Joan Baez a Caracalla: una notte per tirare le fila della beat generation

Joan Baez - Caracalla - Roma ph JR

Joan Baez – Caracalla – Roma ph JR

Erano gli anni ’60 e qualcosa cambiava nel panorama musicale internazionale; voci diverse arrivavano dagli States.
Voci di rivolta, di protesta. Erano gli anni delle guerre. Beh, ogni epoca storica ha la sua guerra da ricordare. Ma quelli erano gli anni in cui, per la prima volta, il sistema mediatico entrava a far parte in diretta dei meccanismi di guerra. Erano gli anni delle guerre ideologiche (la guerra fredda), e di quelle fisiche. Una su tutte, il Vietnam. Erano gli anni in cui si ruppero gli schemi: Freedom and Peace, gioia e voglia di vivere, opposizione, scontro, rottura, rivoluzione culturale, rivoluzione sessuale.
Sono stati gli anni durante i quali gli Stati Uniti d’America hanno dato il meglio che potevano dare. E lo hanno dato attraverso la musica e le arti figurative.
Cominciò un certo Elvis, con un provocatorio movimento pelvico che mandava in delirio il pubblico, tanto maschile che femminile, e, dietro lui, ne vennero molti altri. Ma, a latere del Rock, e della trasgressione di carattere squisitamente culturale e musicale di cui si faceva portavoce, ci fu l’impegno politico.

Joan Baez - Caracalla - Roma ph JR

Joan Baez – Caracalla – Roma ph JR

Trovò la sua forma comunicativa questo impegno, quasi provocatoriamente, nell’ortodossia statunitense più radicata, quella del country, ed utilizzò il mezzo espressivo della ballata, o racconto, per denunciare i grandi temi di giustizia sociale, temi che una parte della Nazione Americana, in quel momento in cui partivano ragazzi sani e tornavano relitti, (quando tornavano), trasformò in una filosofia di vita.
Era la Beat Generation.
Ne divenne testimone un certo Robert Allen Zimmerman, in arte Bob, Dylan per gli amici. Fu lui a diventare l’emblema di quella generazione, fu lui il primo a proporsi come personaggio chiave del “movement”, e ad andare controcorrente e controcultura.
Vicino a lui, una ragazza. Bellissima, lunghi capelli neri, fisico filiforme, look disinvolto, sorriso incantevole, e doti canore ineguagliabili, oltre ad una marcata personalità espressiva che la rendeva inconfondibile: Joan Baez. 
Quello che la Baez ha rappresentato nel panorama musicale mondiale, e in quello della generazione beat e di quelle subito successive, oramai è storia. Soprattutto, ha rappresentato la possibilità di riuscire ad ascoltare quei bei testi e quelle belle ballate di Dylan, cantate bene. E non è poco.

Ai tempi era un’icona. Volevamo vestirci come lei, pettinarci come lei, suonare la chitarra come faceva lei, cantare le cose che cantava lei. E crederci, come ci ha creduto lei.
Portavoce della protesta, portavoce della ribellione, portavoce del riconoscimento di quei diritti alle donne troppo spesso negati, protagonista nei Sit In, nelle manifestazioni, nelle rivendicazioni di piazza, nei grandi raduni musicali, divenne il simbolo, al femminile, di un processo irreversibile, che trasformò radicalmente l’America, il suo modo di fare musica, cinema, letteratura, cultura. Milioni di persone iniziarono a dubitare del mito dell’americano buono, l’onesto difensore della legalità, degli ideali della libertà e della democrazia a prezzo della vita.
Fu una rivoluzione culturale, pacifica, che sfociò nella decisione, da parte del governo statunitense, di porre termine alla guerra in Vietnam, ma soprattutto segnò un cambiamento radicale nelle coscienze degli americani e nel loro rapporto con le istituzioni.
Musicalmente incolta, proveniente da un Midwest povero e sottosviluppato dal quale era uscita con grandi sacrifici, ha avuto il pregio di raccontare quelle giornate in musica come nessuno fino a quel momento era mai riuscito. Con note e parole che, come diceva Dylan, si «volavano nel vento».

Joan Baez - Caracalla - Roma ph JR

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Era il talking blues, il blues parlato. Queste canzoni di grande impatto emotivo, ascoltate e ripetute da una intera generazione di giovani, sono diventate non solo un simbolo, un manifesto, ma hanno fatto qualcosa di più. Ci hanno cresciuti.
Ieri metà di quel manifesto era sul palco di Caracalla, per una delle ultime tappe musicali della sua carriera.
77 anni, ancora bellissima, con la sua chitarra acustica, entra sobriamente e al buio sul palco, e subito riecheggiano, pulite, le note di “Don’t Think twice it’s alright”, e “Farewell Angelina”. E il pubblico si scalda.
Tre brani “unplugged”, pochi sorrisi ed un poco di tensione per i fotografi sottopalco, e dopo fanno il loro ingresso il polistrumentista Dirk Powell e il figlio della Baez, Gabriel Harris, alle percussioni.
Due virtuosi che l’accompagnano per un’ora e mezza, attraverso un percorso musicale che proietta la platea cinquant’anni indietro. I più fortunati, quelli che “c’erano” (e non sempre la vecchiaia è una brutta cosa), con le lacrime agli occhi, ricordano pantaloni a zampa di elefante, folte chiome color Henné, qualche “digressione” sulle droghe leggere, e l’idea che avevano di cambiare il mondo, e quanto ci hanno creduto, che questo mondo sarebbe cambiato in meglio.
La voce della Baez tiene benissimo, però, certo, non si può pretendere che abbia quelle incursioni sulle alte note che aveva cinquant’anni fa. E così, a darle sostegno, arriva Grace Stumberg, vocalist dotata di un timbro acuto e squillante.
“God Is God”, “Whistle Down the Wind”,” It’s All Over Now, Baby Blue”, “Another World”, l’omaggio a Janis Joplin con “Me and Bobby McGee”, e “Gracias a la vida”, in onore di Violeta Parra, già eseguita in passato in coppia con Mercedes Sosa, che della cantautrice cilena è la naturale erede, e ogni nota è una stilettata in pieno petto.
E questo è un dono che solo i grandi interpreti possiedono.
In scaletta ci sono anche “C’era un ragazzo”, e “Un mondo d’amore”, ma c’è una sorpresa.

Joan Baez - Caracalla - Roma ph JR

Joan Baez – Caracalla – Roma ph JR

Morandi, presente tra il pubblico, sale sul palco e le cantano insieme. Morandi nasconde dietro la sua disinvolta postura una grandissima emozione che esplode in un : “Voi non potete capire cosa voglia dire per me eseguirle dal vivo con Lei (che ai tempi le inserì nel suo repertorio), dopo 50 anni: Ho aspettato 50 anni e questa è l’ultima occasione.”
Noi, che con quelle canzoni siamo cresciuti, lo capiamo, ci commuoviamo e le cantiamo insieme a loro, e per un momento torniamo ai falò sulle spiagge della nostra gioventù, a quella voglia di stare insieme, di condividere valori positivi, di confrontarci, di dire NO.
Morandi invita il pubblico, che non se lo fa ripetere, ad intonare un “Roma nun fa la stupida stasera”, per Joan, sorridente ma triste allo stesso momento. E’ il suo tour di addio.
“Io vado via, ma la combattente resta”. E Dio sa di combattenti quanto ce ne sia bisogno al giorno d’oggi.
Dopo un’intensa interpretazione di “Imagine”, il pubblico canta, con lei che suona la chitarra, come se fossimo tutti sulla stessa spiaggia, o nella grande platea di Woodstock, “The boxer”. Un accompagnamento d’eccezione alle nostre voci, che riecheggia a lungo, nella commozione serrata in gola, in questo elegante, signorile ed intenso commiato; e nella frase del Maestro Zaccheo, chitarrista di spicco della scena musicale capitolina, accompagnatore, tra gli altri, di Giulia Anania nel progetto “Bella Gabriella”, che la serata non se l’è voluta perdere, e mi ha fatto l’onore della sua compagnia: “JR, …….te rendi conto che è tutto finito?”
Io me ne rendo conto, ma al momento prevale la commozione.
Molti giovani tra il pubblico: se chi è più grande di loro avrà la capacità di raccontare cosa ha rappresentato la Beat Generation nel mondo, forse è tutto finito: ma penso che non tutto sia perduto.
Joan, lasci le scene, ma sai che hai eretto un monumento più perenne del bronzo.

JR