Giornata di scoperte e di conferme la quinta di Umbria Jazz. L’appuntamento pomeridiano in sala Podiani è con Rita Marcotulli. La Signora Marcotulli non ha bisogno né di presentazioni né di referenze. Il suo talento la ha giustamente portata a calcare le scene internazionali, e rappresenta il nostro fiore all’occhiello, per quanto riguarda il Jazz italiano nel mondo.
Ci piace ricordare, anche per motivi squisitamente personali, che è figlia di Sergio Marcotulli, uno dei tecnici del suono più significativi nel trentennio compreso tra il 1970 e il 1990.
Il suo nome e la sua foto comparivano già all’interno dell’album di De André “Storia di un impiegato”, e senza di lui molta della musica che abbiamo conosciuto ed amato, e continuiamo ad amare, non avrebbe suonato così bene.
La sensibilità artistica e quella musicale, quindi, le ha nel sangue, e nel corso della sua oramai quasi cinquantennale carriera è riuscita, con grazia, leggerezza e determinazione, a imporsi sulle scene musicali di tutto il mondo, vantando collaborazioni davvero importanti.
Nel 2017, proprio qui ad Umbria Jazz venne insignita del riconoscimento di Ambasciatrice dell’Umbria nel mondo, e nel 2019 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella le ha consegnato il premio onorario come Ufficiale della Repubblica. Sempre nello stesso anno la Royal Swedish Academy of Music le ha conferito il ruolo di membro, accanto a nomi del calibro di Path Metheny, Keit Jarret, Riccardo Muti: insomma un monumento.
Arriva con una semplicità che innamora, sembra una farfalla, sorridente, disponibile, è li, la potresti toccare e lo fai, idealmente: una sorta di statua di Donatello che puoi accarezzare in tutto il suo splendore.
Ecco, la semplicità e la disponibilità di Rita sono quasi disarmanti.
Il suo set, per “Piano Solo” si articola su esecuzioni che coinvolgono il pop, la musica da cinema, un emozionante Pasolini, i Beatles…ce n’è per tutti.
Ma la cosa che più colpisce, sono le parole semplici che rivolge al pubblico: ”non lo so nemmeno io che suono, e mi rendo conto che andare a recuperare note distinguibili in un contesto di improvvisazione non è facile”. Si chiama empatia, o ce l’hai o non ce l’hai. Si può essere il top in fatto di conoscenze musicali e decidere, invece di farle cadere dall’alto, di porgerle su un vassoio di umiltà. E’ toccante.
Richiamata in sala (sold out, manco a dirlo) per un bis, gioca col pubblico, lo invita a partecipare, lo abbraccia.
Un monumento che si inchina: pensiamo non esista nulla di più commovente al mondo. Grazie Rita, grazie davvero.
Alle 17, al Morlacchi, in una Perugia che parrebbe meno affollata, ma non nelle sale, si esibisce l’ensemble Something Else: icona del soul jazz.
Si tratta di una band di sette musicisti, selezionati di volta in volta ad ogni esibizione tra una rosa che annovera i migliori nominativi del genere. Vincent Herring al sax alto, Wayne Escoffery al sax tenore, Jeremy Pelt alla tromba, Paul Bollenback alla chitarra, David Kikosky al pianoforte, Essiet Essiet al contrabbasso. Assente Joris Dudli alla batteria, la sola piccola variazione al programma iniziale, il settetto regala note decise, molto soul, intense e impeccabili improvvisazioni sui singoli componenti, una formula ortodossa e molto valida per una proposta che viene apprezzata dai presenti in sala, sicuramente intenditori ed estimatori del genere.
Possiamo definirla una giornata all’insegna delle eccellenze femminili, quella del 16 luglio: in Arena Santa Giuliana il palco è tutto in rosa, con i concerti di Lizz Whright e Hiromi.
Hiromi la ricordiamo nel 2017, quando diede vita ad un’esibizione stupefacente. E stupefacente è quanto vediamo su quello stesso palco oggi: una ragazzina, Hiromi, anche se non lo è più anagraficamente, fresca, colorata, originale, ossequiosa, come la miglior tradizione culturale giapponese impone. Parla in italiano, aiutandosi con degli appunti, è segno di rispetto e desiderio di comunicare con un pubblico che la ama: il famoso feedback che spesso fa la differenza.
Accompagnata da tre eccellenti turnisti, propone l’Hiromi’s Sonicwonder, un insieme frizzante di jazz, funky, rock, ma non solo: sul bis la sua esibizione si fa sognante, forse ispirata dalla luna che si staglia sul cielo sereno di Perugia, e ci dona un momento di fiabesca magia.
Approvazione incondizionata dalla platea, riunitasi tutta sottopalco, e non potrebbe essere diversamente.
Prima di lei, però, sul palco una vera rivelazione, almeno per chi scrive. La divina Lizz Wright, una voce unica, densa, calda, fondente come una tazza di cioccolata in pieno invermo, scende su una platea incantata. Ecco, le cose che ci fanno amare Umbria Jazz: le scoperte.
Una cantante che sa ciò che vuole, che ama l’indipendenza, che ha fondato una sua casa discografica, proprio per avere il controllo diretto sulle sue scelte artistiche, senza dover rendere conto a nessuno: e già qui, tanto di cappello.
E’ blues il suo sound, blues caldo ed elegante, quella voce che smuove lunghi brividi sulla schiena, mentre la temperatura dell’aria pian piano cala, ma non quella dei cuori. Ciò cui assistiamo è davvero emozionante, qualcosa che vorresti non finisse mai. Ha qualcosa che ricorda Tracy Chapman, nelle corde vocali e non solo, e quando ci fa dono di una cover incredibile di “Old Man”, è sicuramente amore.
Insomma, le Signore dicono la loro, e la dicono a gran voce: Rita Marcotulli, Hiromi e Lizz Whright. Una giornata a tinte rosa, ma rosa intenso ad Umbria Jazz. Con buona pace, almeno per oggi, del mondo jazzistico maschile.
Roberta Gioberti