna la musica con espressioni del volto estremamente accattivanti. E che suona con una band da paura.
Nel progetto che abbiamo apprezzato in maniera totale, e che prende il nome di La Gran Diversion, Fonseca si stacca dal suo genere consolidato e si butta a volo d’angelo nelle sonorità più espressive della madre patria. Dediche a Buena Vista (los Mejores), un viaggio nella Cuba degli anni 20, del favoloso Perez Prado, quella del mambo, un invito a ballare fin quando ce n’è, qualche ammiccamento elegante al tribal cubano, che è un tribal raffinato, molta coreografia, musicisti bellissimi, entusiasmanti sorridenti, che escono e rientrano sul palco tre volte, e ogni volta si abbracciano tutti. Lo fanno con convinzione, si cercano, ci cercano: di fronte a tanto disinvolto calore, che culmina in un momento di altissima commozione nel brano dedicato alla Madre, Mercedes, mentre scorrono le slide delle foto dell’album di famiglia, e della Cuba meravigliosa che non smetteremo mai di amare, balliamo, ma con gli occhi umidi per la commozione, e ci allontaniamo a ritmo di danza da un’arena che stenta a spegnersi.
Grazie Cuba e grazie Umbria Jazz.
Roberta Gioberti