“Desert Yacht Club” è il decimo album in studio dei Negrita e contiene undici tracce inedite, scritte e composte dai Negrita e prodotte da Fabrizio Barbacci. Il titolo, “Desert Yacht Club” rimanda all’omonima oasi creativa fondata da Alessandro Giuliano nel deserto di Joshua Tree in California ma non lasciatevi ingannare, in questo disco c’è molto altro. I NEGRITA hanno scelto di guardarsi dentro e di trovare un nuovo modo di comunicare dopo un momento difficile. D’altronde anche questo è il bello di ritrovarsi.
Intervista
La lavorazione di “Desert Yacht Club” nasce da un’approccio diverso. Cosa si intende per kitchen groove?
Di solito ci si ritrova in una saletta umida e poco salubre, qui questo concetto è stato ribaltato. Abbiamo sfruttato quello che la vita ci ha dato in questi ultimi anni. Come sapete, in genere usiamo studi residenziali, per noi la musica si lavora h24, non esistono orari da ufficio. Stavolta il tavolo è stato il nostro campo da gioco, lavoravamo senza limiti di tempo con la fortuna di avere un chitarrista cuoco. Tra un passo e un altro la musica fluiva senza soluzione di continuità, avevamo il nostro trip dentro al trip.
E qual è stato questo trip geografico?
Abbiamo attraversato il Sud Ovest degli Stati Uniti, ci trasferivamo su gomma con un furgone, ogni volta cambiavamo casa, siamo stati in mezzo al deserto, a San Diego, ovunque ci andasse. Questo tipo di manegevolezza ha fatto sì che le idee non avessero limiti. Alla base di tutto c’è stato un ragionamento: vuoi essere figlio del tuo tempo o metterti sugli allori?
Cosa avete risposto?
Abbiamo scelto di guardarci in faccia, sono venuti fuori dei ragionamenti profondi, il deserto ti spinge a guardarti dentro, ti fa sentire piccolo. Non potevamo approcciarci alla scrittura come facevamo 20 anni, abbiamo scelto anche argomenti mai toccati prima.
Raccontateci il tipo di deserto che avete vissuto.
Abbiamo scelto una struttura, definita resort, comprensiva di tre tende e due roulotte. In quel contesto si vivono 4 stagioni nel corso di 24 ore. La natura è estrema, sei completamente isolato e hai la possibilità di concentrarti su quello che stai facendo in quel momento. In quel contesto poteva capitare, com’è capitato, che gli abitanti del luogo, americani che hanno scelto di trascorrere la vecchiaia lontano da tutto, ci invitassero a bere e mangiare con loro. Pazzesco.
Video: I Negrita raccontano la loro America
Tornando al disco, cosa vi ha portato questa profonda connessione con voi stessi?
Siamo arrivati a 50 anni, siamo tutti padri di famiglia, ascoltiamo quello che sta succedendo e vediamo che ci sono in atto cambiamenti importanti. C’è un vento nuovo nel mondo, confidiamo quindi in un cambio di mentalità. L’importante, secondo noi, è che ci sia questo sentore di cambiamento altrimenti saremmo solo degli zombie. Non siamo come ci collochiamo in questo contesto, di sicuro sappiamo che i tempi che sono stati, sono andati. Il presente è quello che ci interessa. Il nostro background deve aprirsi a cose che apparentemente non collimano, bisogna avere il coraggio e la passione di farlo, serve uno spirito temerario, questo ci spinge a ricecare una passione inscritta nel nostro tempo, abbiamo una mentalità aperta e tale resterà in modo che gli input che ci arrivano possano comunque finire nei nostri tratti distintivi.
Com’è la natura di “Desert Yacht Club”?
Questo è un disco da outsider, non è collocabile in una moda, per noi essere una band significa che nel momento in cui andiamo a comporre un album abbiamo raggiunto una certa sintonia mentale. La fase preliminare di questo progetto ci ha visto condividere delle playlist in cui inserivamo le ultime cose che avevamo avuto modo di ascoltare. Questa è stata la nostra agenda di riferimento, il modo per ritrovare un linguaggio comune. Tra le cose che abbiamo scelto ce ne sono tante che sono molto lontane dal rock classico; del resto sono almeno 20 anni che il rock non riesce a proporre qualcosa che raggiunga la massa e che diventi colonna sonora di momenti importanti della vita di ciascuno.
Che tipo di messaggio intende trasmettere la vostra musica cosmopolita
Questo dipende molto dalla sensibilità di ognuno. Ovviamente noi non facciamo musica barricadera. Avendo raggiunto una certa maturità umana, la nostra musica parla della vita, dell’esistenza. C’è il romanticismo, la rabbia, la disillusione, l’amore. Bruce Springsteen sapeva tramutare la vita in musica, così come fanno i grandi classici, questo è quello che preferiamo in assoluto. Cerchiamo di applicare la passione alla musica, il risultato è un ventaglio di ampio respiro. Quello che serve di più è la coscienza perchè i modelli imposti della società sono piuttosto confusi e inquinati da tanti input. I valori veri e importanti sono sempre meno focalizzati, bisogna dare strumenti ai ragazzi per intraprendere un percorso umano, stiamo annacquando tutto nel mondo del digitale e dei social network, in questo modo le cose perdono di significato e di intensità. Per noi artisti questo significa che abbiamo un ruolo, non che debba essere caricato di responsabilità, il che sarebbe vincolante per la nostra espressività.
Da dove nasce il brano “Non torneranno più”?
Tornavamo da San Diego, stavamo per chiudere la giornata ma all’improvviso è arrivato uno spunto così potente da spingerci a lavorare subito. Abbiamo preso coscienza poco a poco del contenuto di questo pezzo rivolto alla nostra generazione nata a fine ani ’60. Parliamo ai nostri coetanei lasciando un piccolo spazio al rimpianti. Ad un certo punto ci siamo resi conto che siamo genitori e ci è venuto naturale scrivere anche ai nostri figli in “La rivoluzione è avere 20 anni”. Abbiamo usato la frase di Gandhi “Be the change you wanna see in the world” per dire ai ragazzi di oggi: “Pensate come volete, l’essenziale è che capiate che quella lì è l’età giusta per cambiare le cose”. I ragazzi di oggi devono poter avere gli strumenti per leggere la realtà, se li costringiamo dentro format predefiniti creiamo degli infelici e degli irrisolti.
Quanta California c’è in questo album?
La California è stata un imprinitng. Dopo il tour europeo abbiamo toccato Los Angeles e ci siamo rimasti per quattro settimane. Questo non è un disco californiano, venivamo da un momento di down, il nostro gruppo cominciava a vedere un orizzonte finito, qualcuno cominciava addirittura a pensare di mettere un piede fuori dalla band. Per fortuna però veniamo dalla provincia che, nonostante i limiti, ci lascia intatti e così siamo rimasti. Il viaggio di questo album è arrivato dalla paura di essere arrivati alla fine, si erano create situazioni che ci facevano pensare di essere arrivati al traguardo, invece siamo ripartiti proprio da dove eravamo per creare un percorso nuovo basato su una soluzione comunicativa incentrata sulla condivisione.
Quindi questo album si può definire come una sorta di terapia di gruppo?
Sicuramente. Quello che proprio non accettiamo è che spesso ci viene chiesto di non cambiare mai. Ogni volta che pubblichiamo un album nuovo, la gente dice “Ma che cazzo si sono fumati i Negrita?”. Il nostro cruccio è che se viene fuori qualcosa che ricorda il disco precedente lo scartiamo, non accettiamo la pretesa egoistica di chi pretende che dobbiamo fare sempre le stesse cose. La nostra attitudine sicuramente è la stessa ma i Negrita sono camaleontici, cambiamo la codifica del suono in base alle nostre esistenze individuali e di gruppo. Cerchiamo quindi di interpretare il nostro tempo e questi anni a modo nostro.
Il disco si chiude con “Aspettando l’alba”, un brano particolare dalla doppia anima.
Drigo: ho scritto questo brano dopo l’improvvisa scomparsa di mio padre. Ho vissuto molto male questo momento, ero sempre l’ultimo che rientrava in hotel dopo i concerti e venivo da una lunga serie di addii che mi ha messo a dura prova per tanti anni. Nel momento in cui mi sono messo a scrivere, ho rielaborato questi addii, il fulcro della canzone è: ogni fine finirà. Io credo che non ci sia una vita sola, ci si reincontrerà in futuro.
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Pau: in questo brano Drigo ha sputato fuori gli ioni negativi. Il brano cambia vita nella seconda parte diventando una pseudo samba attraverso una componente brasileira senza i classici stilemi del samba. L’importante per noi è questi momenti si risolvano con una ricerca di positività. Questa, in effetti, è una caratteristica dei Negrita, molti non ci stimano perchè hanno la sensazione che siamo troppo positivi ma sono opinioni. Noi amiamo mettere in gioco la nostra componente solare, la gente invece tende a tirar fuori la depressione e a crogiolarvisi, noi no.
Raffaella Sbrescia