Lo scorso 15 aprile 2016, la Maqueta Records ha lanciato #JUSTIN, il nuovo concept album di Jesto, riconosciuto come uno dei rapper più rivoluzionari del panorama italiano. In questa lunga intervista, l’artista parla approfonditamente del suo nuovo lavoro, definito da lui stesso come la sua opera più matura, introspettiva e profonda.
Intervista
Come sei arrivato alla concezione di “Justin”? Colpisce il fatto che, dall’alto di una produzione discografica piuttosto vasta, soltanto ora hai deciso di metterti a nudo con un progetto così introspettivo.
”Justin” è nato da solo, strada facendo. Dopo il 2015, anno in cui ho regalato ben 4 mixtapes (Supershallo3, SupershalloZero, Mamma Ho Ingoiato L’ Autotune2 e XtremeShallo), detenendo il record italiano assoluto di mixtapes, sentivo l’esigenza di fermarmi per capire la direzione del disco ufficiale. Dopo un periodo di buio in cui ho scritto tanto senza avere un concept preciso, ho deciso di buttarmi in studio e registrare senza pensare a cosa sarebbe uscito. Giorno dopo giorno il concept ha preso forma, mi piace pensare che “Justin” fosse già lì, e che ho dovuto solo scoprirlo. Un po’ come Michelangelo sosteneva che le sue opere fossero già contenute nei blocchi di marmo, e il suo lavoro fosse ‘semplicemente’ levare tutto il superfluo, fino a farle uscire fuori, a farle ‘vivere’. Il mio compito è stato andare nelle profondità dell’anima e portarlo alla luce. Un periodo di 6 mesi che mi ha risucchiato, che ha azzerato la mia vita sociale e che ha fatto riaffiorare demoni del passato. Affrontarli è stato l’unico modo per dare vita all’ album.
Raccontaci della genesi di questo album: dalle rime al suono, dalla varietà degli argomenti alla presenza al microfono.
Ho lavorato molto sulla presenza al microfono. Un ascoltatore attento percepisce subito una tecnica di registrazione inedita per il Rap italiano: tutte le canzoni sono one-line, non ci sono doppie, armonizzazioni, seconde voci. Solo qualche ‘sporca’ ogni tanto. Questo fa sì che abbia usato la voce come fosse un synth, il lead synth di ogni canzone. Sono arrivato ad un approccio molto Jazz nell’ uso della voce. Mi fondo completamente con la base musicale ma restandone ‘fuori’. Il mio flow è imprevedibile, irregolare, controtempato, rappo quasi sempre in levare, è la mia dote naturale. Questo fa sì che la mia voce esca fuori come in nessun altro caso in Italia, come se ogni strofa fosse un assolo di voce, proprio come se suonassi un sax. Sono da sempre focalizzato sul suono delle rime, ho evoluto la tecnica di scrittura rap fino a fare quasi tutte triple rime, anche quadruple e quintuple. Ogni parola di ogni frase fa rima con ogni parola della frase successiva. Da questo deriva l’alta musicalità di ogni barra. Riguardo la varietà degli argomenti, sentivo di dover maturare rispetto ai vari “Supershallo”, in cui usciva fuori molto il mio lato pazzoide, ma meno quello umano. È stata un’evoluzione spirituale, ancora prima che tecnica.
Sono convinto che la musica rispecchi la vita che vive l’autore nel periodo in cui la compone, quindi tendo a cercare di vivere il meglio possibile. Concepisco la mia vita come un’opera, di cui ogni disco è un tassello. Ho una visione dandy della mia musica. E della mia vita.
Quali sono gli stili lirici e metrici che usi in queste canzoni?
Invento il modo di rappare nel momento stesso in cui esce l’emissione vocale. Si può dire che ogni mia registrazione sia frutto del mio inconscio. Quasi freestyle. Per questo mi sento un jazzista più che un rapper. Metricamente cambio flow a ogni barra, a seconda dell’efficacia in base al concetto che esprimo. Alcune frasi sono urlate, sofferte, e alzo il tono, a far percepire il dolore, come nella seconda metà delle strofe in “Crescendo”, in cui alzo il tono al momento della crescita di pathos del testo. Altre tengo la voce bassa, calda, intima, per comunicare la sensibilità e il tono confidenziale. A questo punto della mia carriera, dopo tutti i dischi e i mixtapes che ho fatto, sento di poter fare con la voce quello che voglio. E ci sono arrivato strada facendo. Questo non vuol dire che mi fermerò, l’evoluzione del mio flow è quotidiana, da anni. Gioco molto con la voce e ho raggiunto una padronanza al di là del mio controllo.
Cosa vorresti comunicare a chi ti ascolta attraverso questo ‘frullato’ di attualità e storytelling di vita vissuta?
Io sono frutto delle mie esperienze personali e di quello che la società mi ha imposto. Il mio Rap è una vendetta, un rivomitare addosso al mondo quello che ci viene imposto fin da piccoli, filtrandolo attraverso la mia visione. Ogni immagine che rappresento è come una grottesca parodia della realtà.
Nei tuoi testi ironia e sarcasmo si mescolano alla poesia e alla malinconia. Questo mix rispecchia anche la tua personalità?
Assolutamente. Non so mentire, sono come sembro. Questo mi rende unico. Forte e debole allo stesso momento. Alterno periodi di leggerezza e divertimento a periodi di profondo buio interiore, e da sempre combatto con me stesso alla ricerca dell’equilibrio. Credo sia una ricerca che mi porterò fino alla tomba. Il contrappasso di avere tutta questa ispirazione, di questa iper-produttività artistica, è dover fare i conti con i miei demoni. Puoi incontrarmi un giorno che sono la persona più solare del mondo, e beccarmi il giorno dopo che non spiccico una parola manco a cavarmela. Sono così, ma questo mi rende prezioso. Credo che la mia arte sia il frutto di questa battaglia interiore. Che non avrà mai fine.
Toccante quanto vero e sentito il brano “Papà” dedicato al compianto Stefano Rosso, cantautore rivoluzionario della scena romana anni 70. Come sei riuscito a parlare di un rapporto tanto complesso quanto fondamentale per te?
Mi ci sono voluti anni. E poi l’ho scritta in 10 minuti. Sento come se ci fosse voluta tutta la vita per poter arrivare a scriverla. E’ la mia miglior canzone di sempre. Contiene una vibrazione magica, è carica delle mie energie, e di quelle di mio padre, e di quelle di chiunque gli abbia voluto bene. Tante persone piangono quando la sentono. Brividi, pelle d’ oca. E’ come un portale dimensionale che abolisce spazio e tempo e fa rivivere il suo ricordo come fosse presente. Questo grazie al potere della musica. La produzione musicale fonde la chitarra, lo strumento a cui mio padre ha dedicato la vita, al mio sound trap, dando vita a un mix mai fatto da nessuno prima d’ ora. Poi la mia voce non mente. E’ carica di vibrazioni, l’argomento toccato mi ha potenziato la performance vocale e ne è uscita la mia miglior interpretazione, a mio parere. Il testo racconta cosa è stato Stefano Rosso, cosa ha rappresentato per il mondo e per me. Credo sarebbe orgoglioso di me, come domando nel ritornello.
Come vivi l’esordio per una “nuova” etichetta nel settore hip hop italiano quale è la Maqueta Records?
Maquesta Records esiste da anni, ha uno storico solido, è una struttura collaudata e affiatata. Sono amico, ancora prima che collaboratore, di Fernando Alba (Art Director di Maqueta), abbiamo suonato insieme molto prima di immaginare una collaborazione tra etichetta e artista. Mi trovo bene, grazie alla libertà espressiva che mi viene lasciata e al rispetto che percepisco nei confronti della mia opera. Io ho già avuto a che fare con altre etichette e anche con major in passato e quella dimensione non fa assolutamente per me. Per questo per anni ho scelto l’autoproduzione, l’autogestione delle mie opere. Ho bisogno di libertà creativa, per poter far venire fuori il vulcano di idee che ho quotidianamente. Con Maqueta ho trovato la possibilità di esprimermi, di scrivermi i video per esempio, come facevo da autoprodotto, di pensare al concept degli ArtWork e di proporlo e valutarlo insieme. Questa è una fortuna per un’artista come me, con una personalità sfaccettata e spesso controversa, con una così chiara visione artistica. Il segreto del successo che stiamo ottenendo da questa collaborazione è che alla base del rapporto c’è feeling umano, prima che professionale. Alla loro squadra ho affiancato il mio team creativo, persone con cui lavoro anni, e unire le forze ci ha portato a trovare una direzione vincente ed efficace. La fiducia riposta in me per un progetto HipHop dimostra le larghe vedute e l’apertura mentale di Maqueta, oltre che il fiuto per il business. Detto questo non mi considero semplicemente un’artista HipHop. In fondo vogliamo considerare “Papà” una canzone prettamente Rap? Per me è una Canzone, al di là del genere. Odio rientrare in definizioni, mi reputo un caso isolato del panorama musicale italiano. Sto usando il Rap come mezzo espressivo, ma non racchiude tutto il ventaglio delle mie possibilità espressive. Non mi pongo limiti e vengo da una famiglia di musicisti. Mi hanno sempre insegnato che la musica non ha etichette, non è racchiudibile in definizioni. Si parla di vibrazioni, non definibili per eccellenza.
Sempre solido il sodalizio artistico con Pankees?
Dopo aver registrato tutti i Supershallo da Pankees abbiamo raggiunto un feeling speciale in studio. Dopo 3 anni che registro da lui, era tempo di lavorare a un disco vero e proprio. Oltretutto abbiamo gusti simili in quanto a HipHop. Veniamo entrambi dall’ HipHop classico e siamo appassionati di Trap da anni, prima ancora di Sout. Insomma, ci siamo trovati. Nel 2015 io e Pankees abbiamo realizzato un Ep (Mamma Ho Ingoiato L’ Autotune 2), che può essere considerato un preludio all’ album, dal sound alle tematiche (“Lasciatemi Stare” poteva far parte dell’album).
Ci spieghi il tuo metodo di lavoro per i mixtape?
A differenza dell’album, per il quale ho avuto bisogno di tempo, per i mixtape non mi soffermo molto sulle canzoni. Butto giù praticamente in freestyle ogni pezzo, spesso usando le strumentali del momento americane, rappo su produzioni americane e mi sfogo così, costringendomi a stare al passo con i rapper Usa, dovendo rappare su basi usate da loro, e non volendo sfigurare. Effettivamente mi sento l’unico in competizione con i rapper d’ oltreoceano, sia per mole produttiva che per flow e sonorità. Mi diverto molto a fare i mixtapes, sono la mia passione e ho l’esigenza di farli, per testare la mia evoluzione a che punto è. Io se non registro sto male, ho bisogno di imprimere costantemente la mia voce e fermarla per sempre nel tempo. Questo è per me fare canzoni.
Sono maniaco di mixtapes, pensa che sul mio sito ufficiale (www.jesto.it) ci sono ben 19 mixtapes scaricabili gratuitamente. Credo nessuno abbia mai fatto così tanti mixtape di alto livello in Italia.
Quali sono le tematiche, i contesti, le persone che ti ispirano maggiormente?
Quello che vivo, quello che vedo. Ho una visione critica del mondo, e non credo a nulla di quello che ci viene imboccato. Devi contare che vengo dal liceo classico e ho studiato Filosofia all’ università. Analizzo tutto, dalle notizie del tg ai comportamenti delle persone che incontro. Studio il mondo, fin dall’ adolescenza, e lo rimetto in circolo filtrato dalla visione di Jesto, alter ego disposto a ‘sporcarsi’ con le brutture del mondo pur di creare arte nuova.
Cosa dovremo aspettarci da te prossimamente?
L’ inaspettato. Ho sempre stupito a ogni step, i miei Supershalli lo sanno. Attualmente sento sempre di più l’eredità artistica di mio padre, e credo stia definitivamente venendo fuori. Oltre a questo ho bisogno di fare nuovi mixtapes, perché sto continuando a scrivere come un pazzo. Sono iper-produttivo musicalmente e non vedo l’ora di tornare in studio. Detto questo ora sono focalizzato sul disco, stiamo lavorando ai nuovi video e promuoverò “Justin” ancora per un bel po’. Oltre alla musica sono appassionato di tutto quello che è arte visiva, disegno e dipingo fin da piccolo, e ultimamente sta riuscendo fuori l’esigenza di comunicare anche così. Ma non ti anticipo nulla.
Come è andato il concerto di presentazione a Roma e cosa ti aspetti da quello che terrai al Legend Club di Milano?
A Roma è andata una bomba. Una città non facile per quanto riguarda la musica, riempiere un posto come il Brancaleone solamente con il mio nome è stato un traguardo. Sento come se fossi arrivato al cuore della gente, dopo anni di alti e bassi. Ora le persone si rispecchiano, hanno capito che sono un’artista assolutamente originale, e quindi non seguo percorsi prestabiliti. Questo mi porta ad avere il rispetto delle persone, ancor prima della stima artistica. Non sono mai sceso a compromessi, e finalmente la mia visione mi sta ripagando.
Per il Live di sabato mi aspetto di far trappare Il Legend Club, è la prima data da solo che faccio a Milano e non vedo l’ora di stare sul palco. Quando sono sul palco mi trasformo, è la cosa che mi viene più naturale del mondo. Come se stessi in un’altra dimensione, in cui non c’è razionalità ma tutto istinto. Non a caso vengo dal freestyle. Considero i miei concerti esperienze molto cariche energeticamente, emano vibrazioni amplificate con il microfono in mano.
Raffaella Sbrescia
Video: Puttantour