The Ophelia’s Nunnery, la recensione di “Non basta vivere”

Cover CD_Non basta vivere (2)The Ophelia’s Nunnery è una band nata nell’hinterland milanese quattro anni fa. La compagine musicale composta da Matteo Arienti (voce, chitarra), Matteo Zappa (basso, voce), Simone Manzotti (batteria), Dario Azzolini (chitarra) è giunta alla pubblicazione di un primo ep autoprodotto, intitolato “Non basta vivere”, la cui uscita è prevista per il prossimo 7 ottobre. Registrato al Blap Studio di Milano sotto la produzione di Riccardo Carugati e masterizzato da Giovanni Versari, questo primo lavoro del giovane gruppo lombardo intende muoversi a metà strada tra l’indie rock ed il pop d’oltremanica ma, sebbene il sound si avvicini agli intenti dichiarati è il cantato in italiano, in alcuni momenti molto simile a quello di Raf, a tenere gli Ophelia’s Nunnery ancora lontani dall’obiettivo prefissato. Ad aprire l’ascolto è “Martedì”: “Non basta vivere per sentirsi vivo” è la frase che racchiude lo spirito ed il messaggio chiave di questo primo lavoro della band lombarda raccontando un’urgenza ed una impellente necessità di svolta.

The Ophelia’s Nunnery

The Ophelia’s Nunnery

Intensi e curati sono gli intrecci di chitarre proposti sulle note de “Il rumore del passato”, un brano intimo, ispirato al tema dello scorrere del tempo. Il mood malinconico  di “Benedire” è più vicino a tematiche di valenza socio- culturale ed è attraversato da linee melodiche più incalzanti ed aggressive. Le preannunciate atmosfere british si palesano ne “Il pentito” : “Si cade per riparare e rialzarsi, è la più grossa bugia di questo mondo perché quando tocchi il fondo sei solo sulla cima opposta e cerchi una risposta”, canta Matteo Arienti, mettendo a nudo debolezze e pensieri comuni. A chiudere l’Ep è “Solo Mostri”: lacrime di inchiostro danno voce a piccole alienanti ossessioni.  “Non basta vivere” racconta, dunque, le emozioni, i pensieri e le riflessioni di quattro ragazzi che hanno scelto di unire le proprie strade in nome della musica e che, dopo quattro anni di lavoro, sono stati in grado di gettare le prime fondamenta di un percorso che, a giudicare dai presupposti, possiede le carte in regola per farsi strada.

Raffaella Sbrescia

Tosca appassionata e cosmopolita in “Il suono della voce”. La recensione dell’album

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Tiziana Tosca Donati, in arte Tosca, torna in sala di incisione per “Il suono della voce”, l’album di inediti pubblicato lo scorso 30 settembre per Sony Classical. Prodotto dalla stessa Tosca e dalla violoncellista Giovanna Famulari, in collaborazione con la Bubbez Orchestra, questo lavoro racchiude molto più di un pugno di canzoni. Si tratta, infatti, di un’opera pensata, ragionata, nata dal  continuo sedimentarsi di idee, emozioni, sentimenti, pensieri, suggestioni che, nel corso di un lungo trentennio, hanno forgiato l’anima, umana ed artistica di Tosca. Musiche, suoni, lingue, ritmi si fondono nei percorsi creati dalle 22 tracce che compongono l’album nel nome dell’arte. “Il suono della voce” è il suggestivo titolo di questo album che prende il nome dal brano che il maestro Ivano Fossati ha appositamente composto per l’artista romana. Un biglietto da visita seducente, appassionato, dall’essenzialità ricercata.

Con la chiara intenzione di omaggiare la forma canzone utilizzando il maggior numero delle declinazioni possibili, Tosca ci accompagna, mano nella mano tra le tappe di un viaggio finalizzato alla ricerca di noi stessi nelle altre culture. Attraverso l’uso dell’ Yiddish, del portoghese, del francese, del rumeno, del giapponese, del libanese, Tosca rilegge antiche e nuove melodie con grazia e leggerezza conferendo loro un’innata bellezza, avulsa dallo scorrere del tempo. La cura per il dettaglio, la valorizzazione di ogni singolo strumento si evince dagli spazi e dalla scelta di musicisti eccellenti tra cui ricordiamo il compositore brasiliano Guinga, Gabriele Mirabassi, Germano Mazzocchetti e il duo Anedda.

La suadente delicatezza di “Gelosamente mia voce” apre l’album, i cui toni si fanno subito intensi e veraci sulle note di “Marzo/Mars”. Un saliscendi emotivo destinato a confluire nei colori e nelle melodie africane di “Nongqongqo (To those we love)”. Suggestivo e toccante l’incontro tra il dialetto romano e la lingua portoghese in “Nina / Nina, se você dorme”, brano in cui Tosca duetta con il chitarrista Guinga narrando i sogni, gli amori e le paure di Nina. Di tanto in tanto, il tempo si ferma sui rintocchi degli intermezzi strumentali tutti intitolati “Il suono della voce”, voce, che, in questi piccoli rivoli di emozioni, è esclusivamente quella di uno strumento, pronto ad emozionarci forse meglio di mille parole. In “Via Etnea” la protagonista è Mimì, una donna mediterranea che, grazie al potere dell’immaginazione, ritroviamo in “Shtel”, il canto della tradizione Yiddish che Tosca interpreta con voce vibrante e pathos tangibile. La gemma più luminosa del forziere è “L’annunciazione”. Il brano scritto da Ivano Fossati su melodia di Guinga tira le fila di una preziosa texture di note e parole lasciando che l’ascoltatore possa contemplarne, non senza stupore, il risultato.

Sogni, paure, desideri e sentimenti si differenziano nella modalità espressiva ma non nel contenuto. “Cicale e chimere”, realizzato in collaborazione con Joe Barbieri, immerge le corde vocali di Tosca in fresco contesto Jazz mentre “Succar ya banat” valorizza la sintonia umana e artistica tra due donne: Giovanna Famulari col suo vibrafono e Tosca con le sue vibranti parole immergono la mente in una dimensione immaginifica ma non è ancora tempo di tornare alla realtà; Tosca si congeda con “Miao”, un canto felino sospeso tra il reale e l’onirico che, unendo il mondo degli umani a quelli degli animali, sancisce e sigilla la valenza ancestrale di un prezioso microcosmo da cui attingere bellezza e poesia.

Raffaella Sbrescia

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“2974. Music for Dark Airports”, il full lenght del combo P. oZ.

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Preparatevi a lasciarvi travolgere dalle atmosfere oscure, ossessive, a tratti claustrofobiche di “2974. Music for Dark Airports”, l’album realizzato da P. Oz. il combo nato nel 2001 da un’idea di Antonio Bufi e Antonio Lisena. Alla base di questo lavoro d’avanguardia c’è una forte contaminazione tra suoni di matrice rock ed elettronica minimal. Il risultato è una miscela sonora di impatto immediato, pronta a conquistare la psiche e l’epidermide di un ascoltatore attento, pronto a cogliere ogni singola sfumatura tra le innumerevoli stratificazioni sonore scelte per esprimere concetti spesso troppo dolorosi per poterli descrivere attraverso l’uso delle parole. In questo specifico caso il tema che ricorre in questo concept album è il crollo delle Torri Gemelle, avvenuto l’11 settembre 2001, in seguito ad un attacco terroristico a New York. Coadiuvato dalla drammatica forza empatica della copertina, questo disco si fa strada in maniera apparentemente marginale, eppure profonda, nei cuori degli ascoltatori grazie al perturbante fascino dell’oscurità misterica che pervade gran parte delle tracce proposte. Echi e riverberi, voci e rumori distorti, strutture sonore noisy e frequenti cambi ritmici non eliminano il mood onirico che attraversa tutto il lavoro. Giochi elettronici e miscugli strumentali immergono l’ascolto in una dimensione liquida, priva di limitazioni e di etichette, un’opera frastagliata, difficile da inquadrare e da gestire; quasi un buco nero in cui riversare emozioni, suggestioni, pensieri e incubi. Un lavoro visionario, forse estremo, che si presenta come una ipotetica perfetta colonna sonora di una tragedia che va oltre l’immaginabile. “2974. Music for Dark Airports” è molto più di un lavoro strumentale, troppo riduttivo parlare di ambient music, qui si tratta di un lavoro pensato per azionare meccanismi interpretativi individuali, tutti da rimescolare e filtrare per provare a comprendere il mistero della vita.

Raffaella Sbrescia

 

“Pop-Hoolista”, il nuovo album di Fedez. La recensione

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Fedez, all’anagrafe Federico Leonardo Lucia, classe 1989, presenta “Pop-Hoolista”, il suo atteso quarto disco, prodotto da Newtopia (l’etichetta discografica indipendente fondata da lui stesso e da J-Ax. Con questo concept album, infarcito di taglienti giochi di parole e di brillante ironia, Fedez si esprime senza filtri e lo fa attraverso 20 canzoni che offrono uno spaccato fedele e limpido della nostra Italia. Incuriosisce vedere come un giovane riesca ad attirare l’ interesse e l’attenzione non solo dei coetanei ma anche degli adulti, sarà forse perché Fedez ha voluto staccarsi dalle vincolanti rime del rap, per aprirsi ai monologhi scritti insieme a Matteo Grandi. Maggiore consapevolezza, maggiore applicazione, maggiore responsabilità per Fedez che “In un paese dove i punti interrogativi sono più dei punti di riferimento”, racconta “lo stato” dello Stato italiano senza peli sulla lingua.

Sono davvero tanti giochi i giochi di parole e le verità scomode che salgono a galla in “Pop-Hoolista”, un lavoro che dà spazio a concetti ai quali non è stata trovata né una metrica, né un genere. Fedez ci spiega come va l’Italia e cosa pensa lui della gente partendo da “Generazione bho”, un limpido flash sulla realtà contemporanea: “Un vecchio è pericoloso se guida una Mercedes figuriamoci quand’è alla guida di un paese”, accusa Federico, mentre gli irriverenti accostamenti proposti in “Vivere in campagna pubblicitaria” ci disegnano un nitido ritratto di una società in cui comandano i product placement. “Siamo passati dal baciare rospi ad ingoiarli”, scrive Federico in “La bella addormentata nel Bronx”, il brano in cui le principesse Disney si trasformano in donnine da quattro soldi. Le massacranti invettive di “Veleno per topic” non lasciano scampo, la Fedezvisione prevede una parola cattiva per tutto e tutti. La mitragliatrice è carica e Fedez non risparmia neanche un solo colpo in canna. Notevoli anche i tappeti musicali costruiti ad hoc, che lasciano intuire una tendenza punk, figlia diretta delle influenze adolescenziali di Federico. L’ascolto riprende con gli amori da tastiera raccontati nella realistica “Voglio averti account”. Proprietà di linguaggio e concreta conoscenza delle epopee giovanili rendono Fedez un credibile canta storie metropolitano.

Fedez

Fedez

Sospesi tra Facebook, selfie e sindrome da social, siamo circondati da una superficialità latente eppure i sentimenti non mancano. In “Magnifico”, il brano che rinnova il sodalizio artistico con Francesca Michielin, Fedez parla dell’amore come un punto d’arrivo, una conquista; una rivelazione che sorprende in un contesto asettico e dissacrante. La divertente irriverenza contenuta in “Non c’è due senza trash” coinvolge la conduttrice televisiva Barbara D’Urso in un brano d’accusa contro la tv spazzatura. La peculiare liquidità della dimensione creata da “Sirene” trova un sostanziale equilibrio nella voce di Malika Ayane mentre “L’hai voluto tu” è un brano che richiama da vicino lo stile di Max Pezzali. Ritroviamo un fedele spaccato dell’amore ai tempi della crisi in “Love cost” mentre la perla del disco è la title-track “Pop-hoolista”, ulteriormente arricchita dal duetto con Elisa, che ha personalmente scritto la propria parte: “ Tu cosa hai da perdere se hai già toccato il fondo”, canta la Toffoli, senza consentire alcun diritto di replica.

Potente e diretto è il je accuse in cui Fedez punta il dito contro lo sfarzo indecoroso del clero in “Cardinal Chic”. Travolgente e grintoso il contributo di Noemi in “L’amore eternit”, un brano che si scaglia contro i pregiudizi e le apparenze in nome dell’amore autentico. Fedez è incontenibile e srotola fiumi di parole a velocità sostenuta anche nel brillante testo di “Stereo- tipi” e “Viva l’Iva”, in cui duetta con il socio J Ax. L’album si chiude con l’inaspettato featuring dei BoomDaBash in “M.I.A”. Un’ultima chicca in un disco che di paraculo ha veramente molto poco. Bravo, dunque, a Fedez, un hooligan del rap che ha saputo sdoganarsi da limiti e barriere.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Generazione Bho”

“Art Official Age” vs “Plectrumelectrum”: due nuovi album per Prince

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Dopo ben 18 anni, Prince torna ad incidere con l’etichetta Warner Bros pubblicando due album decisamente diversi tra loro. Il primo è “Art Official Age” mentre il secondo s’intitola “Plectrumelectrum” ed è stato inciso insieme alla girlband 3Rdeyegirl. Come preannunciato, i due lavori sono molto distanti tra loro: “Art Official Age” rappresenta la summa di tutto quello che Prince ha fatto in questi lunghi anni, durante i quali è diventato un’icona della musica mondiale. Prodotto, arrangiato, composto ed eseguito da Prince e Joshua Welton, il disco racchiude una miscela di soul, R&B e funk che ben si sposa con la versatile vocalità dell’artista. Il mood di questo lavoro rispecchia sicuramente la cifra stilistica che per tanto tempo ha contraddistinto il genere proposto dal “folletto di Minneapolis” . “Art Official Age” è in tutto e per tutto un ritorno al funk, al suono e alle atmosfere degli inizi, senza tuttavia trascurare un attento sguardo a quello che, intanto, è diventato il suono contemporaneo.“The gold Standard” rientra nei cardini di “Superfunkycalifragisexy”, “Breakdown” è la ballad che tutti si aspettavano. Coinvolgente e al passo con i tempi è il ritmo di  “Breakfast can wait” così come quello di “U Know”, autentica perla di un disco che, a poco più della metà della sua durata, perde la verve iniziale. L’ascolto si fa stanco e statico sulle note di “What it feels like” e sulla lunghissima “Time”, per non parlare poi di brani riempitivi come “Affirmation III e “How to dress well”.

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La traccia “Funknroll”, rappresenta, invece, il ponte di collegamento con “PlectrumElectrum”, un divertissement  in cui Prince si fa da parte e lascia spazio alle 3rdeyegirl, il trio femminile composto da Donna Grantis (chitarra), Hannah Ford Welton (batteria) e Ida Nielsen (basso), le tre abili musiciste che hanno accompagnato l’artista sui palchi  del  tour inglese “Hit & Run”. Registrato dal vivo e in analogico, “PlectrumElectrum” racchiude una serie di straordinarie performances live che offrono agli ascoltatori la possibilità di apprezzare le ottime qualità chitarristiche di Prince. “PlectrumElectrum” è, in sintesi, una raccolta di puro funk-rock che non racconta nulla di nuovo e che, ponendosi  in contrapposizione netta con“Art Official Age”, spinge inevitabilmente a chiedersi  quale possa essere l’utilità di questa doppia pubblicazione. Inutile porsi troppi interrogativi, Prince fa quello che vuole, come vuole, con chi vuole, probabilmente incidere dei dischi lo avrà divertito e sarà stata una scelta fatta soprattutto in funzione dei prossimi concerti che, ci scommettiamo, faranno registrare ancora una volta il tutto esaurito.

Raffaella Sbrescia

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Video “Breakfast can wait”

Od Fulmine, la recensione dell’omonimo album

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Gli Od Fulmine, il gruppo composto da  Riccardo Armeni, Fabrizio Gelli, Mattia Cominotto, Stefano Piccardo, Saverio Malaspina, presentano l’omonimo album. Un progetto discografico che racchiude e lascia confluire in sé le diverse esperienze dei singoli membri che hanno militato chi nei Numero 6, chi tra gli Esmen, chi tra i Meganoidi. Sono 10 le dieci le tracce che compongono questo saliscendi pop-rock cantautorale e che, in modo semplice ed immediato, parlano del nostro mondo in maniera squisitamente disincantata. Muovendosi tra rock e tradizione, gli Od Fulmine scelgono atmosfere notturne e crepuscolari per raccontare sentimenti urticanti e storie immaginifiche. Si parte dalle convulse chitarre di “Altrove 2” per poi continuare a cercare il senso delle cose in “Ma ah”. Decisamente più onirico è il ritmo di “40 giorni”, una ballata mistica che riprende il celeberrimo poemetto del poeta Samuel  Taylor Coleridge “ The Rime of the Ancient Mariner” su un tappeto di note elettriche, equilibrate da misurate pause meditative.   Il ricordo e la malinconia sono gli elementi chiave di “5 cose”, il brano in cui ci imbattiamo esattamente a metà dell’ascolto e che offre ulteriori spunti di riflessione intima ed individuale. La struttura classica di “Nel Disastro” lascia, tuttavia, trasparire l’epicità del naufragio sentimentale narrato nel testo che, in ogni caso, apre uno spiraglio di speranza: “Ma nel disastro mi vedrai sorridere/Sotto un diluvio ritornare in me/Di notte ho visto quello che mi manca e tu mi vieni incontro anche se non lo fai più”. Le dure chitarre inserite in “I preti dormono” conferiscono ritmo e dinamicità all’ascolto che si fa vorticoso sulle note della rabbiosa  “Ghiaccio 9” e della nostalgica allure di “Da quel giorno”. I toni si ammorbidiscono nell’enigmatica ballata voce e chitarra, intitolata “Poveri noi” per poi confluire nei ricordi lontani e sbiaditi raccontati in “Fine dei desideri”, il brano conclusivo di un album in grado di mettere insieme storie ed umori contrastanti su un unico binario interpretativo.

Raffaella Sbrescia

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Video: “40 Giorni”

“Il tramonto dell’Occidente”, l’album di Mario Venuti ci offre nuove possibili vie d’uscita. La recensione

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L’ottavo album solista di Mario Venuti è “Il tramonto dell’Occidente”, un lavoro discografico di grande qualità, sia dal punto di vista testuale che musicale. Nel ventennale della sua carriera, senza considerare la lunga parentesi con i redivivi Denovo, Mario Venuti ci offre la possibilità di fare il punto sulla nostra condizione con classe, eleganza e raziocinio. Bando agli allarmismi, alle ruberie e alla volgarità, al catastrofismo spicciolo, Venuti chiama a raccolta artisti del calibro di Francesco Bianconi, frontman dei Baustelle, e Kaballà, entrambi nella veste di autori, per mettere i puntini sulle i.

Il titolo del disco evoca l’opera di Spengler Oswald, un mastodontico tentativo di elaborare un compendio di una morfologia della storia universale. Sviluppo, fioritura e decadenza individuale assumono una valenza collettiva all’interno di un percorso cantautorale insolitamente ottimista e fiducioso. Il disco si apre con il testo riflessivo, dolente e rabbioso de “Il tramonto”, un brano che fotografa con lucidità il nostro presente: “Dal balcone l’altro giorno ho visto uno studente rovistare nella spazzatura. Nelle liste elettorali leggo nomi di maiali. Gli svantaggi della libertà, mio Signore, per favore, non aver pietà”, canta Mario Venuti, auspicando il ritrovamento della luce. Le voci di Francesco Bianconi e Giusy Ferreri s’incastrano nel refrain di “Ite missa est”, la formula latina del congedo della messa sancisce la fusione tra sacro e profano in questo brano a metà strada tra la presa in giro e l’accusa seria contro i postulanti del no future, che popolano i principali mezzi di comunicazione. Il coro polifonico Doulce Memoire colora e riempie i tratti di quella che rappresenta a tutti  gli effetti una presa di coscienza: “Io esco solo di domenica, osservo bene quest’umanità, mi sembra come una parabola biblica. La fine della nostra civiltà”.

Mario Venuti Ph Amleto Di Leo

Mario Venuti Ph Amleto Di Leo

Dolce e delicata è invece la trama de “I capolavori di Beethoven”, una preziosa ballad in cui Venuti duetta con Franco Battiato omaggiando il grande compositore che, nonostante la sordità, fu in grado di scrivere le più importanti pagine della storia musicale mondiale. La ricerca della forza nel disagio traspare a più riprese mentre “ Il ritorno inatteso della povertà ci insegna, finalmente, l’idea dell’abbondanza”. La prescrizione indicata in questo frangente è trasformare una mancanza o un handicap fisico in un punto di forza, un modo del tutto innovativo di rivoluzionare se stessi ed il proprio modo di pensare. Curioso l’intermezzo strumentale di “Perché”: violini, archi e violoncello accompagnano un insolito collage di sample tratti dalla discografia di Venuti mentre frammenti musicali orchestrali del “Concerto all’aperto di Giorgio Federico Ghedini” richiudono il vortice autocitazionista.

Bellissima e particolarmente azzeccata è la lucida analisi che Mario Venuti fa delle periferie italiane in “Ventre della città”. Cattive coscienze convivono con cuori vergini in posti troppo spesso dimenticati dagli uomini e in storie conficcate come pugnali nel ventre della città. Anche in “Passau a Cannalora”, il brano in dialetto siculo, cantato insieme a Bianconi e Kaballà, Venuti lascia trasparire un forte legame con la terra e con le radici. Sant’Agata, patrona della città di Catania, è la destinataria di un’accorata preghiera in cui il cantautore auspica il ritorno dell’antica bellezza di posti incantevoli distrutti dalle mani dell’uomo. Echi rivoluzionari riempiono le note di “Arabian boys”, un racconto ispirato agli episodi avvenuti durante la Primavera Araba: “Né cariche, né bombe, né dannati canti di sirene fermarono l’amore che accendeva la rivoluzione”, canta Venuti, dando spazio ad uno slancio inaspettatamente positivo.

Mario Venuti Ph Amleto Di Leo

Mario Venuti Ph Amleto Di Leo

“Niente esiste, tutto appare e nulla è come è”, scrive il cantautore in “Tutto appare”, duettando con Alice. Il brano si chiude con la massima di ispirazione ungarettiana “Solo quello che non siamo, solo questo so” mentre la periferia italiana cerca e trova contatti con quella americana in “Ciao american dream”, il riuscito adattamento di “Ashes of American Flags” dei Wilco. Che sia il dio dollaro o l’antica lira, la sete di denaro rimane il peggiore di tutti i mali anche in “Il Banco di Disisa”, un’antica leggenda che, attraverso poche profonde parole, rappresenta la metafora dell’avidità umana.  In antitesi con la traccia di apertura, l’ultimo brano del disco è “L’alba”. Il brano vede la partecipazione del giovane cantautore palermitano Nicolò Carnesi, una collaborazione voluta dallo stesso Venuti, come segno di incoraggiamento e fiducia verso le nuove generazioni: “Io sto camminando verso l’alba che per sua natura nasce ad est e sto recitando un altro mantra. Prendo più coscienza, cerco me”. Questo doloroso viaggio musicale si conclude, dunque, con una nuova, inaspettata consapevolezza, un nuovo stimolo per cominciare a ripensare il nostro modo di vivere e per cercare nuove possibili vie d’uscita.

Raffaella Sbrescia

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Video: “Ventre della  città”

IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE IN TOUR” toccherà i club e i teatri di tutta Italia.

Queste le prime date confermate:

12 novembre  Roma (Orion Club)

13 novembre  Milano (Magazzini Generali)

14 novembre  Firenze (Viper Theatre)

26 novembre  Padova (Geoxino)

27 novembre a Bologna (Bravo Caffè, con un set elettro-acustico)

4 dicembre a Palermo (I Candelai)

18 dicembre a Catania (ZO Centro Culture Contemporanee).

I biglietti per i concerti sono disponibili in prevendita

“Electric soul”, la svolta sentimentale di Marlon Roudette

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Marlon Roudette, ex membro dei Mattafix, presenta “Electric Soul”, il suo secondo full lenght da solista. Dopo aver scoperto l’R&B più sperimentale di artisti come Frank Ocean, Drake e The Weekend, Roudette  è partito alla ricerca di uno stesso livello qualitativo, un percorso che lo ha portato ad imbattersi nei produttori Tim Bran e Roy Kerr, responsabili della hit dei London Grammar “If You Wait”. Registrato nei celeberrimi Abbey Road Studios,  “Electric Soul” raccoglie e modella la maturazione artistica di Roudette che, diventato padre da poco, ha avuto l’occasione di virare la propria scrittura ed il proprio stile verso orizzonti meno drammatici e più evidentemente improntati alla ricerca della serenità. Opportunamente definito “a modern classic of synthetic R&B”, “Electric soul” è un album melodicamente eterogeneo che si avvale, tra l’altro, del contributo di firme importanti come quelle di Jamie Hartman (Christina Aguilera, Joss Stone, Jason Mraz) e Stuart Matthewman (membro della band di Sade). Raccontando gli ultimi 18 mesi della sua vita, Roudette si rivela più riflessivo e aperto al sentimentalismo senza tuttavia rinunciare alle atmosfere dark, a lui tanto care. Si va dall’r’n’b sperimentale di “America” alle storie incrociate di “Come along”, passando per l’apprezzatissimo singolo “When the beat drops out”, in cui traspare la nuova linfa creativa e vitale che ha investito Roudette: “Life, happen you’re making plans. Flying highing, shaking hands, a song will write you. With you, I found a new way to live, I see an alternative”, canta Roudette, mentre la malinconia profusa di “Your only love” lava via l’entusiasmo tra lacrime, pentimenti e debolezze.

Marlon Roudette Ph Danny North

Marlon Roudette Ph Danny North

L’atmosfera rarefatta di “Runaround” ci immerge all’interno del flusso di parole e pensieri colpevoli. L’ascolto si appesantisce sulle note di “Body language” e “Flicker” che non offrono un reale contributo ai contenuti dell’album, il quale s’illumina di nuova carica emotiva grazie alla dolorosa ballad intitolata “Hearts Pull” e alla bellezza evocativa di “In Luck”, una bellissima dedica d’amore incondizionato: “This is a changing of guard and I will see you through it all”, canta Roudette, mentre l’immancabile ritmo raggae di “Nice things” chiude “Electric soul”, un disco che, sebbene non abbia caratteristiche di importanza epocale, si lascia ascoltare con facilità e con un certo trasporto.

Raffaella Sbrescia

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Sergio Marchegiani rilegge i “Notturni” di Chopin in un doppio cd

sergio marchegiani

Sergio Marchegiani rilegge Chopin, suo autore prediletto, con un’incisione integrale dei suoi Notturni. “Nocturnes”, per l’appunto, un doppio cd da ascoltare preferibilmente al buio, quando l’udito si aguzza e l’immaginazione si fa incredibilmente fervida e attiva spalancando le porte del cuore e schiudendo i catenacci dei nostri sogni più intimi. Marchegiani sceglie di eseguire Chopin grazie alla sicurezza acquisita attraverso numerose esibizioni dal vivo. La scelta di incidere nasce, invece, dall’ inesauribile abnegazione del pianista alessandrino e dalla grande cura con cui egli riesce a muoversi all’interno di un’opera così accesa ed incontenibile. I “Notturni”, rappresentano, infatti, un ciclo monumentale all’interno della produzione di Chopin, il quale compose l’intera sezione come se si trattasse di un diario intimo. Un unico profilo lirico esaltato da innumerevoli e regolari cambi armonici.

Colori, proporzioni, sfumature, riverberi e richiami semantici si intrecciano, si incontrano, si scontrano grazie ad armonie ricercate, ora voluttuose, ora spettrali. Brani che, nel corso dei secoli, hanno avuto il privilegio di continuare a vivere, assumendo via via forme interpretative sempre diverse. In perfetta comunione con Chopin, Marchegiani ci offre, quindi, la straordinaria occasione di ammirare e avvicinarci, con tocco italiano, ad una perfetta combinazione di elementi sonori dal fascino immaginifico.

Raffaella Sbrescia

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“Hanno paura di guardarci dentro”, la recensione del nuovo album de Le Strisce

le strisce

Con “Hanno paura di guardarci dentro” Le Strisce inaugurano una nuova importante fase del proprio percorso musicale intrapreso nel 2008. Insieme all’etichetta indipendente Suonivisioni, Davide Petrella (Voce – Testi); Francesco Zoid Caruso (Basso); Enrico Pizzuti (Chitarre); Andrea Pasqualini (Chitarre); Dario Longobardi (Batteria) hanno realizzato un album in grado di penetrare nelle dinamiche evolutive delle ultime generazioni. Già a partire dall’evocativo titolo, questo disco, composto da ben 14 tracce, racchiude un immediato messaggio di denuncia contro una società geriatrica del tutto indifferente nei riguardi delle esigenze, dei sogni e dei progetti dei più giovani. Sguardi d’insieme, taglienti e diretti, si lasciano cullare da ritmiche incalzanti, chitarre spinte, veloci giri di batteria attraverso parole arrabbiate ed affilate al punto giusto.

Le Strisce

Le Strisce

Forte dei 7 brani, più due hit, scritte insieme a Cesare Cremonini per “Logico”, Davide Petrella si è lasciato andare alla scrittura in maniera più sicura e disinvolta raccontando questi anni che ci hanno messo rabbia addosso.  La traccia di apertura è “Nel disagio”, un brano amaro ed evocativo che, attraverso una potente miscela di suoni e parole arriva dritto al cuore. Accompagnato dal particolare videoclip realizzato da Tiziano Russo, “Nel disagio” ci introduce subito al centro del nucleo semantico di questo album: “Avrebbero dovuto dircelo che non c’è via d’uscita da questa epoca noiosa che ci stringe a sé”, canta Davide, e poi, ancora, “E che non conosciamo il mondo abbastanza da andargli incontro. I giorni non sanno di niente,  i ragazzi bruciano per sempre. Le linee della mano si intrecciano e come corde si spezzano”.

I sogni cancellati e gli anni che non ritornano più indietro sono i demoni descritti in “Fantasmi” mentre la storia di “Andrea” racchiude i tratti essenziali di tante vite simili alla sua, a cavallo tra perdizione e annullamento. “Ci pensi mai” è, in assoluto, il brano in cui Petrella e soci sparano a zero sui grandi mali della nostra società, in cui corruzione e demagogia sono in piazza” e pongono interrogativi diretti e scomodi proprio ai giovani, grandi protagonisti di questo album: “Ci pensi mai se il nostro posto è sempre stato questo”, “hanno paura di guardarci dentro perché non ci troverebbero niente, solo un mare di cazzate e di luci spente, tanto non c’è più chi guarda e chi sente”. L’inno all’”hic et nunc” de “Gli artisti” ed il citazionismo insito in “Comete” cedono il passo all’emotività di “Dentro”, un brano intimo, struggente, immaginifico: “Ogni vita si intreccia con un’altra e si dice basti solo un momento”, una frase veritiera, diretta che, come un colpo al cuore, ci pone di fronte alle nostre egoistiche attitudini socio- culturali.

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Pugni in faccia ci arrivano anche da “Cosa deve fare un giovane d’oggi per poter ridere”. Noi, destinati a non avere certezze, a non avere paura, a non trovare nessuno con la risposta pronta, a non conoscere la verità, siamo una “Beat Generation” assuefatta ad un mondo di buffoni (2012). Un grande caos che, tuttavia, non ci slega dalla vita. Pur avendo speso “troppo tempo a correre ingoiando rabbia e polvere” sogniamo talmente forte da avere per sempre mal di testa.  Bellissimo anche il testo di “Persa”: anche se non c’è strada per correre, se non ci sono più certezze ma solamente dei forse, rimane l’autenticità dei sentimenti, l’ultima risorsa a cui l’uomo può fare riferimento per salvarsi. Le Strisce chiudono questo intenso lavoro discografico con un ultimo eloquente monito, racchiuso in “Non è destino”: “qualunque strada hai da prendere, tu non ti perdere”; parole che, proprio come l’intero album, ci invitano a riflettere sul significato più autentico di ciò che ci circonda e che, una volta in più, lasciano trasparire la naturalezza, l’entusiasmo e la voglia di esprimersi di un gruppo abituato ad usare la musica per dirci qualcosa di utile e sensato.

Raffaella Sbrescia

Video: “Nel disagio”

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