Pop simpatico con venature tragiche: la freschezza di Irene Ghiotto

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Esce oggi  22 gennaio “Pop simpatico con venature tragiche”,  il primo album ufficiale di Irene Ghiotto, cantautrice nata e cresciuta nella provincia di Vicenza. Dopo aver ricevuto diversi riconoscimenti e aver calcato palchi importanti , Irene dimostra di aver raggiunto una buona maturità artistica, sia sotto il profilo autorale che interpretativo. Suonato e arrangiato da Irene stessa con la collaborazione della violoncellista Valentina Cacco, l’album è stato registrato, mixato e masterizzato da Max Trisotto presso True Colours Studio e Franz.Studio. Tutti i dieci brani che compongono il disco  sono stati artigianalmente costruiti attraverso il meccanismo del loop ritmico, composto da schiocchi di dita, mani, labbra, lingua e soffi e sbuffi d’aria. La voce racconta e avvolge le parole in maniera dinamica, leggera e colorata, fugace eppure la trama rimane sospettosa, rigida, intrappolata dai usi e costumi contemporanei. Un gioco di contrapposizioni autentiche e veraci completato da un particolarissimo artwork che accompagna l’album: la copertina gioca con l’errore e la distorsione, l’immagine che ritrae il volto di Irene è stata elaborata attraverso un software audio per ottenere un disturbo digitale, una rottura degli equilibri in grado di generare una sorta di incomprensione digitale. Il risultato è un’opera di “glitch art” all’interno della quale è proprio il malfunzionamento l’origine della sua valenza estetica. La bocca è al centro di questa “rottura” per i molteplici ruoli che ricopre all’interno dell’album: strumento ritmico, generatore di suoni e rumori, base e melodia vocale. Il risultato è fresco, originale, evocativo, raffinato. Irene Ghiotto dimostra di avere stile e la canzone “Ciglia” rappresenta, nello specifico, il surplus ultra di un lavoro essenziale ma curato nei dettagli.

Raffaella Sbrescia

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Questa la tracklist del disco: “Una Mosca”, “La strada sbagliata”, “La filastrocca della sera”, “Ciglia”, “Cinque anni” , “Canzone inutile”, “Gioco di parole”, “Lieto fine”, “La sposa”, “Il nostro orizzonte”.

Video: La strada sbagliata

“Vinicio Capossela – Nel Paese dei Coppoloni”, un’affascinante storia folk a metà strada tra mito e realtà

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“Vado cercando musiche e canti, i canti che transumano, cambiano lingua e pelle ma non il moto dell’anima che l’ha generati”. Questo è il fulcro di una storia d’appartenenza, una storia che risponde a quesiti di cruciale urgenza: “Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando?”, quelli che ci pone Vinicio Capossela che, in occasione dei 25 anni di carriera, approda al cinema con un viaggio onirico e imprevedibile alla ricerca di personaggi canti e siensi perduti. “Vinicio Capossela – Nel Paese dei Coppoloni” è il titolo dell’ originale e inedita prodotta da laeffe, PMG e LaCupa che, infatti, debutterà sul grande schermo con un evento speciale martedì 19 e mercoledì 20 gennaio, distribuita da Nexo Digital. Il film è un viaggio cinematografico,  geografico, musicale e fantastico – narrato, cantato e vissuto in prima persona da Vinicio Capossela, un ponte tra le pagine de “Il Paese dei Coppoloni” e le musiche di “Canzoni della Cupa” nonché il prossimo disco di inediti dell’artista (in uscita a marzo 2016), da cui è estratta la colonna sonora del film. Diretto da Stefano Obino, il film ci restituisce il ritratto di un’Italia forse perduta e dimenticata, un luogo immaginario che diventa reale, uno spazio fisico che si trasforma in pura immaginazione, l’olimpo dove visse “gente da battaglia”. Un’occasione unica per seguire il “musicista viandante” Capossela in questo viaggio a doppio filo sul fronte della musica e del racconto in un mondo che affronta ormai da 15 anni.

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In quest’opera che ruota attorno a Calitri, in Alta Irpinia, travolto dalla modernità, Vinicio illumina ogni storia e ogni luogo con la prospettiva del mito, tra canzoni (nuove e vecchie), apologhi sul tempo e sul sacro, fantasmi di trebbiatrici e di ferrovie, ritratti di impagabili abitanti del paese dove abitava la sua famiglia. Attraverso il racconto del viandante Vinicio ci si perde Nel paese dei Coppoloni, attraversato a piedi, in un vecchio furgone, su una trebbiatrice volante. «Sono nato in Germania, da piccolo me ne vantavo. Così, userò una parola tedesca: Heimat. Qualcuno traduce la parola con “Patria”, ma quello è Vatterland, termine maschile, forte, poi degenerato in declinazioni dispregiative. Invece Heimat è femminile, materno, esprime un sentimento, che è quello di una casa da cui ci si è separati. Mettere insieme queste storie ha richiesto molto tempo, più di dieci anni. Ma non sono ricordi, non è un’operazione sulla memoria, la formula del ricordo è riduttiva: per me, come che per chi guarda, quelle che si vedono sono cose che non ricordiamo, perché non le abbiamo vissute. Eppure le riconosciamo», ha spiegato Capossela durante la conferenza stampa tenutasi subito dopo la proiezione del film.

Vinicio Capossela © Valerio Spada

Vinicio Capossela © Valerio Spada

Tra lupi irpini e barbieri istrioni, mitologici sposalizi e spettrali case terremotate, frammenti di video d’epoca e testimonianze del recentissimo Sponz Festival, Vinicio ci mostra un pezzo d’Italia svuotata e smembrata che la contemporaneità cerca di riempire in modo violento con centrali eoliche e discariche  a discapito della ritualità condivisa. Ad ogni modo questo racconto affascinato e evocativo non è un’operazione nostalgica è, bensì, una favola folk ulteriormente arricchita dalle musiche che saranno contenute nel prossimo album di inediti di Capossela, intitolato “Canzoni della cupa”, la cui uscita è prevista per marzo 2016.

Vinicio  Capossela

Vinicio Capossela

 «Per tanti anni ho lavorato su questo patrimonio, ora le canzoni hanno fatto il loro primo guaito in questa colonna sonora, spero che tra poco vengano a mordervi», ha dichiarato il cantautore che, a margine del film, ha anche presentato un video di 12 minuti in cui illustra un nuovo brano intitolato Il pumminale”, ispirato a una delle doppie anime dell’uomo che la cultura popolare ci ha abituato a conoscere in un mondo in cui non c’è distinzione netta tra umano e animale, in cui tutta la natura è espressione della divinità e per questo inconoscibile, se non con l’esperienza diretta. «Il pumminale è una parola che significa lupo mannaro, una storia di seduzione e demoni per la quale ho contattato Lech Kowalski, regista polacco che ha documentato la scena punk dai Sex Pistols ai Ramones a Johnny Thunders. Non è stato semplice, ma è riuscito a venire in paese – appena arrivato, subito ha detto: ‘Qui recupero le mie origini polacche’», ha concluso l’artista.

 Raffaella Sbrescia

 

Blackstar, David Bowie alza ancora l’asticella con un nuovo imperdibile album

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Dopo cinque decadi di intensa attività artistica, David Bowie conserva intatto il suo status di inarrivabilità con “Blackstar”, il ventottesimo album di inediti pubblicato l’8 gennaio 2016, nel giorno del suo 69esimo compleanno, su etichetta Iso/Columbia Records. Prodotto da Tony Visconti con il contributo del sassofonista Donny McCaslin, il chitarrista jazz Ben Monder, il batterista Mark Giuliana, il bassista Tim Lefebvre, Jason Lindner alle tastiere e, in soli due brani, il fondatore degli LCD Soundsystem James Murphy alle percussioni, l’album si compone di 7 piccole suite caratterizzate da una notevole durata e da molteplici movimenti racchiusi in un’unica soluzione. Nervosa, cupa, esoterica è l’atmosfera in cui Bowie, da sempre maestro indiscusso dell’eclettismo, ci introduce catapultandoci con risolutezza in digressioni, cambi di ritmo e soluzioni armoniche complesse.

David Bowie

David Bowie

Trasponendo in chiave jazz le sue ispirazioni, Bowie inserisce un fitto tappeto di fiati in tutto il disco, regalandoci un ascolto ricco e variegato nonchè caratterizzato da una costante pulsazione ritmica. “Blackstar” si muove tra grandi orchestrazioni e arrangiamenti elettronici, tra avant jazz e drum’n'bass e anche la vocalità di Bowie raggiunge una formula di canto non canto attraverso testi criptici e pprivi di una risoluzione definita.  Tutto risulta già chiaro dalla title track ma anche nel singolo “Lazarus”, brano di punta del disco, a metà strada tra dolore e speranza, attraversato da un mix di chitarre distorte, morbido piano elettrico, fiati voluminosi  emerge un mood scuro, gotico, drammatico. Intenso ed imponente il sax che stride e osa in “Tis A Pity She Was A Whore che, insieme ai guizzi  di “Sue (Or In A Season Of Crime) rappresenta il momento più vorticoso ed energetico di questo lavoro. Giri di basso e maestosi archi vestono i versi di “Girl Loves Me mentre la dilaniante “Dollar Days ci riporta a toni più scuri.  Epico l’arrangiamento di “I Can’t Keep Everything Away: un crescendo emozionale sancito da un guitar solo sullo sfondo che ci lascia in uno stato di attonita contemplazione.

Raffaella Sbrescia

Tracklist ★:

1. Blackstar

2. ‘Tis a Pity She Was a Whore

3. Lazarus

4. Sue (Or In a Season of Crime)

5. Girl Loves Me

6. Dollar Days

7. I Can’t Give Everything Away

Video: Lazarus

“Che Bella Cacofonia”, il vorticoso melting pot sonoro di W. Victor

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A quattro anni di distanza da “Rotto”, il belga W. Victor  “Che Bella Cacofonia, un sorprendente lavoro discografico sospeso tra folk-punk, cantautorato italiano, cabaret, musica balkan e sonorità del mediterraneo. Le dodici tracce che compongono la tracklist creano un immaginifico connubio di richiami ed influenze che bandiscono etichette e limitazioni. Pubblicato per Ottokar Records, “Che Bella Cacofonia” mescola infiniti generi passando dal folk, al pop, al blues, al jazz senza mai trascurare i dettagli e gli arrangiamenti, sempre molto curati. L’eccentrico disco si apre con il ritmo incalzante, grottesco e festaiolo di E Carnevale, l’esplosione di energia continua con la trascinante titletrack. Decisamente più intimista il mood di “Sempre Canto Per Lei, enigmatica la trama multiforme di Perché  mentre i toni si rifanno frizzanti e magnetici sulle note di “Taranbella, pronta ad introdurre il francese folk/punk della velocissima “Azerty Uiop. Spazio anche a piccoli spunti più delicati in Monte Carlo e nella trama perturbante di Tranquilize Me. La chiusura del disco all’insegna dell’autenticità cantautorale e della caducità che contraddistingue l’animo umano con “Un Giorno Così.

Raffaella Sbrescia

Video:

 TRACKLIST
01. E Carnevale
02. Gigolo John
03. Che Bella Cacofonia
04. Sempre Canto Per Lei
05. Perchè
06. Taranbella
07. Azerty Uiop
08. Après La Pluie
09. Il Mammut
10. Monte Carlo
11. Tranquilize Me
12. Un Giorno Così

Slaves Of Love and Bones: la recensione di Real Fake Music

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“Real Fake Music” segna il debutto discografico ufficiale degli Slaves Of Love And Bones. Pubblicato su etichetta I Make Records, il lavoro raccoglie le attitudini, le sperimentazioni e i voli pindarici della fantasia di Luca Criscuoli (Vocals), Claudio La Sala (Guitar & Computer Programming), Raffaele Caputo (Guitar & Synth), Riccardo Iannaccone (Drum, Pad & Synth) all’interno di sette tracce intrise di soluzioni sonore elettroniche e ‘sintetiche’. Sequencer, campionamenti, pad, synth scandiscono vorticose modulazioni armoniche. Le sorgenti armoniche sono concrete ma danno vita a suoni fittizi; il risultato finale è proprio il paradosso racchiuso anche nel titolo dell’Ep: Real Fake Music.
Se i testi degli Slaves Of Love And Bones raccontano l’uomo e il suo rapporto con la nuova cultura digitale ed il cambiamento dei rapporti interpersonali, le forme sonore danno vita a nuove impercettibili sfumature del mondo sensibile. Se “Everyday” di Buddy Holly, unica cover contenuta nell’Ep, si riveste di inedita oscurità,  ”A final Solution” e “Inside” bilanciano il suono sintetico con potenti riff di chitarra. Intuizioni e spunti trovano, infine, un promettente bilanciamento in “This is a Paradox”, possibile manifesto di una formula sonora qualitativamente interessante.

Raffaella Sbrescia

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Locura: la lucida follia di Pico Rama in tredici tracce cosparse di verità

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Osservazioni, riflessioni, vibrazioni a metà strada tra esoterismo e misticismo. L’opera prima di Pico Rama, figlio d’arte, ma anche figlio dell’era postcontemporanea, unisce musica, filosofia e teatralità in “Locura”, terza prova solista pubblicata per la Mescal. Passando attraverso innumerevoli esperienze di trasformazione Pico Rama sceglie parole e testi seguendo una missione di tipo terapeutico per sé e per gli altri. Nelle tredici tracce accordate a 432 hertz , allineate con tutte le altre frequenze in natura,  l’artista usa una poetica complessa accompagnandosi con uno stile che parte dal raggae fino a lambire le rive dell’l’hip hop sfociando dolcemente nel dub.  Anticipato dal singolo “Regali del Divino(Merda), “Locura” attraversa il proprio immaginario, non teme di osare mostrando le sue subpersonalità e la sua mole di pensieri sfavillanti. In questo nuovo lavoro Pico si sposta dalla mente al cuore, sceglie di interpretare brani amati  come ‘Estrellita Divina’ – un canto sciamanico –   ‘Nuevo Horizonte’ dei Kirtan Reggae e la ballata ‘Dall’altra parte del cancello’, un bellissimo pezzo di Giorgio Gaber del 1973 (contenuta nel cd ‘Far finta di essere sani’; ndr). Esotismo e rap, essenzialità e profondità, sciamanesimo e canti di coscienza si fondono in “Un pezzo di terra”, “L’universo ci guarirà”, “L’idea della mortalità”, brani che intendono trasmettere messaggi significativi in maniera semplice ed efficace.

Pico Rama

Pico Rama

Originale ed interessante il featuring con Yari Power (conosciuto durante l’ultima edizione di Pechino Express) sulle note di “Your Jungle”, una sintesi psichedelica delle esperienze vissute in Ecuador e Perù. Il pezzo manifesto dell’intero album è “Loco”, il riadattamento di un brano di Darwin Grajales, cantautore e musicoterapeuta colombiano con cui Pico ha condiviso un percorso di sanazione nella selva amazzonica. Il flusso di lucida follia continua con “Non fango no loto” e si conclude con “Eplosione dal di dentro”, una folle meditazione guidata che sigilla un disco veramente pregno di contenuti , un lavoro in cui il raggamuffin rap di Pico si affida all’animismo proiettandoci al centro della realtà che ci circonda.

Raffaella Sbrescia

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Video: L’idea della mortalità

Bird Calling: gli incroci jazz della Mario Raja Big Band per sessioni d’ascolto sempre inedite

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Come i miglior vini, abbiamo lasciato che “Bird Calling”, il progetto discografico della Mario Raja Big Bang pubblicato alla fine del 2014 per Itinera Edizioni, decantasse al punto giusto per poterne degustare fino in fondo ogni singola sfumatura. Attraverso l’ideale incontro tra Charlie Parker e Igor Stravinsky, due giganti della musica del XX secolo, legati da ammirazione e stima reciproca, Mario Raja si è lasciato ispirare da suggestioni, atmosfere e temi dal fascino senza tempo. Registrato al Groovefarm studio di Roma, l’album comprende dieci brani originali, cinque dei quali composti dallo stesso Raja, oltre a due composizioni di Steve Lacy (“Utah” e “Esteem”) e una sorprendente rilettura di “Pleasure Is All Mine”, brano per sole voci della cantante islandese Björk. Attraverso un linguaggio filosofico proiettato all’interno di fitte trame strumentali non convenzionali, Alice Ricciardi alla voce, Daniele Tittarelli e Carlo Conti ai sassofoni, Claudio Corvini e Francesco Lento alla tromba ,Humberto Amésquita al trombone, Enrico Bracco alla chitarra, Pietro Lussu al pianoforte, Luca Fattorini al contrabbasso e Armando Sciommeri alla batteria individuano nuovi canali interpretativi senza rinunciare a spontaneità e freschezza. La bellezza di questi settantadue minuti di ascolto risiede nella grande apertura interpretativa data al nostro subconscio. Emozioni, ricordi, pensieri reconditi riescono ad affiorare con fluida naturalezza. Il potere del jazz e la bravura della Mario Raja Big Band sta proprio nell’essere riusciti a creare una dimensione unica ed individuale pronta a rinnovarsi ad ogni singolo ascolto.

Raffaella Sbrescia

 

Queen’s Fanfare (Mario Raja)

Pas du tout (Mario Raja)

Childhood Lost (Enrico Bracco)

Utah (Steve Lacy)

Mad Rag (Mario Raja)

Abeti piccoli (Mario Raja)

Pleasure Is All Mine (Björk, Tagag, Mike Patton)

Winter Lullaby (Pietro Lussu, Alice Ricciardi)

Esteem (Steve Lacy)

Bird Calling (Mario Raja)

“Chiamate Napoli… 081”: la Partenope postcontemporanea secondo Marco Zurzolo

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Sassofonista, compositore e arrangiatore classe 1962, Marco Zurzolo segna un nuovo passaggio evolutivo all’interno della storia musicale partenopea con “Chiamate Napoli… 081”, un nuovo lavoro discografico giunto a 20 anni di distanza dall’ album d’esordio “Lido Aurora”, pubblicato nel 1995. Capace di attraversare stili differenti cesellando di volta in volta suoni sempre inediti, Zurzolo sceglie di convergere energie e riferimenti in dieci brani legati da un unico file rouge: Napoli. Rispecchiando fedelmente l’ideale di una città caratterizzata da infinite sfumature, anche le composizioni proposte da Zurzolo si rivestono di molteplici colorazioni: ora leggiadre, minimal ed essenziali, ora corpose e suadenti, ora melanconiche e crepuscolari. Con un titolo di chiara matrice meroliana, “Chiamate Napoli… 081” rappresenta la tangibile testimonianza di una possibile connivenza dicotomìtica tra amore incondizionato e rabbia furente. Registrato, missato e masterizzato allo studio Hypnocampo, “Chiamate Napoli…081” è stato prodotto da Itinera e distribuito da Goodfellas. Raccogliendo il frutto delle numerose e variegate esperienze musicali che si sono susseguite nel corso degli anni, Zurzolo ed il suo quartetto acustico composto da eccellenti musicisti quali Francesco Villani al pianoforte, Diego Imparato al contrabbasso e Gianluca Brugnano alla batteria incanalano input e stimoli in un unico vortice sonoro. Ogni singola traccia è parte di un unico discorso lineare che, attraverso un meticoloso processo di sublimazione  tra acustica ed elettronica, ad opera di Piero De Asmundis, riesce a collocarsi nel nostro tempo senza alcuna forzatura. Particolarmente suggestiva la  rilettura di “I Often Think They Have Merely Go” di Gustav Mahler,  arrangiata da Gabriella Grossi (sax baritono) con il contributo vocale di Francesca Zurzolo. Tra gli illustri ospiti coinvolti in  questo progetto segnaliamo anche Ciccio Merolla Stefano Iorio presenti in “Pelle arsa”, immaginifico il contributo del  violoncellista Leonardo Massa in “Trustin’ me”, malandrino e tentatore l’effluvio al sax proposto in “Orme di mandorla”. L’energia, il carisma e la maestrìa con cui Zurzolo racconta la sua visione di Napoli si confà, per concludere, al modus vivendi partenopeo senza manierismi di sorta e soprattutto senza stravolgerne la tradizionale natura.

Raffaella Sbrescia

La tracklist: 1. Orme di Mandorle – 2. Terra Infuocata – 3. Pelle Arsa – 4. A Bruno – 5. Respiro Forzato – 6. Sogno antico – 7. Trustin’ me – 8. Napoli Centrale – 9. I Often Think They Have Merely Go – 10. Sinfonietta.

 

Cage the Elephant: un passo in avanti con “Tell me I’m pretty”

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Con “Tell Me I’m Pretty”, il loro quarto album da studio pubblicato il 18 dicembre 2015,  i Cage The Elephant imprimono un’impronta ancora più definita al proprio percorso musicale con dieci brani energici e suggestivi. Prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys e degli Arcs, mixato da Tom Elmhirst  e registrato all’Easy Eye Sound di Nashville, in Tennessee, ” Tell Me I’m Pretty” unisce il garage pop alle jam di ispirazione anni ’70. La fascinazione ispirata da questo lavoro risiede anche e soprattutto nella scelta di aver voluto registrare molti dei 10 brani in tracklist in un’unica take, catturando così tutta la loro travolgente energia live. A lungo on the road, la band ha registrato, infatti, il tutto esaurito ai loro concerti da headliner esibendosi al fianco di Black Keys, Foo Fighters, Muse e Queens Of The Stone Age. Oggi il gruppo torna a farsi sentire forte e chiaro con un nuovo lavoro considerato, forse ingiustamente, come successore del precedente album “Melophobia” (2013). Nato dall’esigenza del quintetto composto da  Matt Shultz (voce), Brad Shultz (chitarra), Daniel Tichenor (basso) e Jared Champion (batteria) di tornare alle atmosfere e agli intenti da cui erano partiti all’inizio della loro carriera artistica, il disco appoggia l’intera struttura ossea su costruzioni rock semplici e genuine. Tra tutti i brani, evidenziamo “Cold Cold Cold” la cui cruda bellezza rimanda agli anni Sessanta, di “Trouble” apprezziamo lo spunto psichedelico, nuovamente ripreso in “How Are You True” . Veraci e intriganti “That’s Right” e “Punchin’ Bag”. Finale pirotecnico con “Portuguese Knife Fight”, nuovo papabile manifesto del cinismo postcontemporaneo.

Raffaella Sbrescia

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Video: Mess Around

All you can eat: le nuove sfaccettature degli Slivovitz

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Imperioso, fluido, variopinto, appassionato: questo è “All you can Eat”, il nuovo album degli Slivovitz, attivi sulla scena jazzrock napoletana dal 2001. Nella loro discografia tre album: Slivovitz (2006), Hubris (2009) e Bani Ahead (2011). Tre prove discografiche in cui i 7 musicisti hanno saputo dimostrare un notevole piglio creativo confluito una speciale formula progressive gypsy electro eclectic jazz. Il fascino ossimorico di questo nuovo lavoro risiede nella riuscita contrapposizione di stili, influenze, richiami e ritmi dal mondo. Si va dall’ammaliante atmosfera di “Persian nights”  al perturbante groove di “Mani in faccia” passando per le suggestioni cinematografiche di “Yahtzee”, l’immaginifico tocco folk di “Barotrauma” e la solenne maestosità di “Hangover”. Le composizioni degli Slivovitz sono singole esperienze sensoriali in grado di toccare diversi punti dell’anima, un “All you can eat” sonoro da assaporare ad occhi chiusi e a cuore aperto.

Raffaella Sbrescia

SLIVOVITZ: Derek di Perri : harmonica Marcello Giannini : electric and acoustic guitars Vincenzo Lamagna : bass guitar Salvatore Rainone : drums Ciro Riccardi : trumpet Pietro Santangelo : tenor & alto Sax Riccardo Villari : acoustic and electric violin

Tracklist:

01) PERSIAN NIGHTS 02) MANI IN FACCIA 03) YAHTZEE 04) PASSANNANTE 05) BAROTRAUMA 06) HANGOVER 07) CURRYW URST 08) OBLIO

Video: Passannante

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