Roberto Panucci è uno dei fotografi professionisti più stimati d’Italia. La sua carriera, iniziata quando era ancora adolescente, lo ha visto protagonista di un percorso professionale estremamente variegato: dalla tradizionale camera oscura, Roberto è passato alla fotoriproduzione e alle arti grafiche conferendo un ulteriore aspetto di completezza alle sue competenze. Da tantissimi anni Roberto opera, con successo, nel mondo della fotografia musicale. Fotografo ufficiale di Pino Daniele e del concertone del Primo Maggio a Roma, Roberto collabora con alcuni dei più prestigiosi magazine specializzati in campo musicale. Sono centinaia i concerti che Panucci fotografa ogni anno attraverso la preziosa lente dei suoi super obiettivi ed è proprio per queste ragioni che l’abbiamo incontrato per conoscere i segreti, le problematiche e le soddisfazioni di un “ritrattista di note” come lui.
Roberto hai trascorso trent’anni e più dietro un obiettivo…Su cosa si orienta la tua ricerca visiva e come cambia in base al contesto in cui ti trovi ad operare?
Molte volte ti lasci trasportare dal momento, questo dipende anche dalla situazione e dal lavoro che stai facendo. In genere il lavoro durante i concerti è molto più difficile da gestire perché spesso abbiamo a disposizione solo uno, due o tre pezzi e, in un tempo minimo, devi riuscire a portare qualcosa di buono a casa. La cosa che sicuramente viene più naturale è lasciarsi trasportare, rapire da quello che succede di fronte a te. Ognuno possiede, dentro di sé, il proprio modo di vede le cose ma, quando sei sottopalco, devi cercare di lasciare da parte i tuoi pensieri e gli eventuali problemi che attanagliano la mente. Il tuo compito è dedicarti anima e corpo a quello che succede sul palco.
Spesso le tue foto costituiscono un filo che unisce l’artista e lo spettatore, ti capita di pensare all’importanza che riveste il tuo ruolo?
Certo, ci penso spesso! Si tratta di un grande onore per me perché è una cosa bellissima. Secondo me riuscire a rendere anche un solo decimo di quello che vedo e trasmettere alle persone che vedranno le mie foto i momenti e le emozioni, che ho il privilegio di poter vivere, spesso a pochi metri o addirittura a una manciata di centimetri di distanza dagli artisti, è un dono molto prezioso. Magari alcuni di questi artisti sono degli idoli per tante persone mentre per noi, addetti ai lavori, non lo sono ed è molto importante cercare di lasciare da parte proprio questo. Molte volte capita, infatti, di fotografare qualcuno che non ci piace artisticamente ma, nonostante ciò, dobbiamo pensare di dover dare la possibilità alle persone di vedere qualcosa attraverso i nostri occhi. Gli strumenti di questo lavoro sono ovviamente le attrezzature che, insieme all’esperienza e all’intuito, costituiscono le risorse fondamentali per riuscire nel nostro compito. Molte volte le persone ci scrivono, ci arrivano dei messaggi davvero emozionanti ed è in questi momenti che ci si rende conto del fatto che esiste una linea che collega l’artista che sta sul palco, noi che lo fotografiamo e le persone che, attraverso i nostri scatti, rivivono o si interfacciano con le loro emozioni.
Quanto e come cambia l’approccio tecnico e l’attrezzatura necessaria a seconda delle location in cui dovrai scattare le tue foto?
Ovviamente l’attrezzatura è cambiata negli anni e si è adattata anche ai cambiamenti del mio ruolo. Attualmente ho tre corpi macchina: una Nikon D3s, una D3 e una D700, che ormai uso per le emergenze, poi ho una serie di ottiche professionali della Nikon: 14-24, 24-70, E 70-200, della serie Nano Crystal in f.2.8 fisso che, a qualsiasi distanza focale, mantiene nello zoom il diaframma minimo sempre a 2.8. Poi ho anche un duplicatore Nikon 2x ed è quello che sta sempre in borsa; se so che saremo molto lontani dal palco, uso quello perchè è un ottimo compromesso tra qualità e luminosità e la perdita focale è veramente quasi impercettibile. Infine ho il 400 F 2.8 della Nikon, un gioiello che uso solamente quando mi trovo ad una notevole distanza dal palco. Per esempio artisti come Madonna, Sting, Bruce Springsteen danno forti limitazioni di spazio mettendoci a 40-50 metri di distanza e questo obiettivo è l’ideale, anche se ha bisogno di un monopiede in grado di reggere un peso fino ai 12 chili perché, tra macchinetta, obiettivo e duplicatore arriviamo già a oltre 7 chili.
Cosa pensi del fatto che sempre più spesso ci siano sedicenti fotografi sottopalco?
Per risponderti a questo serve una piccola riflessione.
Questo è sicuramente un periodo particolare. Il dietro le quinte non è assolutamente conosciuto. Per andare avanti in questo mondo bisogna essere scaltri e flessibili. Spesso, infatti, mi chiedono cose un po’ particolari: ad esempio, in occasione del prossimo concertone del Primo maggio a Roma, mi hanno chiesto, in qualità di fotografo ufficiale della manifestazione, di scattare e pubblicare delle foto in diretta; con me ci sarà uno staff a darmi una mano e in pochi minuti manderemo gli scatti alla redazione del Primo Maggio che, a sua volta, posterà le foto sui social networks. Questa, che può sembrare una stupidaggine, implica l’utilizzo di un computer importante che normalmente è un Mac che ha dei costi non indifferenti, a cui bisogna aggiungere tutto il resto, pulizie e manutenzione delle macchinette e degli obbiettivi… e son sempre cifre non indifferenti… a questa, e ad altre cose, non ci pensa mai nessuno e il professionismo si è un po’ perso. Quando faccio corsi e, oppure, vado in Sicilia, come socio Onorario di Castelbuono Arte&Immagine, partecipo a piccoli stage. Si tratta di chiacchierate poco tecniche, senza presunzione. Spesso, però, nascono dei discorsi che ruotano proprio intorno all’idea di poter frequentare la pazzesca zona sottopalco. Alla fine di tutto questo ti devo dire che purtroppo il 90% dei ragazzi che si avvicinano a questo mondo chiede l’accredito per incontrare o vedere da vicino il proprio artista preferito. Questo è accettabilissimo però, spesso, non capiscono che più della metà dei fotografi svolge questa attività come un lavoro serio per riviste importanti e non per stare a cantare e a ballare. Molte volte questi personaggi ci sono d’impiccio perché non c’è tempo da perdere, facciamo un po’ per uno e ci dividiamo i punti strategici. Con Ligabue, ad esempio, il palco è alto almeno 2 metri ed è dotato di un impianto particolare, comprensivo di una terrazza in cui lavorano i cameraman e il fotografo ufficiale dell’artista. Ovviamente si tratta di cercare di beccarlo tra gli spazi vuoti e spesso abbiamo solo 7 minuti a disposizione. Proprio in questi casi ci si rende conto di quanto sia importante riuscire a svolgere comunque un buon lavoro in totale collaborazione tra tutti… ma senza cantanti e ballerini sottopalco.
Qual è la tua condizione ideale di lavoro?
Ovviamente quando sei fotografo ufficiale di un evento o di un artista hai a disposizione tutto il tempo e lo spazio che vuoi. Posso salire sul palco, come mi succede con Pino Daniele, con cui lavoro da due anni, posso muovermi tra i musicisti, sbuco nascosto dalle batterie e dagli amplificatori trovando angoli di visione che altrimenti è quasi impossibile avere, si tratta di un premio alla fiducia da parte della produzione ed è proprio in questi casi che mi sento in un angolo di paradiso.
Normalmente l’ideale è trovare un pit tranquillo in cui nessuno ci ronza intorno, in cui tutti abbiamo facilità di visione con un palco non troppo alto, senza troppi monitor. Esempio: al Rock in Roma il palco è altissimo, si tratta di almeno 2 metri, 2 metri e 10, le visioni sono molto frammentarie e non è facile lavorare per nessuno. Quando, invece, i palchi sono più comodi, riusciamo ad ottenere dei risultati davvero ottimi.
Ci parli della tua mostra personale “Dentro la musica?
La mostra è andata molto bene, è piaciuta davvero molto sia al pubblico che alla critica specializzata. Stavolta non l’ho prodotta io bensì un locale romano, si tratta del LӧKoo, un’associazione culturale con belle idee, il loro ufficio stampa è una mia collaboratrice per cui si è trattato di un lavoro collettivo. La mostra è stata presa in considerazione anche dal Lanificio 159, sempre a Roma, e verrà riproposta probabilmente a maggio. Si tratterà di un evento con qualche ospite musicale importante che si esibirà dal vivo. Questo progetto mi ha regalato tante soddisfazioni, si tratta di un grande riconoscimento che mi riempie di emozione. Sono cose di cui non mi vanto e che non mi piace sbandierare, spero solo che quello che faccio venga riconosciuto e che passi prima di tutto l’emozione.
Qual è lo scatto migliore che hai realizzato e quello che vorresti realizzare?
Normalmente si dice che lo scatto che vorrei realizzare è quello che verrà. Questo è vero perché, in fin dei conti, quando fai 200 concerti l’anno per non cadere nella routine, cerchi un modo per andare avanti senza farti del male, artisticamente parlando. Devo ammettere di aver avuto dei momenti magici come, ad esempio, la foto in cui Robert Smith sembra avere un’aureola attorno alla testa o quella in cui, durante il Neapolis, riuscii a beccare uno sguardo incredibile di Skunk Anansie: lei saltava sul palco, ad un certo punto scomparve, il palco era molto basso, io mi guardai attorno e me la ritrovai a gattonare, correndo verso di me, a quel punto ho alzato la macchinetta più vicina che avevo e scattai tre scatti al volo, in manuale, ed è venuto fuori uno sguardo intenso a circa 2 metri da me, dritto dentro la macchinetta. In quell’occasione ho avuto un brivido perché poi subito dopo è scomparsa. Sono cose che ti rimangono dentro ed è bello riuscire ad avere questo tipo di scambio umano. Ci sono artisti freddi, quasi teatrali, che fanno le stesse cose, altre volte, invece, nasce anche un dialogo fatto di sguardi e di sorrisi tra noi che siamo sotto palco e loro che ci sono sopra e questo ci fa sentire considerati, al centro di uno scambio emotivo.
Qual è uno degli episodi più recenti che ti è rimasto nel cuore?
Lo scorso 7 marzo Craig David ha fatto un’esibizione dal vivo per Radio Rai 2 di cui non sapeva nessuno. C’eravamo io, lui ed il suo manager. Craig mi ha salutato subito, mi ha chiesto come mi chiamavo, ho potuto fotografarlo ad metro e mezzo di distanza dalla consolle e queste foto hanno fatto grossi giri in soli due giorni. Dico questo non per vantarmi ma per sottolineare che sono molto contento del cammino che quelle emozioni sono riuscite a fare. Trovo giusto dire anche che 30 anni fa tutto questo non sarebbe stato possibile e che l’importante è non montarsi la testa e rendersi sempre conto delle cose che ci circondano. Ai giovani dico, invece, di farsi rispettare un po’ di più, di non limitarsi alla gloria dettata dai social. Bisogna avere il coraggio di farsi rispettare con educazione e di far comprendere il valore del proprio lavoro.
Si ringrazia Roberto Panucci per la disponibilità
Raffaella Sbrescia