Intervista a Valeria Vaglio. La cantautrice pugliese racconta “Il mio vizio migliore”

Valeria Vaglio

Valeria Vaglio

Valeria Vaglio  è una cantautrice pugliese. Il suo percorso si avvicina alla musica fin dalla più tenera età. Attiva sostenitrice di Amnesty International e delle campagne contro l’omofobia, Valeria è anche direttrice dell’etichetta discografica Bobo Records.  Da oggi, venerdì 28 marzo, è in rotazione radiofonica “Il mio vizio migliore”, il primo singolo estratto dal terzo omonimo album di inediti, disponibile in digital download e su tutte le piattaforme streaming.

Abbiamo raggiunto Valeria al telefono per raccogliere le sue impressioni su questo disco ma anche per imparare a conoscere la sua personalità forte e decisa.

“Il mio vizio migliore” è il titolo del tuo terzo album. In queste 10 tracce c’è tanta emotività e tanto spazio ai sentimenti. Quali sono i fatti a cui ti sei ispirata e con quale spirito hai lavorato a questo disco?

Questo non è nato come un disco completo, ho scritto man mano delle cose senza pensare che sarebbero finite in un album.  I contenuti sono abbastanza eterogenei: si parla di tante cose che mi sono successe ma anche di fatti che non ho vissuto in prima persona. Per me scrivere è soprattutto il frutto di una necessità. Dopo 4 anni ho sentito che il momento di scrivere qualcosa di nuovo era arrivato senza pensare alla situazione attuale della discografia italiana. Nelle mie canzoni parlo non solo di me ma anche degli altri e questa cosa l’ho riscontrata anche negli altri due dischi precedenti. Per quanto differenti possano essere le vite che viviamo, le problematiche da affrontare sono le stesse e non c’è niente di più bello che ritrovarsi nelle parole di un’altra persona.

“Torna presto” è uno dei brani più toccanti del disco. Come mai hai scelto di dedicare spazio ai pensieri di un soldato?

Si tratta di un tema che mi tocca molto, non ho parenti in esercito ma c’è stato un periodo in cui questo era un argomento molto trattato, e anche se oggi non fa più notizia,  lo stato delle cose è rimasto inalterato e il dramma della guerra continua a coinvolgere migliaia di famiglie.

Valeria Vaglio

Valeria Vaglio

Qual è il tuo “vizio” migliore?

Il mio vizio migliore è non parlare dei miei vizi ma fare in modo che si scoprano, elencarli diventerebbe una cosa triste! In ogni caso attraverso la mia musica e i mezzi di comunicazione, che utilizzo per essere sempre molto vicina alle persone che mi seguono, si può scoprire facilmente qualcosa della mia persona.

“Distesa” è una canzone di rinascita individuale?

Venivo fuori da un periodo buio poi, ad un certo punto, ho preso coscienza di quello che ero stata in grado di affrontare e, seppur con qualche graffio, ho ripreso in mano la mia vita…La frase più importante è “Nessuno è importante più di me”, sento tante volte dire “tu sei la persona più importante della mia vita”, secondo me, invece, se non ci vogliamo bene noi per primi, non possiamo amare nessun’altro.

Cos’è per te il viaggio?

Per me il viaggio rappresenta un momento di  arricchimento, anche senza pensare necessariamente ad un viaggio lungo. Il viaggio sono soprattutto le persone che si incontrano! Ogni giorno, quando giro per Roma, mi guardo molto intorno, mi piace tanto vedere la gente cosa fa, cosa guarda… il confronto con il resto del mondo è importante quindi che un viaggio duri 10 minuti o un anno, per me ha lo stesso identico valore.

Che rapporto hai con la musica? C’è qualcosa di autobiografico ne “L’ultima canzone”?

Sì, sicuramente! Io e la musica siamo legate da un legame che non si è riuscito a spezzare neanche quando ci ho provato …è successo già un paio di volte ma, nonostante sia la cosa più bella che ho, per me la musica è una specie di condanna, questo mi fa sorridere perchè alla fine, forse, non riuscirei a vivere senza. Non ho mai avuto la frustrazione del foglio bianco, anzi, se non scrivo, pace. Tuttavia ci sono momenti in cui questa instabilità lavorativa ti mette davanti alla condizione di pensare ad altro ed ogni volta ci si trova davanti a qualche evento che riesce a farti continuare. “L’ultima canzone” è un brano che ho scritto un po’ pensando che fosse veramente l’ultimo, poi, però, mentre lo scrivevo, mi sono resa conto che quello era proprio un modo per  ripartire.

Il sound di “ Sand like snow” si differenzia un bel po’ dagli altri brani…come mai?

Il brano è la colonna sonora di un’opera prima, cioè del film “Wax”.  Suonavo questa canzone in acustico nel film poi ho deciso di farne una versione molto aggressiva ed è venuta fuori così.

Valeria Vaglio in uno scatto tratto dalla fanpage di Facebook

Valeria Vaglio in uno scatto tratto dalla fanpage di Facebook

Come hai vissuto la collaborazione con il regista Lorenzo Corvino per la colonna sonora di “Wax”?

Insieme abbiamo dapprima  realizzato il  videoclip del brano “Dio quanto sto bene senza te”, tratto dal mio secondo album, girandolo interamente con un Iphone 4. Da questo rapporto lavorativo è venuta fuori una bellissima amicizia. Sono stata una delle primissime persone che ha letto la sceneggiatura del film e ne sono rimasta così incantata da riuscire a scrivere un pezzo immaginandomi il film, quasi come avessi letto un libro. A Lorenzo questa cosa è piaciuta a tal punto da decidere non solo di inserire  il pezzo dentro il film,  ma anche di renderlo il punto cardine intorno a cui ruotano una serie di eventi. Sono molto onorata di questa cosa anche perchè il film è davvero molto bello.

Tra le tante cose di cui ti occupi, sei anche direttrice dell’etichetta Bobo Records. Come gestisci questa tua doppia veste?

Ho creato questa etichetta con degli amici per fare qualcosa che rispecchiasse per davvero i gusti miei e di quelli di molte altre persone che non trovano riscontro in quello che, invece, la discografia in questo momento propone. Stiamo lavorando a progetti non troppo difficili, la musica per me non deve essere di nicchia, deve essere qualcosa di fruibile subito e in qualsiasi momento. Il mio disco è quello a cui ho lavorato personalmente ma mi piace interagire con gruppi giovani di ragazzi, che magari hanno delle bellissime idee, ma hanno altrettanto bisogno di essere diretti.  Quello della musica è un mare magnum e, se non si sa a chi rivolgersi, cosa fare e cosa dire, si rischia di essere inglobati in un sistema che finisce per buttarti via. Questo è proprio quello che voglio evitare cercando innanzitutto di valorizzare le risorse del territorio (Puglia). L’etichetta ha, infatti, sede a Bari e intende aiutare tanti artisti pugliesi che meritano di lavorare con tranquillità senza dover andar via come ho dovuto fare io.

Dove e quando potremo ascoltarti dal vivo?

Stiamo ancora definendo le date! Il 4 aprile sarò a Pila ( Valle D’Aosta), il 13 aprile a Bari il 26 aprile a Milano e il 18 maggio sarò a Genova in occasione della Fiera Internazionale della Musica. Ovviamente le date sono in continuo aggiornamento sia sul mio sito che sui canali social. Per quanto riguarda il concerto che intendo proporre, ho preferito pensare ad un acustico un po’ particolare: mi esibisco con una loop station con cui riesco a riprodurre grande parte del sound di una band. Questo perché muoversi con tante persone è molto più difficile sotto tanti aspetti ma anche perché mi piace esibirmi in posti intimi, dove la gente non è tantissima ed è attenta. Questa è la mia dimensione ideale, ho bisogno di sentire il contatto con le persone e di  ascoltare il respiro della gente in platea.

Raffaella Sbrescia

Si ringraziano Valeria Vaglio e Roberta Ruggiero dell’Ufficio  Stampa Parole e Dintorni per la disponibilità

I ritratti di… Roberto Panucci. L’intervista al fotografo delle emozioni sottopalco

Roberto Panucci

Roberto Panucci Ph. Fabrizio Caperchi

Roberto Panucci è uno dei fotografi professionisti più stimati d’Italia. La sua carriera, iniziata quando era ancora adolescente, lo ha visto protagonista di un percorso professionale estremamente variegato: dalla tradizionale camera oscura, Roberto è passato alla fotoriproduzione e alle arti grafiche conferendo un ulteriore aspetto di completezza alle sue competenze. Da tantissimi anni Roberto opera, con successo, nel mondo della fotografia musicale. Fotografo ufficiale di Pino Daniele e del concertone del Primo Maggio a Roma, Roberto collabora con alcuni dei più prestigiosi magazine specializzati in campo musicale. Sono centinaia i concerti che Panucci fotografa ogni anno attraverso la preziosa lente dei suoi super obiettivi ed è proprio per queste ragioni che l’abbiamo incontrato per conoscere i segreti, le problematiche e le soddisfazioni di un “ritrattista di note” come lui.

Roberto hai trascorso trent’anni e più dietro un obiettivo…Su cosa si orienta la tua ricerca visiva e come cambia in base al contesto in cui ti trovi ad operare?

Molte volte ti lasci trasportare dal momento, questo dipende anche dalla situazione e dal lavoro che stai facendo. In genere il lavoro durante i concerti è molto più difficile da gestire perché spesso abbiamo a disposizione solo uno, due o tre pezzi e, in un tempo minimo, devi riuscire a portare qualcosa di buono a casa. La cosa che sicuramente viene più naturale è lasciarsi trasportare, rapire da quello che succede di fronte a  te. Ognuno possiede, dentro di sé, il proprio modo di vede le cose ma, quando sei sottopalco, devi cercare di lasciare da parte i tuoi pensieri e gli eventuali problemi che attanagliano la mente. Il tuo compito è dedicarti anima e corpo a quello che succede sul palco.

Marco Mengoni Ph. Roberto Panucci

Marco Mengoni Ph. Roberto Panucci

Spesso le tue foto costituiscono un filo che unisce l’artista e lo spettatore, ti capita di pensare all’importanza che riveste il tuo ruolo?

Certo, ci penso spesso! Si tratta di un grande onore per me perché è una cosa bellissima. Secondo me riuscire a rendere anche un  solo decimo di quello che vedo e trasmettere alle persone che vedranno le mie foto i momenti e le emozioni, che ho il privilegio di poter vivere, spesso a pochi metri o addirittura  a una manciata di centimetri di distanza dagli artisti, è un dono molto prezioso. Magari alcuni di questi artisti sono degli idoli per tante persone mentre per noi, addetti ai lavori, non lo sono ed è molto importante cercare di lasciare da parte proprio questo. Molte volte capita, infatti, di fotografare qualcuno che non ci piace artisticamente ma, nonostante ciò, dobbiamo pensare di dover dare la possibilità alle persone di vedere qualcosa attraverso i nostri occhi. Gli strumenti di questo lavoro sono ovviamente le attrezzature che, insieme all’esperienza e all’intuito,  costituiscono le risorse fondamentali per riuscire nel nostro compito. Molte volte le persone ci scrivono, ci arrivano dei messaggi davvero emozionanti ed è in questi momenti che ci si rende conto del fatto che esiste una linea che collega l’artista che sta sul palco, noi che lo fotografiamo e le persone che, attraverso i nostri scatti, rivivono o si interfacciano con le loro emozioni.

Quanto e come cambia l’approccio tecnico e l’attrezzatura necessaria a seconda delle location in cui dovrai scattare le tue foto?

Ovviamente l’attrezzatura è cambiata negli anni e si è adattata anche ai cambiamenti del mio ruolo. Attualmente ho tre corpi macchina: una Nikon D3s, una D3 e una  D700, che ormai uso per le emergenze, poi ho una serie di ottiche professionali della Nikon: 14-24,  24-70, E 70-200, della serie Nano Crystal in f.2.8 fisso che, a qualsiasi distanza focale, mantiene nello zoom il diaframma minimo sempre a 2.8. Poi ho anche un duplicatore Nikon 2x ed è quello che sta sempre in borsa; se so che saremo molto lontani dal palco, uso quello perchè è  un ottimo compromesso tra qualità e luminosità e la perdita focale è veramente quasi impercettibile. Infine ho il 400 F  2.8 della Nikon, un gioiello che uso solamente quando mi trovo ad una notevole distanza dal palco. Per esempio artisti come  Madonna, Sting, Bruce Springsteen danno forti limitazioni di spazio mettendoci a 40-50 metri di distanza e questo obiettivo è l’ideale, anche se ha bisogno di un monopiede in grado di  reggere un peso fino ai 12 chili perché,  tra macchinetta, obiettivo e duplicatore arriviamo già a oltre 7 chili.

Giuliano Sangiorgi Ph. Roberto Panucci

Giuliano Sangiorgi Ph. Roberto Panucci

Cosa pensi del fatto che sempre più spesso ci siano sedicenti fotografi sottopalco?

Per risponderti a questo serve una piccola riflessione.

Questo è sicuramente un periodo particolare. Il dietro le quinte non è assolutamente conosciuto. Per andare avanti in questo mondo bisogna essere scaltri e flessibili. Spesso, infatti, mi chiedono cose un po’ particolari: ad esempio, in occasione del prossimo concertone del Primo maggio a Roma,  mi hanno chiesto, in qualità di fotografo ufficiale della manifestazione, di scattare e pubblicare delle foto in diretta;  con me ci sarà uno staff a darmi una mano e in pochi minuti manderemo gli scatti alla redazione del Primo Maggio che, a sua volta, posterà le foto sui social networks. Questa, che può sembrare una stupidaggine, implica l’utilizzo di un computer importante che normalmente  è un Mac che ha dei costi non indifferenti, a cui bisogna aggiungere tutto il resto, pulizie e manutenzione delle macchinette e degli obbiettivi… e son sempre cifre non indifferenti… a questa, e ad altre cose, non ci pensa mai nessuno e il professionismo si è un po’ perso. Quando faccio corsi e, oppure, vado in Sicilia, come socio Onorario di Castelbuono Arte&Immagine, partecipo a piccoli stage. Si tratta di chiacchierate poco tecniche, senza presunzione. Spesso, però, nascono dei discorsi che ruotano proprio intorno all’idea di poter frequentare la pazzesca  zona sottopalco. Alla fine di tutto questo ti devo dire che purtroppo il 90% dei ragazzi che si avvicinano a questo mondo chiede l’accredito per incontrare o vedere da vicino il proprio artista preferito. Questo è accettabilissimo però, spesso, non capiscono che più della metà dei fotografi svolge questa attività come un lavoro serio per riviste importanti e non per stare a cantare e a ballare. Molte volte questi personaggi ci sono d’impiccio perché non c’è tempo da perdere, facciamo un po’ per uno e ci dividiamo i punti strategici. Con Ligabue, ad esempio, il palco è alto almeno 2 metri ed è dotato di un impianto particolare, comprensivo di una terrazza in cui lavorano i cameraman e il fotografo ufficiale dell’artista. Ovviamente si tratta di cercare di beccarlo tra gli spazi vuoti e spesso abbiamo solo 7 minuti a disposizione. Proprio in questi casi ci si rende conto di quanto sia importante riuscire a svolgere comunque un buon lavoro in totale collaborazione tra tutti… ma senza cantanti e ballerini sottopalco.

Pino Daniele Ph. Roberto Panucci

Pino Daniele Ph. Roberto Panucci

Qual è la tua condizione ideale di lavoro?

Ovviamente quando sei fotografo ufficiale di un evento o di un artista hai a disposizione tutto il tempo e lo spazio che vuoi. Posso salire sul palco, come mi succede con Pino Daniele, con cui lavoro da due anni, posso muovermi tra i musicisti, sbuco nascosto dalle batterie e dagli amplificatori trovando angoli di visione che altrimenti è quasi impossibile avere, si tratta di un  premio alla fiducia da parte della produzione ed è proprio in questi casi che mi sento  in un angolo di paradiso.

Normalmente l’ideale è trovare un pit tranquillo in cui nessuno ci ronza intorno, in cui tutti abbiamo facilità di visione con un palco non troppo alto, senza troppi monitor. Esempio: al Rock in Roma il palco è altissimo, si tratta di almeno 2 metri, 2 metri e 10, le visioni sono molto frammentarie e non è facile lavorare per nessuno. Quando, invece, i palchi sono più comodi, riusciamo ad ottenere dei risultati davvero ottimi.

Skin Ph. Roberto Panucci

Skin Ph. Roberto Panucci

Ci parli della tua mostra personale “Dentro la musica?

La mostra è andata molto bene, è piaciuta  davvero molto sia al pubblico che alla critica specializzata. Stavolta non l’ho prodotta io bensì un locale romano, si tratta del LӧKoo, un’associazione culturale con belle idee, il loro ufficio stampa è una mia collaboratrice per cui si è trattato di un lavoro collettivo. La mostra è stata presa in considerazione anche dal Lanificio 159, sempre a Roma, e verrà riproposta probabilmente a maggio. Si tratterà di un evento con qualche ospite musicale importante che si esibirà dal vivo. Questo progetto mi ha regalato tante soddisfazioni, si tratta di un grande riconoscimento che mi riempie di emozione. Sono cose di cui non mi vanto e che non mi piace sbandierare, spero solo che quello che faccio venga riconosciuto e che passi prima di tutto l’emozione.

Dave Gahan Ph. Roberto Panucci

Dave Gahan Ph. Roberto Panucci

Qual è lo scatto migliore che hai realizzato e quello che vorresti realizzare?

Normalmente si dice che lo scatto che vorrei realizzare è quello che verrà. Questo è vero perché, in fin dei conti, quando fai 200 concerti l’anno per non cadere nella routine, cerchi un modo per andare avanti senza farti del male, artisticamente parlando. Devo ammettere di aver avuto dei momenti magici come, ad esempio, la foto in cui Robert Smith sembra avere un’aureola attorno alla testa o quella in cui, durante il Neapolis, riuscii a beccare uno sguardo incredibile di Skunk Anansie: lei saltava sul palco, ad un certo punto scomparve, il palco era molto basso, io mi guardai attorno e me la ritrovai a gattonare, correndo verso di me, a quel punto ho alzato la macchinetta più vicina che avevo e scattai tre scatti al volo, in manuale, ed è venuto fuori uno sguardo intenso a circa 2 metri da me, dritto dentro la macchinetta. In quell’occasione ho avuto un brivido perché poi subito dopo è scomparsa. Sono cose che ti rimangono dentro ed è bello riuscire ad avere questo tipo di scambio umano. Ci sono artisti freddi, quasi teatrali, che fanno le stesse cose, altre volte, invece, nasce anche un dialogo fatto di sguardi e di sorrisi tra noi che siamo sotto palco e loro che ci sono sopra e questo ci fa sentire considerati, al centro di uno scambio emotivo.

Qual è uno degli episodi più recenti che ti è rimasto nel cuore?

Lo scorso 7 marzo Craig David ha fatto un’esibizione dal vivo per Radio Rai 2 di cui non sapeva nessuno. C’eravamo io, lui ed il suo manager. Craig mi ha salutato subito, mi ha chiesto come mi chiamavo, ho potuto fotografarlo ad  metro e mezzo di distanza dalla consolle e queste foto hanno fatto grossi giri in soli due giorni. Dico questo non per vantarmi ma per sottolineare che sono molto contento del cammino che quelle emozioni sono riuscite a fare. Trovo giusto dire anche che 30 anni fa tutto questo non sarebbe stato possibile e che l’importante è non montarsi la testa e rendersi sempre conto delle cose che ci circondano. Ai giovani dico, invece, di farsi rispettare un po’ di più, di non limitarsi alla gloria dettata dai social. Bisogna avere il coraggio di farsi rispettare con educazione e di far comprendere il valore del  proprio lavoro.

Si ringrazia Roberto Panucci per la disponibilità

Raffaella Sbrescia

Intervista ai Blein: “Abbiamo tanta voglia di metterci in gioco!”

BLEIN COVER ALBUM (2)Tony Gargiulo(chitarra e voce), i fratelli Francesco Papalini (chitarra e voce) e Simone Papalini (basso e voce) e Gabriele Panariello sono i Blein. All’interno della band di Perugia ciascun membro è cantante,  musicista e leader. Forti di un percorso umano e artistico in stretta sinergia,  i Blein hanno pubblicato il primo omonimo lavoro discografico prodotto da Davide Pierucci, con la produzione artistica di Max Marcolini, e contenente sei tracce di genere pop-rock melodico. In questa intervista il gruppo racconta le fasi che hanno scandito il proprio percorso e cosa intende raccontare attraverso la propria musica.

I Blein nascono ufficialmente nel 2012 ma il gruppo esiste praticamente da sempre… Come si è evoluta nel tempo la vostra ricerca musicale e in che modo si è affinata la vostra cifra stilistica? 

In realtà la nostra natura musicale è rimasta invariata e vorremmo tutelarla il più a lungo possible. Tuttavia essendo ancora giovanissimi siamo aperti e recettivi nei confronti degli stimoli che provengono dall’esterno. In questi due anni abbiamo tratto forte ispirazione da tutte le collaborazioni e le conoscenze che abbiamo avuto l’onore di fare: dal chitarrista Massimo Varini ai Pooh, specialmente Dodi Battaglia, fino ad arrivare al nostro produttore artistico Max Marcolini ( Zucchero, Alexia, Irene Fornaciari, ecc ).

BLEIN FOTO (2)Al centro del vostro primo lavoro ci sono sentimenti autentici e le prime emozioni forti che fanno da imprinting in ciascuno di noi… in che modo avete lavorato ai testi e come vi siete rapportati, in fase compositiva, con gli illustri produttori che hanno curato il vostro progetto discografico?

I testi sono farina del nostro sacco mentre siamo stati affiancati ed aiutati nella scelta degli arrangiamenti e nella cura del sound complessivo!

“Solo due soli” è il brano a cui siete più legati perché è il primo della vostra carriera…quali sono i ricordi che vi ispira questa canzone?

Beh è  stato il nostro trampolino di lancio! Ci ha aperto la strada verso la tanto agognata “nuova” vita: le prime esperienze in studio, le prime registrazioni, il primo video, i  primi live e soprattutto abbiamo sentito cantare le parole del ritornello dai nostri fan! Indimenticabile… da pelle d’oca!

Quali sono gli ascolti che ispirano il vostro sound?

In quest’ultimo anno ci siamo confrontati molto di più con la musica pop italiana e mondiale. Abbiamo ascoltato molto ed abbiamo recepito molti stimoli in lungo e largo. Veniamo tutti e 4 da percorsi musicali diversi, però ci accomuna decisamente l’amore per il rock e per i gruppi storici, dai Beatles ai Led Zeppelin, dai Pink Floyd ai Queen, dai Bon Jovi e i Guns’n'roses agli attuali Muse!

BLEIN FOTO 2 (2)In che modo la personalità di ciascuno di voi influisce all’interno della quotidianità del gruppo?

Influisce decisamente al 100 %! Ognuno di noi porta se stesso all’interno del gruppo e del progetto, sicuramente ci avvantaggia l’essere amici e fratelli da sempre!

Ci fate una carrellata degli episodi più significativi della vostra carriera fino ad oggi?

Innanzi tutto l’incontro  con il nostro produttore Davide Pierucci che ci ha dato la possibilità di realizzare la nostra musica e quindi il nostro sogno. Il videoclip di “Solo due soli”,che ha visto la partecipazione del ballerino professionista di amici Francesco Mariottini, ci ha dato una elevata visibilità; poi c’è stata la collaborazione con Massimo Varini ( chitarrista e produttore di Biagio Antonacci, Nek e tantissimi altri ). Poi c’è stata l’apertura del concerto dei Pooh a Bastia Umbra, a luglio, ed infine la vittoria del concorso “mi piace” nella trasmissione “Citofonare Cuccarini” con la  partecipazione ad una puntata in diretta su Radio Uno Rai.

E le vostre passioni parallele? Svolgete anche altre attività lavorative o di studio?

La musica ormai riempie il 90 % del nostro tempo anche se siamo stati impegnati, ed alcuni lo sono tuttora, in percorsi universitari…

Qual è il target di pubblico a cui, secondo voi, il vostro disco si potrà avvicinare di più?

Puntiamo al giovane pubblico italiano. Non a caso il nostro album è in vendita ad un prezzo molto basso per dar modo anche ai giovanissimi di acquistarlo. Da qualche giorno è disponibile nei maggiori store digitali come iTunes e Amazon ecc al prezzo di 2,99 euro. A giorni sarà disponibile anche la versione tradizionale in un un elegante booklet a tre ante con all’interno un libretto con  testi e foto inedite. Questa versione per ora sarà acquistabile solo durante i nostri concerti o attraverso il  nostro sito http://www.blein.it/

Che aspettative avete in merito all’evento che vi vedrà sul palco di Dodi Battaglia dei Pooh il prossimo 4 aprile a Roma?

Abbiamo tanta voglia di metterci in gioco anche perché per la prima volta eseguiremo interamente l’album live!

Quali sono le altre date live in programma?

Stiamo ancora definendo una tournée estiva con la nostra produzione… vogliamo toccare più punti possibili della nostra stupenda penisola!

Raffaella Sbrescia

Video: “Ancora un attimo”

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=zZrl_ULxw-g&w=560&h=315]

Intervista ai Flim: «Vi presentiamo “Time in a fish bowl”»

Flim

Flim

I Flim sono un trio strumentale composto da Massimo Colagiovanni, Giovanni Pallotti e Davide Sollazzi, tre musicisti che, nel 2012, hanno creato un progetto musicale molto originale e ben strutturato fin nei minimi dettagli.  ”Time in a fish bowl” è il loro primo disco, frutto di un intenso anno di lavoro; una linea melodica, minimale, a tratti ipnotica, caratterizza la loro musica che, sfuggendo a qualsiasi classificazione di genere, si presta ad interpretazioni molto eterogenee. In questa intervista il gruppo ci racconta la genesi del disco lasciando, deliberatamente, molto spazio all’immaginazione per un’esperienza d’ascolto da affidare esclusivamente ai propri sensi.

Chi sono i Flim e con quali obiettivi artistici nasce questa compagine musicale?

I Flim sono un trio di musica strumentale, nato nel 2012 a Roma. Dopo un anno dedicato alla composizione abbiamo deciso di registrare un album “Time in a fish bowl”, che uscirà prossimamente.

flim cover albumOtto tracce compongono “Time in a fish bowl”, il vostro primo progetto discografico. Quali sono i temi che hanno influenzato la fase compositiva del disco, le sensazioni che avete provato durante la costruzione di ogni melodia e il riscontro che vi aspettereste da un ipotetico ascoltatore?

Il momento della composizione è stato molto bello, addirittura esaltante. Un lavoro lungo che nel tempo ha delineato l’identità musicale del gruppo.

La scelta di produrre un disco strumentale potrebbe costituire un motivo in più per candidare il vostro sound a musica per immagini (film, cortometraggi, visual art)?

Assolutamente sì. Dopo la composizione e la registrazione del disco c’è stata una fase di ascolto e di comprensione, in cui abbiamo capito quanto l’immagine visiva sia fortemente suggerita dalla nostra musica. Uno dei primi obiettivi che ci prefiggiamo quindi è proprio la sincronizzazione video, e al momento stiamo lavorando al nostro primo videoclip.

Anche se appare subito evidente l’impossibilità di associare la vostra musica a qualsiasi tipologia di genere, c’è qualche influenza esterna o qualcosa che avete attinto dal vostro background?

Nella scrittura dei brani sono naturalmente venute fuori le nostre influenze, i nostri ascolti. Su tutti, due nomi: The Bad Plus e Radiohead. Il risultato effettivamente è difficile da catalogare, ma tutto sommato di facile ascolto.

In alcune tracce del disco ci sono brevi momenti strumentali che sembrano ripetersi in maniera quasi ipnotica… cosa intendete trasmettere attraverso questa tipologia di performance?

Niente in particolare, non c’è un messaggio di cui la nostra musica si fa tramite. L’ossessività di alcune ripetizioni, così come tutte le scelte musicali che abbiamo preso, hanno motivazioni puramente estetiche. Per rendere l’idea, abbiamo trovato i titoli ai nostri brani solo una volta registrati; prima è arrivata la musica.

All’interno del vostro lavoro c’è anche la collaborazione con il Quartetto Sincronie, come è avvenuto questo incontro artistico?

Per l’arrangiamento degli archi ci siamo rivolti a Stefano Scatozza. La scelta del Quartetto Sincronie per l’esecuzione degli archi è stata sua.

Quello che colpisce del vostro lavoro è che ogni brano presenta una struttura completa: ogni strumento riesce a ritagliarsi un ruolo da protagonista senza, tuttavia, oscurare gli altri, creando un’alchimia in grado di trasmettere molteplici sensazioni. Come siete riusciti a bilanciare gli elementi che avevate a disposizione?

Buona parte della nostra musica è molto “scritta”. Le parti e i suoni di ogni strumento sono il frutto di scelte accurate, che ci hanno permesso di trovare ad ogni strumento il proprio “posto” all’interno di ogni brano.

Uno dei brani che si prestano meglio ad un’interpretazione eterogenea è “Release”: delicato, onirico, sognante, a tratti jazzato, fino al climax della jam session finale… come commentereste voi questa traccia?

“Release” è stato l’ultimo brano che abbiamo composto prima di registrare l’album. Nonostante non sia nato con questo intento, per noi è un brano che rappresenta il cambiamento: la fine e l’inizio, calma e il movimento, la tensione e il rilassamento.

Quali saranno i prossimi passi del vostro percorso? Ci saranno dei live?

A breve presenteremo “Time in a fish bowl” e inizieremo a fare live in tutta Italia. Stiamo organizzando anche alcuni live in Inghilterra, in collaborazione con l’artista che ha curato il nostro art work, Jakob Belbin

Raffaella Sbrescia

Dante Brancatisano: “Storia straordinaria di un uomo ordinario”

Dante Brancatisano

Dante Brancatisano

Dante Brancatisano è un cantante, chitarrista e compositore italiano. La sua carriera da solista è iniziata nel 1998 ma nel 2003 il suo sogno musicale ha subito uno stop di tre anni a causa di una lunga permanenza in carcere dovuta, così come raccontato dallo stesso artista, ad un caso di “malagiustizia”. Dante, che si è sempre dichiarato innocente, appena tornato in libertà ha fondato la Eden Music, etichetta discografica indipendente. Nel 2011 ha aperto, nel Ticino, Il Villaggio della musica, una scuola che dà la possibilità ai giovani artisti di formarsi grazie al supporto di professionisti del mondo musicale e nel 2013 l’artista ha pubblicato il suo nuovo disco intitolato “Via Gleno”, nonché il libro autobiografico “Storia straordinaria di un uomo ordinario” (Volo Libero Edizioni e Distribuzione Libraria CdA).

Dolore, solitudine ed impotenza sono i temi centrali di “Via Gleno”, un disco che racchiude la tua dolorosa esperienza in carcere. Cosa ti ha dato la forza di comporre i testi e qual è il messaggio che intendi trasmettere con queste canzoni?

La forza l’ho trovata nella musica, che da sempre è la colonna sonora della mia vita.

Chi ha partecipato alla realizzazione di questo progetto?

Sono tantissime persone che hanno lavorato e che tutt’ora ci lavorano, i musicisti che hanno collaborato sono Alfredo Golino, Andrea Innesto, Andrea Braido .

Copertina CD_Via Gleno (2)Quando è nata la tua passione per la musica e come sei riuscito a coltivarla nel corso degli anni?

La passione musica la coltivo sin da bambino, credo sia nata con me.

Come si fa, secondo te, a lasciar vivere la speranza anche quando tutto ci sembra buio?

Si deve trovare la forza che è dentro ognuno di noi, in fondo siamo noi arbitri della nostra vita.

Hai raccontato la tua vicenda giudiziaria anche nel libro autobiografico “Storia straordinaria di un uomo ordinario”… qual è l’obiettivo con cui hai scritto questo volume e quali sono gli aspetti su cui vorresti che il lettore si focalizzasse?

L’obiettivo è quello di sensibilizzare le persone circa il fatto che, in fondo, una storia cosi può capitare a chiunque e vorrei si riflettesse su come poter rendere la nostra società una società migliore.

Hai fondato la scuola di musica “Il villaggio della musica”. Quali sono le attività principali della scuola e quali sono i valori su cui si fonda?

Le attività principali della scuola sono le lezioni con professionisti del mondo musicale, che arricchiscono i giovani talenti con informazioni sull’industria musicale, oltre a coltivare le loro doti canore ed espressive. La scuola vuole comunque trasmettere i valori alla base del progetto che sono quelli del rispetto e dell’unione.

Quali sono i tuoi prossimi progetti e che aspettative hai per il futuro?

Sono in studio per preparare un nuovo album, affiancato Da Alfredo Golino, Andrea Braido, Paolo Costa, Manco Tafulli, Luca Colombo e sicuramente si aggiungerà qualcun altro. Spero di regalare ancora qualche emozione.

Raffaella Sbrescia

Video: “Via Gleno”

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=WEGQPzZ12yY&w=560&h=315]

Nico Sapuppo racconta i segreti della sua anima jazz

Nico Sapuppo

Nico Sapuppo

Nico Sapuppo  è un sassofonista e compositore di origini sicule. Cittadino del mondo e profondo conoscitore della musica jazz, Nico è riuscito a conquistare numerosi consensi grazie alle emozioni trasmesse dalle sue composizioni,  intrise di contaminazioni. In questa intervista l’artista ha provato a spiegare cosa si nasconde dietro la sua peculiare cifra stilistica.

Nico, il tuo viaggio musicale è cominciato quando eri soltanto un bambino… come si sono evoluti , nel tempo, il tuo sconfinato amore per la musica e la tua ricerca stilistica?

Grazie alle esperienze musicali,  sia dal vivo che negli studi di registrazione, ho avuto la possibilità di spaziare  dal jazz al funky, dal blues al pop. Tutto questo mi ha permesso di maturare ed evolvermi  riuscendo a contaminare la mia musica e migliorare il mio suono del sax rendendolo moderno .

Quali sono le correnti musicali che senti più vicine al tuo mondo fatto principalmente di improvvisazione?

Io amo tutta la musica …Iniziai negli anni 80 ascoltando il jazz rock, poi la fusion ed infine  il jazz puro. Le mie composizioni sono piene di melodia, adoro contaminare e cercare di ottenere un sound il più possibile personale e riconoscibile.

nico sapuppo 2Qual è la pulsione che determina la tua carica creativa?

Cerco Di ascoltare ciò che la mia anima mi suggerisce , ogni volta  è un’ emozione incredibile, lascio il mondo fuor i e tutto comincia a prendere forma in un modo sempre nuovo.

In questi anni hai avuto modo di girare il mondo e di interagire con tantissimi artisti. Ti va di raccontarci qualche episodio che ti ha segnato più di altri?

In realtà gli aneddoti sarebbero tanti: quando conobbi Paolo Fresu ci presentammo cosi : io esordii con le seguenti parole: « Grande maestro posso avere il piacere e l’onore di stringerle la mano ?» e Paolo mi rispose: “ Piacere, Paolo Fresu» ed io ribattei d’istinto: « Piacere Nico Sapuppo, un umile servo della musica» e Paolo, sorridendo, mi disse : «Nessuno  si è mai presentato esordendo così, piacere mio Nico!». L’altro è inerente all’incontro con la grande cantante Elaine Gibbs che, dopo la fine di una performance insieme, abbracciandomi e con le lacrime agli occhi mi sussurrò :« Wow Nico, you are a great soul sax man, thanks for all!». E pensare che il sassofonista a cui si accompagna di solito è Eric Marienthal ….!

Il tuo disco “A long journey” parla molto di te e delle contaminazioni che ami immettere nelle tue composizioni… quali sono le suggestioni narrative che vorresti comunicare al pubblico?

Rispondo con una mia frase: « La musica è libera espressione dell’anima, emozione vibrante allo stato puro», e ancora, lo dico con estrema umiltà e semplicità:« Io sono ciò che suono e suono ciò che sono». La musica ha sempre fatto parte di me, della mia vita, del mio modo d’essere, amo svisceratamente comporre e raccontarmi in musica e, se tutto questo arriva al pubblico, io ne sono felice!

nico sapuppo 3Solo pochi mesi fa eri in Sud America per un lungo tour… in quali paesi ti sei esibito e che riscontro hai avuto da questa esperienza?

In Sud America ho ricevuto un accoglienza incredibile, ogni concerto era  accompagnato una da diretta tv e da una grande promozione in radio. Sono stato in  Argentina  (Buenos Aires, Cordoba, Concordia, Passo de los libres, Corrientes), Brasile (Rio de Janeiro, San Paolo, Bahia),  Paraguay e Uruguay  ed ho anche avuto il piacere e l’onore di conoscere il console Argentino e il console Brasiliano che, a fine concerto, sono venuti a salutarmi ….

Stai lavorando a nuovi brani?

Sì, sto lavorando al secondo album che sarà anche un tuffo nel passato con uno sguardo al futuro …. Ci saranno anche collaborazioni internazionali, sono stato contattato da artisti in U.S.A., i quali  vorrebbero che collaborassi con loro, non solo in qualità di sassofonista, ma anche come composer piano… In realtà io compongo spesso e ripongo tutto nel cassetto, spero davvero di continuare a produrre tanta buona musica.

Che progetti ci sono in programma per la prossima primavera?

Comunico, in anteprima, che presto sarà visibile il mio nuovo sito, con management, ufficio stampa ed uno staff di professionisti  con cui lavorerò a stretto contatto ed in totale sinergia. Colgo l’occasione per ringraziare  chi ha creduto in me, a chi mi supporta in tutto il mondo, a chi ha capito la mia vera essenza, a  chi ha grande sensibilità ed amore per la musica. In particolare grazie a Radio network e a “ Lee Thomas Mojito jazz radio” che mi ha dato visibilità in tutto il mondo e a alla mia compagna che mi ha sempre sostenuto e supportato in questi anni.

Se potessi descrivere il tuo mondo di note, quali aggettivi useresti per lasciarci carpire la vera essenza del jazz?

Coinvolgente, Entusiasmante, Colorato, Vibrante, Riflessivo, pieno di anima! Quando ci si racconta in musica, attraverso il cuore si arriva a tutti, anche a chi di jazz non ne capisce molto…

Raffaella Sbrescia

Gennaro Porcelli: “Il blues è la mia missione”

Gennaro Porcelli © Cristina Molteni

Gennaro Porcelli © Cristina Molteni

Gennaro Porcelli è uno dei più noti esponenti italiani del blues Made in Italy nel mondo. Nonostante la sua giovane età, il talento e la passione per la chitarra, lo hanno avvicinato ai più grandi musicisti che, in più occasioni, lo hanno accolto sotto la propria ala. Da ormai 8 anni è il chitarrista di Edoardo Bennato e, contemporaneamente, ha fondato “The Highway 61”, un trio blues che vede la partecipazione di Diego Imparato al basso e Carmine (Bulldog) Landolfi alla batteria. In questa approfondita chiacchierata, Gennaro ci ha raccontato la genesi del suo ultimo disco “Alien in transit” senza tralasciare aneddoti e confidenze.

Gennaro, come si è evoluta nel tempo la tua anima blues?

La continua ricerca, gli approfondimenti strumentali e svariate esperienze di vita vissuta hanno forgiato, non solo il mio spirito, ma anche il mio modo di suonare. Con la recente disavventura nel carcere statunitense, che mi ha visto prigioniero per due giorni, ho provato, nel mio piccolo, delle sensazioni di cui sentivo parlare nei testi dei miei miti musicali. Per quanto riguarda la parte strumentale ho imparato nuove tecniche chitarristiche, conosciuto nuovi artisti e scoperto nuove correnti musicali. Tutto questo mi ha portato a ragionare e a scrivere in modo diverso, più intimo, più diretto. La mia evoluzione personale mi ha anche permesso di essere apprezzato un po’ in tutto il mondo e, tra l’altro,  ho notato che il mio disco “Alien in Transit” sta avendo molto successo su Itunes, soprattutto in Europa. Questa cosa mi gratifica molto perché comunque fare il musicista non è mai semplice e, per me che vivo solo di musica, si tratta di una bella soddisfazione.

The Highway 61 Blues Trio nel backstage del Bloom

The Highway 61 Blues Trio nel backstage del Bloom

Come riesci a conciliare la tua vita on stage con Edoardo Bennato ed il progetto parallelo “The Highway 61”?

Fortunatamente lo gestisco molto bene. Edoardo è soprattutto un mio amico ed un grande appassionato di blues. Rispetto ad altri artisti, che vogliono una sorta di esclusiva, lui è felicissimo, viene a quasi tutti i miei concerti, quando può mi viene a trovare, si siede tra il pubblico dei club e nel frattempo giriamo l’Europa insieme, ormai da più di 8 anni. Prima che diventasse un amico, Edoardo era uno dei miei artisti preferiti da bambino, perché è stato uno dei primi a portare il blues in Italia quindi, quando ho avuto il piacere di iniziare a collaborare con lui  è stato il coronamento di un piccolo sogno, che continua con nuovi progetti insieme. Nel periodo invernale mi dedico ovviamente anche al mio gruppo “The Hightway 61”, che comunque non abbandonerò mai.

alien in transit“Alien in transit” è il tuo progetto discografico più recente. Ci racconti il disco, track by track, e le tante collaborazioni che ci sono al suo interno?

“Alien in transit” è il modo in cui viene chiamato il prigioniero di passaggio in carcere. Fu la prima cosa che mi salto all’occhio sul mio foglio di arresto negli Usa. Da lì è nato il primo brano del disco “Immigration man”, che ho scritto insieme a Mark Epstein, già bassista di Johnny Winter. Con lui avevo un rapporto già consolidato perché avevamo fatto un paio di tour negli Usa e uno in Italia. Fu proprio lui, all’aeroporto di Philadelphia, a cantarmi il tormentone “I’m the immigration man,  you are not wanted” e, da lì, è nato il brano suonato live in studio. Durante il periodo in cui facevamo un tour, qui in Italia, abbiamo approfittato dei days off per registrare questo brano e anche “I’m here”, un testo che abbiamo scritto insieme con una musica molto dolce, decisamente diversa dal mio groove generale. Si tratta di una ballata in versione acustica, anche questa registrata live in studio, una tipica  storia d’amore blues: un amore mai iniziato, di cui rimangono soltanto bei ricordi. “You don’t know me but I’m here”: lui si innamora di lei, capisce tutto di lei, ma la lei in questione non lo ha mai visto. Poi c’è “It takes a lot to lough it takes a train to cry”, un vecchio brano di Bob Dylan che ho rielaborato completamente insieme a Rody Rotta che, con la sua carriera quarantennale, è stato il mio maestro da piccolo e oggi è un mio grandissimo amico e collaboratore. Il disco contiene anche un brano anomalo, che non doveva essere in questo cd, intitolato “La giostra”, commissionatomi da una grossa radio italiana. Sicuramente è un brano che farà storcere il naso a un po’ di persone, visto che si tratta di una canzonetta ben suonata, ma l’ho messo all’interno del cd come provocazione, è stata una scelta voluta. Proseguendo questo viaggio nella valle del blues, vorrei parlarvi di  un brano, eseguito dal vivo al Capo d’Orlando Blues Festival, s’intitola “Dallas” ed è stato scritto da Johnny Winter, uno dei miei miti, con cui ho avuto il piacere interagire anni fa a Padova. Ho quindi ripreso questo brano suonandolo in duo con Andy J. Forest, uno dei più grandi armonicisti al mondo, anche lui caro amico mio. “Slim’s walk”, è, invece, un brano strumentale, scritto qualche anno fa, che ho registrato con l’aiuto di Ricky Portera, chitarrista storico di Lucio Dalla e degli Stadio. In pratica mi sono circondato di amici! Tra gli altri cito Ronnie Jones che ha iniziato a suonare con i padri fondatori del British Blues, con cui mi incontro e mi sento molto spesso. Poi c’è il nostro Enzo Gragnaniello, una persona eccezionale che ha scelto di riarrangiare “L’Erba cattiva”. In questo caso ho stravolto il brano nello stile blues di J. J. Cale, padre del toulsa sound ed il risultato, secondo me, è uno dei meglio riusciti, anche perché il napoletano, come l’inglese, è fatto di parole tronche.

Che relazione c’è, secondo te, tra Napoli ed il blues?

Beh, Napoli ha perso molto! Il blues è stato avvicinato da tante persone sbagliate negli ultimi anni… Rispetto a quando io ho iniziato, molti musicisti, anche bravissimi, si sono un po’ arresi alle leggi del mercato. A differenza di quando ero ragazzino, adesso, tranne qualcuno, pochi sanno cosa stanno suonando, per il resto vedo molte brutte copie. C’è chi dà più spazio alla parte scenica, ai luoghi comuni del blues rispetto all’essenza della musica e queste persone fanno solo un danno a questo genere musicale

Che progetti hai in programma e qual è l’evento più recente che ti lasciato qualcosa dentro?

Il 22 gennaio ho fatto un concerto molto importante, ho suonato allo storico Bloom di Mezzago ed ero in cartellone con John Hammond, Johnny Winter e tanti altri musicisti storici. Per me è stato un concerto davvero da ricordare. Quello del Bloom è un palco prestigiosissimo, ci hanno suonato i Nirvana, i Greenday e tutti i grandi del blues passano da lì. Il fatto che mi abbiano inserito mi ha onorato moltissimo! Per quando riguarda i progetti con “The Highway 61”, tra qualche mese vorremmo pubblicare un singolo, soltanto in formato digitale, con un altro ospite prestigioso… però non posso ancora dire di cosa si tratta! Posso solo anticiparvi che si tratta di un inedito bello tosto, non so ancora se farlo uscire in italiano o in inglese…. Sto lavorando anche in studio per alcuni amici e per tutto il resto vi basta seguire la mia pagina ufficiale su facebook https://www.facebook.com/gennaroporcelliofficial?fref=ts

Raffaella Sbrescia

Video: “L’erba cattiva” feat. Enzo Gragnaniello

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=og-EB4UYGyU&w=560&h=315]

Andrea Tarquini canta Stefano Rosso e lavora ad un nuovo disco

Andrea Tarquini

Andrea Tarquini

Andrea Tarquini è un cantante e chitarrista acustico. Intorno ai vent’anni esordisce sui palchi di tutta Italia, grazie alla collaborazione con il suo maestro e amico Stefano Rosso, che lo avvia allo studio della chitarra Fingerpicking. Poco più tardi, ormai trentenne, Andrea Tarquini comincia a focalizzare l’ attenzione verso i generi musicali più acustici: dal cantautorato alla musica tradizionale USA. Sono anni nei quali l’artista frequenta la scena musicale acustica e bluegrass romana ed è proprio grazie al gruppo di “bluegrassari” romani che inizia la collaborazione con Luigi “Grechi” De Gregori, fratello maggiore di Francesco. Grazie all’amicizia e a lunghi scambi di idee con Luigi e con Paolo Giovenchi prende forma il progetto di realizzazione del disco – tributo a Stefano Rosso con brani cantati e suonati da Andrea Tarquini che, intanto, sta scrivendo un pugno di canzoni proprie, tutte rigorosamente “unplugged”, che saranno all’interno di nuovo lavoro discografico.

Andrea, quanta America c’è nella sua musica e quanta Trastevere?

Nella mia musica c’è sicuramente tanta America, la mia ricerca artistica si concentra, infatti, sulle sonorità tipicamente nord-americane.

 Qual è la differenza tra fingerpicking e flatpicking?

Il flatpicking consiste nel suonare la chitarra acustica col plettro nella mano destra, si tratta di una tecnica legata alla musica tradizionale ma non solo. Il fingerpicking consiste, invece, nel suonare  la chitarra acustica suonata senza plettro nella mano destra e prevede l’indipendenza del pollice, che suona i bassi alternati mentre le altre dita fanno la melodia.

AT_REDS Canzoni di Stefano Rosso_cover“Reds! Canzoni di Stefano Rosso” è il tuo lavoro discografico più recente. Da dove nasce l’idea di questo album e che ricordo umano e professionale hai di Stefano?

Il disco nasce principalmente grazie allo stimolo di Luigi (Grechi) De Gregori, che mi ha sempre detto le seguenti parole: «Sei un ottimo chitarrista, canti bene e suonavi con Stefano Rosso. Chi meglio di te può fare un disco con i suoi brani? Sbrigati a realizzare questo progetto prima che qualcun’altro metta in pratica l’idea, magari in malo modo». Questo è stato, quindi, uno dei primi motori, a cui si è aggiunto Enrico Campanelli che, con la sua società, ha finanziato e sostenuto la produzione del disco, e Paolo Giovenchi, che ha curato la produzione con un supporto artistico e creativo. Di Stefano Rosso potrei dire tante cose: quando suonavo con lui ero molto più giovane, avevo una ventina d’anni e, in qualche modo, è stata una fase formativa e molto significativa della mia vita. Lui era un uomo semplice, un uomo naturale, non c’era nulla di costruito. Stefano era esattamente quello che si vedeva dall’esterno, comprese le fragilità e i limiti che lo hanno allontanato dal grande pubblico negli ultimi anni della sua carriera. Questa sorta di isolamento lo ha portato, infine, a far diventare sempre più forte la sua peculiarità di folk singer.

Come si svolge la tua vita di “romano a Milano”, innamorato del sound americano?

La musica non è l’unica cosa che ho fatto in questi anni anche se il mio percorso è molto legato allo strumento e alle musiche strumentali, in particolare. Non  penso che esista musica vecchia e nuova, esiste, bensì, musica buona e musica cattiva. La cosa importante sono i contenuti e, per quanto mi riguarda, quello che mi contraddistingue è il fatto di credere fortemente in una musica di tipo cantautorale, acustica, intima.

Andrea Tarquini

Andrea Tarquini

“Ho capito come” è un brano strumentale scritto da lei e dedicato a Stefano Rosso. Il titolo è una risposta al ricorrente intercalare dell’artista o  è anche una dichiarazione di intenti?

Chissà, forse avrei dovuto mettere un punto interrogativo alla fine del titolo perché, in verità, non si capisce mai qualcosa del tutto. “Ho capito come” potrebbe far pensare che uno abbia raggiunto qualche traguardo mentre, invece, ogni cosa che fai sposta in avanti il traguardo. L’importante è essere su un cammino che ti rappresenti, che senti sia tuo.

 “C’è un vecchio bar” è un inedito, una canzone mai registrata in studio da Stefano Rosso. Come ha potuto riproporla esattamente come l’artista la suonava?

Possedevo una cassetta con una registrazione amatoriale che Stefano Rosso non ha mai inciso. Purtroppo la cassetta è andata distrutta ma, attraverso la mia memoria, è stato possibile effettuare un vero e proprio recupero storico del brano.

Prossimamente presenterà, a Milano, la nuova OMS Custom dello storico marchio “Burgeosis”, ci anticipa qualcosa?

“Orchestra Model Slotted” è il modello dello strumento, realizzato apposta per me, e che non ho mai suonato prima. Si tratterà di un concerto di presentazione e, se da una parte festeggeremo la mia collaborazione, in qualità di endorser con lo storico marchio, dall’altra presenteremo lo strumento al pubblico.

Che progetti ci sono per il futuro?

Sto scrivendo un nuovo disco e mi sto concentrando su questo. Per il resto vorrei fare un buon numero di concerti: in Italia la musica acustica fatica il doppio degli altri generi a trovare spazio. Si tratta di un genere apparentemente di nicchia ma molto più popolare di quanto si creda. Mi piacerebbe, dunque, fare un buon disco e suonarlo bene in giro, senza problemi di fruizione.Vorrei, inoltre, che il nostro paese fosse un pò più attrezzato e rispettoso nei confronti della musica.

Raffaella Sbrescia

Intervista ad Eugenio Bennato: “Il meridione è la risposta all’appiattimento globalizzante”

Eugenio Bennato

Eugenio Bennato

Cantautore, musicista, e fondatore della “Nuova Compagnia di Canto Popolare”, Eugenio Bennato è considerato uno degli esponenti più importanti della musica popolare e, grazie al grande consenso conquistato sia in Italia che all’estero, la sua missione di dialogo interculturale continua a trovare nuovi sbocchi artistici e musicali.

La sua ricerca artistica e musicale si concentra, da ormai svariato tempo, sull’identità dello spirito meridionale. Come si è evoluto nel tempo questo processo creativo e quali sono i caposaldi imprescindibili della sua musica?

Da sempre seguo dei percorsi che mi portano a cercare le cose che mi piacciono. Sin da ragazzo, ritrovo nel Sud del mondo un messaggio musicale davvero affascinante e, anche quando fondai la Nuova Compagnia di Canto Popolare, per creare un’alternativa alla musica di quel tempo, andai nelle campagne del Sud per riscoprire una musica che si stava per dimenticare e per perdere. Dopo tanti anni, guardando tutto questo in prospettiva, mi viene da dire che avevo ragione perché oggi in Italia la musica etnica rappresenta un punto di forza straordinariamente rivoluzionario. A questo devo aggiungere che, sia per mio interesse personale, sia per questioni legate alle opportunità che la mia attività di cantautore mi ha dato, ho scoperto di avere delle grandi affinità anche coi popoli della sponda sud del Mediterraneo a cominciare dal Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto.  In questo modo mi sono reso conto che le forme musicali, il modo di far musica, in particolare, con dei ritmi molto travolgenti, è qualcosa che appartiene, in realtà, a tutta l’area mediterranea.

Quali sono gli ideali, i valori e gli obiettivi del movimento “Taranta Power”?

Naturalmente il mio intento di partenza è sempre di natura artistica ma devo dire che oggi centinaia di migliaia di ragazzi partecipano a questo movimento, intendendolo come una vera e propria scelta. La musica etnica corrisponde ad un mezzo per opporsi alla globalizzazione musicale imposta dal business televisivo.

Sta lavorando a nuove canzoni? In che direzione intende muoversi?

Vivo sempre con l’incertezza di riuscire a fare cose di un certo livello. Il mio pubblico è molto esigente perché forse l’ho abituato a progetti che hanno sempre ricevuto un grande riscontro… Potrei citare, in particolare, “Che il Mediterraneo sia”, il brano che continua ad essere la colonna sonora di “Linea Blu”. Per questo ed altri motivi, tutte le cose che scrivo non possono essere buttate lì senza che ne sia convinto a fondo. Chiaramente adesso sto preparando delle cose nuove, a partire dal brano “Notte del Sud ribelle”, che ho scritto in occasione della Notte della Taranta, e che prende ispirazione dagli straordinari eventi in cui si radunano 150 mila persone per ballare sulle note di un tipo di musica che, solo fino a qualche anno fa, nessuno conosceva.

bennato 2

Eugenio Bennato

Beh, certamente si tratta un grande onore e di una grande soddisfazione dal risvolto, anche sociale, molto importante. Se si pensa alla dimensione che vivono gli extracomunitari in Italia, la mia musica mira ad aiutare tutti coloro che intendono integrarsi. Potrei definirlo una sorta di abbraccio artistico.

Cosa racconta nel libro “Ninco Nanco deve morire”?

Il libro muove i passi da un percorso parallelo: la scoperta dei tesori sommersi della musica popolare mi ha portato anche ad approfondire la conoscenza di personaggi dimenticati dalla storia. In particolare le vicende che hanno visto il Sud vittima di una vera e propria invasione, che ha portato sia ad un evento positivo, quale è stata l’Unità di Italia, sia ad processo di amalgamazione condotto in maniera irrispettosa nei confronti della nostra identità. Così come è stato appurato da numerosi studi, è fuori dubbio che nel 1860 l’esercito sia sceso al sud d’Italia ( a Napoli, in Calabria, in Sicilia) anche con l’intento di sradicare la cultura del posto. Di conseguenza il sud è andato incontro ad una decadenza che, a sua volta, ha causato altri fenomeni come l’emigrazione, il clientelismo ed il brigantaggio. Proprio la scoperta delle figure dei briganti, ed in particolare di Ninco Nanco, assume, dunque, un significato più profondo: significa acquisire la consapevolezza e i mezzi per la sopravvivenza della nostra cultura.  Per queste ragioni i ragazzi di oggi, che ballano la pizzica o la tammurriata, vedono questi personaggi come eroi perché essi si sono battuti per la propria terra.

Come ha vissuto il suo ultimo tour in Sud America e cosa le ha lasciato quest’esperienza di scambio culturale così intensa?

Anche in questo caso c’è stato un grande riscontro da parte del pubblico con i teatri pieni a Buenos Aires, Santiago de Chile, San Paolo. Tra poco partiremo nuovamente proprio per il Sud America e ad aprile saremo in Uruguay e in Argentina. Naturalmente questa esperienza mi ha consentito di prendere atto del fatto che anche quel sud, apparentemente così lontano, è molto vicino al nostro.

Quali sono le sue aspettative artistiche e come pensa che i giovani di oggi possano raccogliere l’eredità lasciata dal suo repertorio musicale?

Sono molto fiero del fatto che ci siano molti ragazzi che riprendono i miei brani, su tutti “Brigante se more”. Sono molto attento a questo fenomeno perché io credo che esso possa sopravvivere solo grazie alle scintille dell’arte. Ai ragazzi che suonano e che fanno musica etnica auguro che possano avere intuizioni nuove che riescano a rispecchiare la realtà del presente. Quando io tengo un concerto, ad esempio, mi rifaccio alla musica del sud e alla storia del passato ma, allo stesso tempo, riesco a cogliere molti elementi legati al presente: primo tra tutti, il tema della coesistenza e dell’accoglienza degli extracomunitari in Italia, un problema sociale molto importante. Tanti giovani di altri sud del mondo necessitano di amore e di integrazione, le cose non si risolvono chiudendo le frontiere.

Se potesse descrivere il meridione del 2014 con una manciata di aggettivi quali userebbe?

Il meridione oggi rappresenta una valida contrapposizione all’appiattimento globalizzante ed è un luogo dove può succedere qualcosa di nuovo e di positivo. Questo pensiero nasce da quello che io vedo ogni qual volta in cui tengo un concerto e lo dico perchè parlo di gente viva.

Raffaella Sbrescia

Video: “Ritmo di Contrabbando”

 

Cirque des Rêves: ” La musica ci porta per mano nei sogni della gente”

Lisa Starnini

Lisa Starnini

Lisa Starnini ( voce), Gianni Ilardo (chitarra), Gianni Bruno (piano), Edo Notarloberti (violino), Corrado Calignano (basso), Alessio Sica (batteria) sono i Cirque des Rêves, un gruppo nato nel 2013 grazie all’inedito incontro di diverse culture musicali: da un lato la tradizione folk nordeuropea celtica, dall’altro il verace folk/blues partenopeo. L’uso della lingua francese, inglese e italiana e di ricercate melodie hanno subito posto il gruppo al centro dell’attenzione. In quest’intervista è la carismatica leader Lisa Starnini a raccontarci i segreti del “Circo dei sogni”.

Come nasce e quali sono le attrazioni che “Il Circo dei sogni” offre al pubblico?

I Cirque des Rêves  sono sei musicisti molto diversi, provenienti da generi musicali molto lontani tra loro. Questo gruppo è nato praticamente durante un caffè in uno studio di registrazione dove suonavamo un po’ tutti con progetti diversi. Un bel giorno, da buoni amici, abbiamo deciso di tentare di innalzare questo tendone dentro cui volevamo racchiudere,  non solo i nostri sogni, ma anche quelli di tutti coloro che vorranno farne parte. Ovviamente date le premesse, non si trattava di un’idea di facile realizzazione ma i fatti ci hanno dimostrato che la diversità è probabilmente il nostro punto di forza.

Cover_Cirque des Rêves (2)Il vostro ep, omonimo, è nato in tempi molto brevi. Qual è stata la genesi di questo lavoro e quali sono i temi affrontati nei brani?

In effetti l’ep è nato due mesi dopo che avevamo fatto la prima prova insieme! Si è trattato di un processo davvero molto spontaneo, nessuno di noi si aspettava una tale velocità perché , tra l’altro, l’opinione comune era che ci saremmo sicuramente azzuffati, vista la grande eterogeneità dei nostri background musicali, invece nell’ep ci sono pezzi che hanno dentro di sé un pezzo di ciascuno di noi

La vostra musica si discosta da etichette di qualsiasi genere. Se potesse descriverne i tratti generali, quali parole userebbe?

Mi viene in mente il folk contemporaneo, il  pop, il rock e chissà cos’altro! Il fatto è che non ci poniamo limiti…questa è la nostra particolarità: ogni pezzo nasce con un suo carattere, un suo genere e questo ci permette di dargli vita nel modo  più naturale. Diciamo che è la musica a condurci per mano e non il contrario…

Ci sono delle immagini o delle suggestioni che hanno influenzato la vostra musica in qualche modo?

Sì, alcuni pezzi sono nati durante i viaggi che abbiamo fatto. La melodia del valzer francese, ad esempio, è nata proprio in Francia e, anche nel prossimo disco, ci sarà un pezzo nato in un paesino medievale francese. Posso quindi dire che è il viaggio a condizionare di più la nostra scrittura melodica.

Siete già al lavoro su nuovi brani? In che direzione vi state muovendo?

Beh, inizierei col dire che ci sarà l’aggiunta di un’altra chitarra con Gianluca Capurro e che si tratterà di un album tutto in italiano e in francese per cui abbandoneremo la lingua inglese.

A cosa è dovuta la scelta di cantare anche in francese?

La scelta è stata molto naturale perché si tratta di una lingua che appartiene alla mia famiglia: mia nonna era belga, mia madre ha vissuto 11 anni in Francia e parte della mia famiglia vive nella parte francese della Svizzera. A questo aggiungerei che ho scelto il francese anche come porta fortuna, visto che mia nonna è stata colei che mi ha insegnato a credere nei sogni.

Nel videoclip del brano “Cahier des Rêves” viene usata la tecnica del teatro delle ombre. Anche la vostra musica possiede delle sfumature teatrali?

La regista del video è  Sara Tirelli, è veneziana ed ha avuto questa idea non appena ha sentito il pezzo. Io sono molto legata al teatro delle ombre perché lo andavo a a vedere da piccola quindi questa intuizione mi è piaciuta tantissimo e, tra l’altro, credo che calzi proprio a pennello con il pezzo; gli dà probabilmente un’aura che era nascosta nelle note e che noi non avevamo visto. In ogni caso non riesco ad immaginare un video diverso da quello che è stato fatto.

Dove e quando potremo ascoltarvi dal vivo?

Saremo al Duel Village di Caserta il 21 marzo,  al teatro San Giustino di Roma l’11 aprile e stiamo chiudendo una data con il Blue Note di Milano. Spero, inoltre, che andremo anche un po’ all’estero perché mi piacerebbe dare spazio al riscontro estero che abbiamo avuto in questi mesi: Messico, Turchia, Grecia e Francia sono i paesi in pole position!

 Raffaella Sbrescia

Video: “Cahier des Rêves”

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=wcU5e5C8khE]

Previous Posts Next Posts