Giulia Mazzoni è una pianista 24enne di origine toscana. “Giocando con i Bottoni” è il suo album d’esordio, un lavoro comprensivo di brani originali, interamente composti ed eseguiti da Giulia, che fotografano la sua persona a tutto tondo, muovendosi tra modernità e tradizione. Abbiamo raggiunto l’artista al telefono, in occasione dell’uscita del nuovo singolo intitolato “Where and When”, una composizione dedicata al Maestro Nyman, il cui video vede la presenza delle opere del noto artista italiano Franco Losvizzero e abbiamo scoperto una persona ricca di interessi e aperta all’innovazione.
“Giocando con i bottoni” raccoglie immagini, sensazioni, ricordi della tua infanzia ma anche del tuo presente. Visto che non ami definire la tua musica, ci parli delle idee che hanno dato vita a questo lavoro e della connessione tra i titoli e le rispettive composizioni sonore?
“Giocando con i bottoni” è un album autobiografico che racconta, attraverso le note, la mia vita di ieri ma anche quella di oggi. Ogni traccia è una fotografia, un ritratto di un momento, di un episodio importante. Il titolo del disco fa riferimento ad un episodio della mia infanzia quando, da bambina, amavo giocare con dei bottoni colorati, che per me erano magici, mi emozionavano tantissimo. Ho riprovato la stessa emozione quando ho toccato per la prima volta i tasti del pianoforte e tutt’oggi accade ancora. Tra gli altri temi racchiusi nel disco ci sono l’amore e l’amicizia come, ad esempio, avviene nell’ultimo singolo estratto dall’album “Where and when” in cui cerco di raccontare un’amicizia importante sia dal punto di vista artistico che umano con Michael Nyman, grande compositore, che ho la fortuna di conoscere e di frequentare per quanto possibile. Poi c’è “Lia”, un brano dedicato ad una persona a cui ero molto affezionata e che purtroppo è venuta recentemente a mancare. La mia è una musica descrittiva che utilizza diversi linguaggi, a cavallo tra la tradizione e la modernità, e che cerca di dipingere con le note delle sensazioni o dei momenti di vita vissuta. Chiaramente trattandosi di una musica strumentale, ognuno è libero di fare il proprio viaggio, di vivere e scrivere la propria storia liberamente.
In una recente intervista hai dichiarato che ti senti vicina al minimalismo di Nyman e Philip Glass, potresti approfondire questo discorso?
Questi due compositori mi hanno ispirata moltissimo ma in realtà mi sento molto legata anche alla musica da film. Il minimalismo ha influenzato molto anche la musica da film, pensiamo allo stesso Philip Glass con “The Truman Show”, Thomas Newman con “American Beauty”. Loro sono stati i fondatori del minimalismo soprattutto Nyman con “Lezioni di piano”. Grazie a loro è nata la nuova corrente di pianisti contemporanei che si sono poi ispirati a questo genere, ognuno inserendo all’interno un proprio contributo.
Ci racconti lo sviluppo dell’idea audiovisiva del tuo ultimo singolo “Where and when”?
Tutto è nato da una chiacchierata tra me e il regista Fabrizio Cestari, vincitore di un premio durante l’ultima edizione del Medimex per il video del brano “La nuova stella di Broadway” di Cesare Cremonini. Parlando con lui è nata questa idea, io sono appassionata di arte contemporanea ed è stato molto bello il fatto che lui abbia coniugato questa mia passione con la musica inserendo nel video le opere di Franco Losvizzero. Sono una sognatrice, mi piacciono molto questi mondi onirici, un po’ alla Tim Barton, e le opere di Franco rappresentano sicuramente un mio modo di essere. Nel video la bambina rappresenta l’arte, la musica, ma è anche il mio angelo custode e, allo stesso tempo, me stessa che, nel bene e nel male, continuo a guardare il mondo con lo stesso sguardo. Indipendentemente dalla musica, quello che amo di più di questo video è la fotografia.
Alla luce del fatto che per te comporre è un’esigenza, hai già scritto nuovi brani?
Certo! Per me comporre è come scattare una fotografia, ogni volta che vedo, sento, leggo qualcosa che mi colpisce sento l’esigenza di trasferirla e tradurla attraverso le note. Sto scrivendo il nuovo disco, che uscirà il prossimo autunno, ci sto lavorando molto attentamente e spero che sia in grado di mostrare ancora altri lati della mia anima e della mia musica.
Quali sono i tuoi ascolti in questo periodo?
In realtà ascolto sempre tante cose, cambio spesso i miei ascolti spaziando dalla musica classica alla musica elettronica. Ad esempio in questi giorni ho ascoltato Chick Corea, Skrillex e Bach.
Come ti senti in merito alla tua partecipazione al Ravello Festival il prossimo 11 luglio?
Beh sarà una cosa davvero grossa! Io non sono mai stata a Ravello, credo sia un posto meraviglioso e sono davvero onorata di poter partecipare a questo Festival così prestigioso ed importante con nomi davvero importanti. Tra gli altri, anche lo stesso Chick Corea sarà in cartellone e sono tanto felice di poter portare lì la mia musica.
Quali sono i tuoi prossimi impegni?
Stiamo definendo dei concerti, sempre all’interno di alcuni festival e, chiaramente, tutte le date potranno essere visualizzate sui miei canali social… Nel frattempo stiamo organizzando un tour che partirà dopo l’estate e di cui riparleremo molto presto!
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Giulia Mazzoni e Tatiana Lo Faro per Parole e Dintorni per la disponibilità
Loredana Bertè è tornata a ruggire! Dopo quarant’anni di carriera vissuti tra grandi successi e altrettante sofferenze, l’artista punta tutto su se stessa scegliendo il palco come sua vera casa. Autenticamente fedele al suo indomabile spirito, Loredana sta infiammando il suo nutrito pubblico con il “Bandabertè 1974 – 2014 Tour”: l’occasione perfetta per lasciarsi trasportare dal graffio inimitabile della sua voce e apprezzare tanti pezzi storici del suo ampio repertorio. In questa breve intervista le abbiamo chiesto come sta vivendo questa speciale fase del suo percorso artistico.
Il prossimo 17 aprile sarà sul palco del Teatro Acacia, in occasione della data partenopea del suo tour… com’è il suo rapporto con questa città? C’è qualche ricordo o qualche aneddoto che le andrebbe di raccontare?
Ho mille ricordi di questa città, mi piace molto Napoli. Per fortuna il lavoro mi ci porta spesso. Recentemente sono venuta per delle produzioni Rai ed è sempre bello svegliarsi la mattina con il Golfo di Napoli davanti agli occhi. Ti entra dentro al cuore.
In una recente intervista al Corriere della Sera ha dichiarato di “riuscire a graffiare più di prima”… cosa significa per lei cantare?
Cantare è tutto, mi fa sentire viva. Una valvola di sfogo. Il palco è la mia casa, lì rido e piango e sono davvero me stessa. Per farmi smettere, infatti, devono buttarmi giù.
Loredana Bertè anni ’80
La sua vita è stata piena di incontri, amicizie e sofferenze… chi è Loredana oggi e quali sono le sue prospettive artistiche?
Io sono io, autentica e fedele a me stessa. Sono quello che ho visto, quello che ho fatto. Ho avuto una carriera più fortunata della vita privata e allora ho imparato a vivere giorno dopo giorno, non penso più al futuro.
Loredana Bertè anni 2000
Pioniera di avanguardie musicali, lei è stata tra i primi ad integrare l’utilizzo del loop nei suoi brani… quali erano e quali sono, oggi, i presupposti su cui si incentra la sua ricerca musicale?
Ascolto e amo i Beatles, Aretha Franklin, David Bowie, Nina Simone e non ascolto solo rock. Quello che mi piace lo faccio mio, lo elaboro e lo riverso nella mia musica. Adesso stiamo lavorando ad un progetto, ma non posso anticipare niente. Top secret.
Loredana Bertè oggi
Sul palco canterà tante canzoni del suo vasto e illustre repertorio, cosa ha provato nello scegliere ed organizzare la scaletta?
Ho pensato a questi miei “primi” quarant’anni e ho scelto brani che raccontano la mia storia. E’ un concerto costellato di perle rare, di canzoni che non canto da tempo e che voglio regalare al pubblico che mi segue da sempre. Non ci sono brani che amo più di altri, le canzoni sono come tutte come figli.
Come sta andando questo tour e cosa le sta lasciando a livello personale?
Rivedo luoghi e incontro amici che non vedevo da tempo. Mi sento da sempre cittadina del mondo e il tour è il massimo per chi ama cantare e viaggiare. Mi fa stare bene, sono serena.
Cristina D’Avena rappresenta una vera e propria icona nell’immaginario comune. Interprete di tantissime sigle dei cartoni animati che hanno segnato la crescita e l’infanzia di ciascuno di noi, Cristina è, ancora oggi, uno dei personaggi pubblici più amati dal pubblico italiano e non solo. Nel corso di 30 anni di carriera, l’artista bolognese è riuscita a mantenere intatta la sua proverbiale solarità che contraddistingue anche la sua peculiare vocalità. Impegnatissima tra le date del nuovo tour, programmi radio e tv, Cristina D’Avena si è lanciata anche nel mondo della moda con un progetto tutto suo. Per saperne di più l’abbiamo raggiunta al telefono per una breve intervista.
Da oltre 30 anni sei la regina incontrastata delle sigle tv… la tua voce è l’antidoto alla tristezza?
Penso proprio di sì! Il cartone animato, o la sigla dello stesso, rappresentano qualcosa che, mentre canticchiamo, ci fa bene, ci fa sorridere e gioire… secondo me è una bella pillola del buon umore!
È da poco ricominciato il tuo tour in giro con i Gem Boy come è nata questa collaborazione così particolare?
Si tratta di un incontro artistico arrivato in maniera molto casuale, loro mi conoscevano molto bene perché avevano iniziato proprio con le mie canzoni, cambiandone il testo, spesso in maniera un po’ dissacrante. Io, d’altro canto, li conoscevo perché loro avevano scritto la canzone “Ammazza Cristina” e poi perché sono anche originari di Bologna come me. I Gem Boy avevano questo sogno di farmi collaborare con loro ma all’inizio dissi di no perché non mi sembrava il caso. Poi, però, si è creato improvvisamente un buon feeling: mia sorella stava preparando gli ultimi concerti per il Roxy Bar di Red Ronnie e mi propose di cantare con loro, fu lei a convincermi a parlare con il cantante Carletto (Carlo Sagradini) e provare a costruire una scaletta insieme. In seguito ci siamo incontrati, abbiamo fatto un po’ di prove e ci sono piaciute. Quindi abbiamo fatto il concerto al Roxy Bar e si è rivelato davvero un gran successo! C’erano davvero tantissime persone, da lì è nato questo amore folle e abbiamo continuato la nostra collaborazione…
Sabato 12 aprile, invece, sarai la guest star assoluta all’Arenile Reload di Napoli… quali sorprese riserverai al tuo fedele pubblico?
Questa volta sarò da sola sul palcoscenico dell’Arenile, canterò ovviamente le canzoni e le sigle che tutti amano: partirò dalla canzone dei Puffi, Kiss Me Licia, Mila e Shiro ma ovviamente darò spazio a tantissime altre pietre miliari del mio repertorio…chiaramente farò un’accurata selezione della scaletta, ormai le mie canzoni sono arrivate quasi a 800!!!
Da poco hai pubblicato la seconda parte di “Cristina D’avena 30 e poi…” cosa racchiude questo progetto?
La prima parte di “Cristina D’avena 30 e poi…” è un progetto completamente musicale con 3 cd di sigle di cartoni animati, la seconda parte, invece, è un Dvd con 50 filmati ed un cd, comprensivo di canzoni inedite o mai pubblicate. C’è anche un libro fotografico con tutte le foto più importanti della mia carriera, scatti storici con i miei collaboratori, con i miei primissimi maestri, alcune foto con la mia famiglia, che amo alla follia… Si tratta di un libro fotografico che mi rappresenta a tutto tondo, un regalo che ho fatto innanzitutto a me stessa e che racchiude la mia vita, ovviamente lo dedico a tutti i fan che condividono con me un grande amore per la musica.
Recentemente hai debuttato anche nel mondo del fashion con la linea di scarpe “My Heart Shoes”… qual è il tuo ruolo all’interno di questa avventura e che rapporto hai con la moda?
Ho aperto uno store da pochissimo, adoro le scarpe, in particolare le sneakers. Un giorno ridendo e scherzando feci un disegno di una scarpa, poi ho incontrato i responsabili di un’azienda artigianale completamente italiana che hanno sposato la mia voglia di creatività innata e, insieme, abbiamo realizzato i primissimi modelli, 5 da uomo e 5 da donna, di questa nuova linea che s’intitola “My Heart Shoes” ovvero le scarpe del cuore, con il mio logo ed un altro piccolo simbolo che mi rappresenta e che in pratica è la sigla del mio nome in giapponese. I colori predominanti sono quelli che piacciono a me: l’oro, l’argento, il bronzo, il nero… I materiali utilizzati sono di prima qualità ed è tutto realizzato a mano 100% Made in Italy. Per noi che abbiamo così tanto bisogno di far ripartire la nostra economia, si tratta di un valido progetto e sono stata ben contenta e ben fiera di partecipare a questa iniziativa!
Che tipo di musica ti piace ascoltare?
Partiamo dal presupposto che mi piace tantissimo la musica in generale, a parte la musica rock, che non rientra nei miei ascolti più frequenti. Adoro la musica pop italiana di Tiziano Ferro, quella di Jovanotti, che amo alla follia, ma mi piace spaziare: passo da David Guetta e Bob Sinclair alla musica celtica fino ai canti gregoriani. Sono un po’ particolare nei miei ascolti e non trascuro gli emergenti, che hanno da proporre tante nuove idee, ed è giusto che anche loro possano offrirci la loro creatività!
Che ne pensi di un genere musicale come il rap?
Beh mi piace moltissimo! Sono molto contenta che pian piano si stia conquistando un bel posticino nel nostro panorama musicale. Mi piace molto Fabri Fibra ma anche i più giovani, ad esempio ho ascoltato Moreno e l’ho trovato molto bravo, questo tipo di musica esercita una buona energia dentro di noi, i testi raccontano spesso cose forti che fanno riflettere ed è giusto ascoltarli.
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Cristina e Clarissa D’Avena per la disponibilità
“Anche oggi piove forte…” è il titolo del disco d’esordio di Agnese Valle (in uscita il prossimo 11 aprile per l’etichetta Farfavole). Agnese è diplomata in clarinetto al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma e ha conseguito numerosi masterclass e stage di perfezionamento musicali, canori e teatrali in Italia e all`estero. Il suo album rappresenta la fotografia del periodo storico corrente, in cui il brutto tempo sembra non avere fine, senza, tuttavia, rinunciare a nuovi moti di entusiasmo e di intraprendenza. Agnese Valle è anche supporter della campagna “Operazione fame”, promossa dall’organizzazione internazionale ActionAid, per la promozione del diritto al cibo in Italia e nel mondo, attraverso il videoclip del singolo “Lasciare riposare” che sarà proiettato, in anteprima, all’Asino che Vola di Roma il prossimo 11 aprile, in occasione della presentazione del disco.
Anche oggi piove forte…oltre che il titolo dell’album questo è anche un messaggio chiaro e forte?
Sì è un messaggio chiaro e forte perché racchiude la sintesi di questo momento, essere giovani, artisti e lavoratori in questo momento storico tutt’altro che semplice, “Anche oggi piove forte”…tuttavia ci attrezziamo!
Il disco è stato scritto da te e da Stefano Scatozza… cosa e chi raccontate in questi 13 brani?
Questo album racchiude un po’ tutto quello che mi è ronzato nelle orecchie fino ad ora. Potrei dire di aver raccontato la prima fase della mia vita a quattro mani con un grande amico, collega e maestro quale è Stefano Scatozza: dagli anni di conservatorio, agli ascolti da bambina, alle esperienze in orchestra a quelle da ascoltatrice e osservatrice di altre generazioni. Da un punto di vista musicale, abbiamo scelto di dividere il disco in 3 parti: ci sono dei piccoli interludi strumentali e la parte centrale del disco è quella dedicata al racconto vero e proprio.
Tu sei una clarinettista professionista, come motivi la scelta dei 3 divertissement strumentali inseriti nell’album?
La scelta di questi brani è dovuta alla voglia di dare spazio alla mia seconda voce, che è appunto il clarinetto, e, allo stesso tempo, volevo realizzare una fotografia di momenti al di fuori dello studio di registrazione: un brano è stato registrato durante una colazione a Colle Val d’Elsa, un posto vicino a dove eravamo stati a registrare, un altro è stato registrato durante una fase creativa mia e di Stefano, infatti è l’unico dei tre ad essere proposto in duo, chitarra e clarinetto. Il mio intento finale è stato quello di unire la parte ufficiale della registrazione a un momento di convivialità, di divertimento, di quotidianità.
Attraverso il brillante singolo intitolato “Lasciare riposare” detti le istruzioni per affrontare l’altro e sempre in relazione a questo brano, sei anche testimonial dell’ “Operazione Fame”, organizzata da Action Aid Italia… Ci racconti la genesi di questo brano e come stai vivendo questa esperienza?
Partirei dal presupposto che secondo me l’artista non ha un ruolo fine a se stesso, la musica non deve solo preoccuparsi di se stessa deve, bensì, partecipare al contesto storico e alla vita del proprio paese, io poi amo sposare cause inerenti anche ad altri ambiti oltre il mio. La ricetta che propongo in questo brano in qualche modo sostiene la campagna di Action Aid che prevede tutto un programma di educazione finalizzato a non sprecare il cibo. Da questa collaborazione è nato video, realizzato da Le Bain Production, che raccoglie e chiarifica una serie di cose.
Agnese Valle Ph Massimo Bottarelli
In “Disposto a tutto” usi molte delle tipiche espressioni utilizzate nelle lettere motivazionali di chi cerca lavoro ma soprattutto dai voce ad una richiesta di aiuto…
Canto questa canzone calandomi nei panni di una portatrice neutra, non sono né maschio né femmina, sono un lavoratore con un curriculum privo di specializzazioni e qualifiche e, nonostante l’inizio drammatico del brano, il ritornello torna sull’individuo che si mostra pronto a reinventarsi. Più passano i giorni e più trovo che questa canzone sia veritiera, la chiave è svegliarsi col piede giusto la mattina
Qual è il “lato caldo del letto”?
Il brano è ispirato ad uno dei racconti degli “Amori difficili” di Calvino in cui l’autore racconta la vita di una coppia di altri tempi che si rincorre all’interno di una routine giornaliera. Ho preso spunto da questa storia per raccontare un amore moderno, un amore dei nostri tempi in cui ci si rincorre, magari si vive distanti… Il lato caldo del letto è, quindi, quello che mantiene il tepore, il calore, la forma e l’odore dell’altro.
Chi è la “donna di pelliccia?
La protagonista del brano è una signora che vedo fin da quando ero bambina nel palazzo dove vivo, che in realtà è un enorme comprensorio con tante palazzine una interna all’altra. Le facce sono familiari ma spesso non si va oltre un buongiorno e un buonasera… La donna di pelliccia è una donna che ricordo da sempre, ha un aspetto bizzarro, sia nell’aspetto che nei modi, è difficile che parli, che comunichi con qualcuno, vive a metà strada tra una depressione alcolica e un mondo parallelo. Lei è l’emblema di tutte quelle conoscenze che ti risultano familiari ma che in realtà non conosci e su cui a volte ti ritrovi a fantasticare
Come mai omaggi Enzo Iannacci in “Io e te”?
Stranamente, pur essendo romana, sono cresciuta ascoltando anche i cantautori milanesi che, alla fine, sono i più difficili… A mio parere Jannacci aveva un profilo artistico geniale e il brano “Io e te” mi è sembrato perfetto per creare un binomio con “Disposto a tutto”. La canzone è il ritratto di una realtà storica e sociale vista da una giovane coppia con tutte le problematiche annesse. Il brano è del ’79 e la cosa mi ha fatto molto riflettere, le tematiche affrontate sono assolutamente attuali e alla fine i due brani risultano complementari.
Come concili la tua attività performativa con quella di docente di propedeutica musicale, canto e clarinetto nelle scuole romane?
Insegnare è una cosa che mi piace moltissimo quindi cerco di farla bene lasciando sempre il tempo necessario al mio progetto, che è prioritario per stare bene. Ho uno schema orario preciso però sono fortunata a fare un lavoro che mi piace e che è complementare alla mia attività artistica.
L’11 aprile presenterai il disco all’Asino che vola a Roma… tra gli ospiti dell’evento citiamo Renzo Rubino e Raffaella Misiti, come ti stai preparando al grande evento e come sarà strutturata la serata?
Sto praticamente facendo il conto alla rovescia! Sono orgogliosa di avere grandi artisti al mio fianco, Raffaella Misiti, in particolare, è una cantante straordinaria, una mia grande amica nonché mia maestra. Ci saranno dei duetti insieme agli ospiti per un battesimo festoso del mio progetto, l’organico sonoro sarà un quartetto, che è il mio gruppo, Stefano Scatozza sarà un ospite non ospite, in quanto parte della famiglia. Ci sarà anche Luca De Carlo e presenteremo il video di “Lasciare riposare”, prodotto da Le Bain…saremo tutti insieme e non vedo l’ora che arrivi il momento di salire sul palco!
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Agnese Valle e Artevox Musica per la disponibilità
I Karbonio14 sono quattro artisti emiliani: Valerio Carboni (voce, chitarre e pianoforte), Cesare Barbi (batteria), Luca Zannoni (tastiere) e Matteo Verrini (basso). Il loro mondo musicale rievoca e rielabora i suoni tipici della scena moderna inglese. Lo scorso 28 marzo il gruppo ha pubblicato “Fa che sia per sempre”, il nuovo singolo tratto dal disco d’esordio del gruppo, intitolato “Tra le luci bianche”. A parlarci del gruppo, dei temi del disco e dei suoi progetti paralleli è Valerio Carboni, compositore, musicista, cantante e autore per vari gruppi e progetti.
Nel brano “Fa che sia per sempre” canti “io ci sono ma non posso farcela da solo”… quanto conta la reciprocità dei sentimenti in una storia e cosa intende comunicare questa canzone?
Più andiamo avanti in questo mondo cosmopolita, più sappiamo tutto di tutti, eppure allo stesso tempo ci chiudiamo nel nostro egocentrismo. Siamo sempre più egoisti ma, in realtà, per avere una vita serena e felice bisogna essere in più persone, è bello condividere la propria esistenza, le proprie paure e le proprie emozioni. In questo caso il brano parla di un rapporto a due e del fatidico momento in cui bisogna decidere di lavorare insieme per cementare e reinvestire quello che si è costruito insieme. Il concetto della canzone è darsi all’altro.
Come è nata l’idea del video che accompagna il singolo?
Visto che la canzone dice che non ce la si può fare da soli, ho prestato il labiale ad altri personaggi che si portano il telefonino alla bocca… in questo modo sembra che siano gli altri a cantare la nostra canzone. Ci sono arrivati tantissimi video anche da nostri fan che vivono a Singapore! Sono stati i nostri fan ed i nostri amici ad aiutarci nella realizzazione di questo video e, in questo senso, la cosa ha allargato il significato della canzone, che si riferisce principalmente ad un rapporto a due, ma può essere anche universale.
Raccontaci l’essenza del sound dei Karbonio 14, come è iniziato e come si è evoluto il percorso artistico del gruppo?
Siamo in quattro e siamo partiti come band tributo ai Coldplay soprattutto per un discorso legato al sound british e alle ambientazioni sonore con suoni apparentemente imprecisi, sporchi, graffiati. Oltre che suonare insieme, ci piace fare le cose insieme, uscire e divertirci quindi abbiamo provato a creare una canzone e abbiamo visto che anche il processo creativo andava molto bene. All’interno del nostro progetto sappiamo crearci i nostri spazi e abbiamo visto che riusciamo a fare qualcosa di buono…
“Tra le luci bianche” è un album molto ricco e completo, il tema ricorrente è una dicotomia di un’entità in due parti… Quali sono le parti in contrasto tra loro e quale prevale tra le due?
Al centro di tutto c’è il rapporto tra il sè ed un’altra persona ma il discorso può ovviamente essere riferito anche al rapporto che ciascuno di noi ha con se stesso.
Il brano intitolato “Ti verrò a cercare” entrerà a far parte della compilation del concorso ideato da Materiali Musicali?
Abbiamo partecipato a questo concorso per caso, abbiamo scelto un brano che non abbiamo fatto ascoltare molto quindi è stato anche un modo per metterci alla prova su qualcosa che non aveva ancora ricevuto un responso, alla fine abbiamo avuto questa menzione e parteciperemo alla premiazione finale con nostra soddisfazione. Noi facciamo le nostre cose divertendoci, io faccio il musicista da tanti anni e vedo molte persone con grandi ambizioni il che, per carità, è un fatto molto giusto però bisogna anche divertirsi durante il percorso che si fa. Avere una band che fa pezzi propri, in questo contesto, non è affatto semplice eppure noi ci divertiamo ancora e, pian piano, speriamo di mettere su un tassello alla volta.
“Ho bisogno di godere nel sentirmi un po’ colpevole” è la frase più forte di “Come follia”, come nasce questo testo?
Questo è il primo pezzo che abbiamo composto, il testo narra di un uomo che comincia a guardarsi dentro e ad analizzare i propri problemi. Alla fine siamo tutti un po’ colpevoli di qualcosa e a volte è anche bello trasgredire sapendo che poi si può tornare alla normalità. Tutti facciamo qualcosa di colpevole tutti i giorni… nel testo canto “dubito delle parole che sono scritte in arabo ma poi mi guardo dentro e mi viene il vomito…”; questa frase racchiude un’ammissione e implica, ancora una volta, il desiderio di darsi agli altri.
In “Catene” avete collaborato con Mistachic con un risultato molto originale… come si è innescata questa sintonia artistica?
Questo brano si discostava un po’ dalle altre canzoni presenti in “Tra le luci bianche”… All’epoca non riuscivamo a trovare la chiave dell’arrangiamento e abbiamo deciso, insieme alla nostra etichetta discografica Molto Recording di Modena, di provare a chiamare un dj per un arrangiamento. Mistachic ha lavorato per due settimane al brano ed era perfetto, si tratta di un sound che ci appartiene un po’ meno ma che ci piace molto inoltre Andrea Mazzali è un nostro amico ed è stato bello avere il suo contributo. La musica per me è liberta totale.
In “Pioggia” c’è anche la penna di Carlo Rizioli… Le parole del testo sono cadenzate e scandiscono l’evoluzione di un sentimento. Qual è il tuo commento ad una canzone così intima?
Si tratta di un brano che avevo scritto insieme al mio amico e collega Carlo Rizioli (autore di fama internazionale che ha scritto per Ramazzotti, Stadio, Emma Marrone …) uscivo da una storia importante e ci siamo trovati a scrivere questo pezzo di getto insieme, si tratta di un brano che sento particolarmente e che più mi rappresenta all’interno del disco perché è ispirato alla mia vita. Qui c’è la storia di due persone che non stanno più insieme ma che vivono ancora nella stessa città, il rapporto è finito ma ci sono ancora tutti gli strascichi da metabolizzare. Io mi ritengo fortunato perché attraverso la musica riesco a confinare le emozioni in un testo inteso un po’ come la fotografia di quel momento.
Karbonio14 Ph Studio Pagliani
Come mai “One step to madness” è in inglese?
Anche qui è accaduto tutto in modo molto naturale, il pezzo è nato in finto inglese poi abbiamo avuto delle difficoltà e ci siamo fatti aiutare da Marco Ligabue che ci ha scritto un bel testo, ci è piaciuto e l’abbiamo inserito nell’album come ghost track. La canzone è piaciuta molto a due dj Alex Barattini e Max Baffa di Radio 105 che hanno fatto un remix del brano e l’hanno messo in radio. A volte ci si fa tanti problemi ma fare le cose con tranquillità può portare anche a interessanti sviluppi!
Siete al lavoro su nuovi brani?
Ovviamente sì, abbiamo in cantiere due pezzi molto forti… Vogliamo capire quale tra i due potrebbe sposare meglio lo spirito della stagione imminente…
Hai tante collaborazioni all’attivo… tra tutte citiamo quelle con Aldo, Giovanni e Giacomo, Arturo Brachetti, Angela Finocchiaro, Antonella Lo Coco. Come riesci a reinventare ogni volta te stesso e la tua musica e come cambia il tuo approccio in base al ruolo che ricopri (compositore, cantante, musicista…)?
In realtà io sento un forte istinto creativo, tiro giù musiche e parole; alcune mi vengono alla Karbonio 14, altre sono per Antonella, collaboro con lei da ormai 10 anni e avevamo anche un altro gruppo insieme. Per Aldo Giovanni e Giacomo ho scritto le musiche del loro ultimo spettacolo teatrale, intitolato “Ammutta Muddica”. Anche in quel caso bisogna lavorare tanto, le idee non sempre vengono però è sempre una questione di dove veicolare l’input creativo. Per il film di Angela Finocchiaro “Ci vuole un gran fisico” mi son ritrovato a scrivere 60 brani, anche cose piccolissime e di pochi secondi… La cosa migliore sarebbe girare il mondo e osservare le cose, la creatività si vede in ogni cosa: in un cibo, in un odore….l’ideale è cercare di trasformare quello che si osserva in musica. Questo lavoro è un po’ strano, a volte sembra che non stai facendo niente ma in realtà non stacchi mai davvero la spina perché ogni momento può essere utile per scrivere e comporre.
Ci sono altri progetti paralleli al gruppo in programma?
Sto lavorando a dei pezzi nuovi con Antonella Lo Coco e sto collaborando anche con un altro artista ma per il momento è top secret!
Raffaella Sbrescia
Video: “Fa che sia per sempre”
Si ringraziano Valerio Carboni e Alessandra Bosi di Parole e Dintorni per la disponibilità
Zibba, all’anagrafe Sergio Vallarino, rappresenta una delle più valide e interessanti realtà del nuovo cantautorato italiano. Sulle scene dal 1998 con gli Almalibre, Zibba ha raggiunto una maturità artistica dettata da una consapevolezza importante: uno sconfinato amore per la scrittura e per la musica. “Senza pensare all’estate” è l’ultimo lavoro, in ordine di tempo, del cantautore che pur avendo già riscontrato importanti e prestigiosi riconoscimenti come il Premio Bindi e la Targa Tenco, ha avuto la voglia e il coraggio di rimettersi in gioco sul palco del Festival di Sanremo nella categoria giovani. Con il brano intitolato “Senza di te” Zibba si è aggiudicato il Premio della Critica “Mia Martini” e il Premio della sala stampa radio-tv-web “Lucio Dalla” nella Sezione Nuove Proposte e, ad oggi, è l’ artista indipendente più trasmesso dalle radio. In questa intervista il cantautore apre le porte del suo mondo fatto di parole calde e messaggi diretti al cuore.
“Senza pensare all’estate” raccoglie una serie di fotografie musicali del suo percorso artistico, tra disegni di sogni e intime confessioni… ci racconta la genesi di questo lavoro approfondendo, in particolare, la cura per la ricerca analogica del suono e aggiungendo qualche pensiero che risale alla fase di scrittura di testi così intimi?
Questo è un lavoro importante sia per il modo in cui è stato affrontato da noi come band sia per le sue canzoni. Alcune fanno parte della nostra storia, altre appartengono al nostro presente e in qualche modo anche al futuro. La ricerca è partita dalla scelta dei brani, accurata e piuttosto difficile, seguita da una serie di prove. Abbiamo scelto di registrare in diretta, utilizzando tecniche e modi che ricordassero il concerto. Registrato e mixato in analogico per mantenere questo spirito live, il tutto è stato processato come fosse un disco di quarant’anni fa. Le canzoni seguono un filo conduttore ed è per questo che non è stato facile sceglierle. La direzione artistica di Andrea Pesce ci ha aiutato molto sia nella fase post che in quella creativa in sala prove. Si tratta di un disco che ci è piaciuto nella sua idea e che ci piace per come è venuto. I testi racchiudono simbolicamente uno sguardo alla totalità del mio modo di scrivere, rappresentando fasi temporali diverse, che vanno dalla quasi adolescenza fino al mio domani.
“Senza di te” ha ottenuto un grande riscontro mediatico, anche grazie al successo legato al Festival di Sanremo, eppure è sempre opportuno sottolineare l’importanza della frase “ti chiedo perdono per le cose che do scontate”… Secondo lei la forza emotiva del brano può risiedere nella facilità di identificazione, da parte dell’ascoltatore, nelle parole della canzone?
Credo di sì. Lavorare in questi anni sulla ricerca stilistica di alcuni grandi autori, come Giorgio Calabrese, al quale abbiamo dedicato un album nel 2013, mi ha aiutato a riscoprire una semplicità di scrittura che è propria di un modo ormai quasi inusuale di fare canzone. Le chiavi sono sempre la semplicità e la fantasia di chi ascolta che vuole il suo spazio per immedesimarsi e sentirsi parte della canzone.
Come descriverebbe la particolarissima struttura de “La Saga di Sant’Antonio?
Si tratta di un omaggio alle sonorità del Tom Waits dei primi anni ottanta. Quello dei dischi con i quali ho iniziato ad amare il suo modo di fare musica. La canzone parla di un uomo solo lasciato a pensare a se stesso e alla sua morte. Questa è una canzone che continuo ad amare, nonostante gli anni, perchè racconta qualcosa che, anche se non strettamente mio, forse parla di un me che potrebbe arrivare a tutti.
In “Nancy” canta “Amo la musica perché mi porta ovunque e da questo ovunque mi riporta via…” Quali sono le strade che riesce a percorrere grazie alle note?
Tutte. Senza aver mai voglia di smettere. Nancy racconta della mia esperienza teatrale e di un amore viscerale per la vita, di quanto la musica sia sposa del mio modo di vivere le giornate regalandomi sempre stupore e bellezza. Le strade non sono mai abbastanza quando si ha carburante in abbondanza e questo lavoro è un continuo rigenerarsi e ricaricarsi di nuova energia.
Zibba Ph Nicolò Puppo
Qual è, invece, l’idea da cui nasce “Bon Vojage”?
Una canzone estremamente autobiografica, che racconta di me in quei giorni del 2009. Anno strano, partivano amici e fidanzate e io rimanevo qui a sperare in un po’ di attenzione, che arrivò poco dopo grazie proprio a quel disco che nel duemiladieci ci portava sul palco del Tenco. Mi innamoravo di tutto perchè volevo amare a tutti i costi. Questa canzone è nata per le strade di Parigi nel mio vagabondare perso alla ricerca di nuove emozioni.
Molto delicata è la frase “oggi resto perché hai bisogno, domani vorrò farlo perché avremo un sogno… si tratta di un messaggio di speranza?
Si tratta di un messaggio chiaro che dice: “Oggi hai bisogno e mi sta bene stare qui anche se vorrei mandarti a fare in culo. Resto, ci provo. Perchè meriti cura e perchè io merito qualcuno come te ma troviamoci un motivo più grande, che non sia la debolezza, per stare insieme”. In qualche modo c’è anche speranza sì, intesa, però, nel modo meno romantico. Scegliersi per la vita è una cosa difficile ma poi quando ti scegli e ne sei consapevole è grandioso in tutti i suoi aspetti.
Come si è evoluto negli anni il rapporto artistico con gli Almalibre e come riuscite a trovare l’equilibrio necessario per creare gli arrangiamenti su misura per queste bellissime poesie?
La serenità è alla base di tutto. Per arrivare ad essere in armonia tra noi siamo dovuti passare dal peggio. Come diciamo nella canzone del festival è importante saper riconoscere i propri errori per ripartire proprio da quelli e costruire qualcosa di importante. Siamo diventati il gruppo di persone che volevamo essere. Amici, famiglia. Una super squadra che si conosce molto bene.
Zibba e Almalibre Ph Nicolò Puppo
Qual è la sua forma mentis musicale, alla luce del fatto che è ormai giunto al suo sesto lavoro discografico?
Sempre e comunque in evoluzione come tutto. Fondamentale. Non smettere di aver voglia di crescere e imparare è l’unico modo che conosco per affrontare qualunque cosa nella vita e nella musica.
Uno dei suoi commenti più recenti, relativi al tour in corso, è stato “La musica è di tutti, le canzoni lo sono”… sarà ancora questo il suo mantra per le prossime canzoni che scriverà?
Assolutamente sì. La musica è un fatto collettivo: parte da un singolo per diventare di tutti e tornare di nuovo indietro in altra forma. La mia intima visione delle cose sta vivendo dei nuovi input e trova forza in un nuovo metodo creativo che mi sta divertendo e affascinando. Adesso ho proprio voglia di scrivere e ho scoperto che mi piace ancora farlo perchè lo faccio in modo diverso. La voglia di scrivere non si esaurisce, a volte si perde la strada ma basta fermarsi e osservare l’orizzonte o le stelle per capire dove siamo.
Come sta vivendo la dimensione live e che prospettive ha per il futuro?
Nel futuro ci sono concerti fino alla morte e dischi fino a che avrò voce. Inoltre sto prendendo le misure con l’essere padre, la sfida più grande che ci sia. Voglio continuare a stare bene, trovare sempre nuove cose per far vibrare il tutto. Un percorso meraviglioso che non ha mai fine.
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Zibba e Tatiana Lo Faro di Parole e Dintorni per la disponibilità
Il prossimo 22 aprile Claudio Domestico, in arte Gnut, pubblicherà “Prenditi Quello Che Meriti”, il suo terzo album di inediti, edito dall’etichetta torinese INRI. Undici tracce delicate ed intimiste raccontano le avventure e le emozioni di Claudio che, nel corso degli anni, si è dedicato anima e corpo alla musica. Lunghi viaggi, notti insonni, mille progetti e mille sogni hanno dato vita ad un lavoro che intende seguire una direzione diversa dal passato. “Prenditi quello che meriti” racchiude un messaggio preciso, diretto, semplice ma efficace, un invito alla costruzione di se stessi e del proprio destino. A poco meno di un mese dall’uscita del disco, abbiamo sentito Claudio per lasciarci conquistare dal fascino dei segreti e degli aneddoti che hanno dato vita ad un piccolo grande capolavoro.
Perchè ti definiscono uno chansonnier errante?
Più che adun motivo musicale, questo appellativo è forse dovuto alla vita che faccio, ho vissuto Milano dal 2007 al 2011 e sono due tre anni che mi sposto così velocemente da non avere fissa dimora. Sono napoletano ma quando mi chiedono dove vivo, la mia risposta è “non lo so”.
“Prenditi quello che meriti è, non solo il titolo dell’album, ma anche un monito importante…come lo motivi?
Mi piaceva molto l’idea di un usare un titolo del genere perché ha una valenza sia positiva che negativa: se non sei stato abbastanza bravo da costruirti un futuro che ti piace è anche giusto che tu non riesca a raggiungerlo. D’altro canto, però, se semini bene, raccogli bene altrimenti no. Inoltre penso che quando una persona si costruisce piano piano un suo obiettivo, a prescindere da quale esso sia, il raggiungimento di quest’ultimo rappresenta la più grande soddisfazione che si possa avere. In sintesi si tratta di un consiglio che do sia a me stesso che a tutti coloro che ascolteranno le mie canzoni.
Claudio Domestico Ph Alessandra Finelli
Questo terzo disco nasce dopo una lunga gestazione. Quali sono i retroscena, i pensieri, le intuizioni che si nascondono tra le note di questo lavoro?
Sono canzoni che ho iniziato a scrivere nel 2008, quando ancora stavo registrando l’altro disco. Ho girato tantissimo e ho fatto tante altre cose, colonne sonore, produzioni artistiche, progetti paralleli… si tratta di testi che ho scritto di notte o quando avevo un po’ di tempo per stare da solo, quelle poche volte che non mi trovavo a condividere casa con qualcuno. Terminata la fase della scrittura, ho deciso di registrare andando in giro dai miei amici musicisti: ho registrato i violoncelli e le chitarre acustiche con Mattia Boschi, la sezione fiati nel soggiorno di un altro amico poi sono sceso di nuovo a Roma e ho registrato i pianoforti a casa di Fish, altre chitarre a casa di Roberto Angelini. Poi ho raccolto il tutto e sono andato a Sorrento per rifinire il lavoro. In quell’ occasione riaffiorarono gli incontri, i ricordi, le emozioni, i viaggi… e, ancora oggi, mi emoziona molto riascoltare l’album.
Il tema portante dell’album è il viaggio. Rifacendoci alle parole del singolo “Non è tardi”, si tratta di un viaggio “contro un mondo che non ci risponde”?
I viaggi sintetizzano un po’ tutti gli aspetti della vita: ci sono momenti in cui ti senti capito, altri in cui ti senti solo, momenti in cui il tuo vicino di posto in treno diventa il tuo migliore amico… Si tratta di una sintesi della vita, una buona valvola di sfogo per raccontare il proprio percorso.
Come nascono i featuring presenti nel disco e, in particolare, quello con Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi in “Fiume lento”?
Io e Giovanni ci conosciamo da un po’ di anni perché anche lui si è trasferito a Milano intorno al 2005-2006, ci incontravamo alla Casa 139 e sono andato a sentire tante volte i Marta dal vivo. Spesso parlavamo di come sarebbe stato bello fare qualcosa insieme, qualche volta ho aperto qualche loro concerto, Mattia Boschi ha suonato nel mio disco e, anche se a distanza, Giovanni ha seguito l’ evoluzione di questo lavoro. Poi c’era questa canzone” Fiume lento” e una sera ho detto a Giovanni che, secondo me, questo brano poteva essere quello giusto per cantare insieme e lui ha accettato. A Milano, durante un pomeriggio, abbiamo provato il pezzo, ci siamo emozionati perché ci è piaciuto un sacco. L’intuizione era stata giusta, mi ero immaginato dei cori che lui poteva fare nel secondo ritornello e alla fine è andata più che bene! Dopo le prove ci siamo abbracciati, siamo contenti e adesso non vediamo l’ora di cantarla insieme dal vivo.
“Prenditi quello che meriti e dona a chi merita quello che puoi, dona a chi merita la tua poesia… sono parole forti e dirette…
Per stare in pace con sé stessi , l’unica cosa che si può fare è cercare di realizzare i propri obiettivi guadagnandoseli, con questo brano vorrei cercare di spingere me stesso e chi ascolta ad essere migliore. Non ci sono doppi fini, se hai qualcosa da dare, dallo a chi lo merita… è un meccanismo simile al karma “prendi e dai”.
Gnut Ph Alessandra Finelli
“Nun saccio se è amore o guerra ma ‘o segno resta, ‘o segno resta”, canti nella drammatica “Solo una carezza”, come sei riuscito a rendere per iscritto il dramma di una storia vera?
In realtà si tratta di un brano che ho scritto dopo che mio padre mi raccontò la storia di sua nonna, una storia di fine 800. Questa donna fu costretta sposare un uomo che le aveva fatto violenza per costringerla a sposarlo e, quando mio padre mi raccontò questa storia, un paio di anni fa, rimasi completamente scioccato perché ero cresciuto inconsapevole di una cosa così allucinante. Fortunatamente c’è stato un lieto fine perché quel personaggio cattivo dopo un po’ è morto e lei, in seguito, è riuscita a trovare un altro giovane uomo che l’ha sposata e, insieme, hanno dato vita a mia nonna. La forza di questa donna che ha combattuto per la vita che meritava, il suo percorso, la sua reazione sono un esempio da seguire. Ecco perché dopo il racconto mi sono messo subito a scrivere per poter raccontare la storia nella maniera più lineare possibile. Il risultato è una piccola magia, tutti i parenti si commuovono quando la sentono…
“Foglie di Dagdad” ed “Estate in Dagdad” hanno un segreto in comune… qual è?
Sono sempre stato affascinato dalle accordature aperte ma sono molto pigro e, ogni volta che in passato ho cercato di usare un nuovo tipo di accordatura, dopo un po’ mi annoiavo e non riuscivo a trovare le soluzioni che cercavo. Due estati fa mi è capitato di fare un incidente in macchina e ho avuto dei problemi alla mano per cui non riuscivo a suonare con tutte le dita, potevo usarne solo due, avevo voglia di suonare ma non sapevo cosa suonare e quindi ho accordato la chitarra in questo modo strano. Grazie all’uso di due dita sono riuscito a comporre “Estate in Dagdad”, me la sono suonata 20-30 volte al giorno perché era l’unica cosa che riuscivo a suonare, la volevo intitolare in un altro modo ma, memore del fatto che sono smemorato, ho scelto di intitolarla “Estate in Dagdad” così, tra dieci anni, se la dovrò risuonare, mi ricorderò dell’accordatura e non avrò problemi dal vivo (ride ndr). Dopo un po’ ho scritto anche “Foglie di Dagdad” e ho scelto di creare questo gioco di parole, guardando la lista dei titoli delle canzoni, mi sono reso conto che Dagdad faceva pensare sia un posto che ad una pianta e quindi ho sorriso pensando alle eventuali interpretazioni delle pubblico. Adesso, però, sto suonando “Estate in Dagdad” con accordatura normale e la chiamo “Estate in accordatura normale”…
“In dimmi cosa resta” ti esponi davvero molto in frasi come ”Guardami negli occhi e dimmi cosa vedi” cosa intendi comunicare in questo brano?
In realtà questa canzone è nata dopo un litigio con una persona a cui tengo molto, cioè mio padre. Ci sono un po’ tutte le cose che ciascuno di noi si sente dire o dice quando ci si scontra con una persona che si ama in un momento di forte rabbia. Si tratta di uno sfogo in cui, nel ritornello in particolare, si evince che quando due persone si vogliono bene e ci sono dei legami d’affetto profondi, guardarsi negli occhi diventa ancora più importante, soprattutto nei momenti di rabbia. Questa canzone vuole quindi creare proprio un contrasto tra una musica allegra e solare e questo rinfacciarsi cose cattive…
“Per ogni vittoria, ci sono cento sconfitte”?
Questa è una frase che ho scritto per “Torno”, un brano che ho composto dopo che ero tornato da 14 concerti e 200-300 km percorsi ogni volta… Gli ultimi live erano stati particolarmente avvilenti perché si erano tenuti in contesti poco carini come pizzerie dove parlavano tutti, una cosa allucinante. Dopo tutto questo giro incredibile, ero tornato a casa alle 5 e mezza del mattino, era quasi l’alba, quel momento del giorno in cui ritorna la luce e le notti che sono trascorse ti attraversano gli occhi e il viso, mi sono guardato allo specchio e sentivo l’esigenza di dovermi sfogare, non stavo bene in quel momento e, mentre scrivevo le parole del testo, mi sono reso conto che stavo raccontando un milione di ritorni a casa in cui torni deluso o soltanto stanchissimo per tutto quello che stai cercando di dare e non ti è tornato abbastanza. Ho scritto le parole in maniera molto veloce, ho registrato il brano su un piccolo registratore che avevo, si erano ormai fatte le 6.30, non riuscivo più a tenere gli occhi aperti, sono andato a dormire e l’ho messa nello scatolone con le altre canzoni che stavo raccogliendo. Ritrovandola mi ha colpito il fatto che, leggendo il testo, non ho rivisto solo quella notte, ne ho riviste davvero tante altre e quindi mi sono fatto un pò tenerezza nel constatare il tentativo di combattere tutte queste notti e di portare a casa un sorriso e di accettare tutte le sconfitte godendo delle piccole soddisfazioni. Scoprire che le nostre vite si somigliano e che, dopo essermi raccontato, possa trovare delle persone che si ritrovano in quello che ho scritto è una sensazione che mi fa sentire meno solo, si tratta di uno scambio magico e meraviglioso che mi fa alzare la mattina sentendomi felice.
Gnut Ph Alessandra Finelli
Facendo un gioco di parole con il testo di “Universi”: Cosa prendi? Come spenderai il tuo tempo? Come ti senti?
Prendo tutto quello che posso e che penso di meritarmi, spenderò il mio tempo come ho fatto fino ad adesso, cercando di esprimere quello che sento quello che vedo, vivendo come ho fatto finora. Oggi mi sento molto bene, ogni tanto stanco, però mi stanco a fare cose che mi piacciono.
In “Passione”, la bellissima reinterpretazione dell’intensa canzone di Libero Bovio, hai creato un particolare passaggio dal temporale al canto degli uccellini…come mai questa scelta?
Si tratta di un discorso molto semplice: quando ho iniziato a registrare non sapevo quanto sarebbe durato il disco e, nel momento in cui ho realizzato che chiesto in tutto durava 30 minuti, mi sono accorto che era troppo poco tempo e che mi serviva un altro pezzo, quindi ho deciso di fare una cover. Avevo scoperto “Passione” da 3-4 mesi , ero in una fase emotivamente sensibile a quelle parole, a quell’atmosfera, a quella melodia, inoltre era la canzone che suonavo ogni volta che mi trovavo da solo, alle 4-5 di notte mi chiudevo in una stanza e la suonavo, era diventata morbosamente mia. Dunque serviva un altro pezzo per il disco e decisi di inciderla; il fonico, dall’altra stanza, mi disse di chiudere la finestra perché in quel momento stava piovendo, io, invece, gli dissi di posizionare un microfono proprio vicino alla finestra per registrare la pioggia e ho realizzato questa versione chitarra e voce del pezzo. Il problema si presentò, quando, alla fine della canzone, c’era ancora questo temporale in corso e, considerando che volevo sceglierla come finale del disco, stavolta il mio intento era quello di lasciar emergere un mio lato più solare per cui ho inserito il cinguettìo finale sfumando il temporale.
A che punto è il progetto legato alla realizzazione di un libro per bambini, che vedrà anche la collaborazione di Alessandro Rak?
Un paio di anni fa regalai a mio nipote un tamburo e, mentre eravamo ad un cenone di Natale, lui arrivo da mE e mi disse che aveva scritto una canzone intitolata “Il Pupazzo strapazzato”, poi tornò e mi elenco altri titoli meravigliosi, li segnai tutti sul cellulare e li ho tenuti in bozze per mesi. Dopo un pò mi sono ricordato di avere questi 8 titoli sul cellulare, sono tornato a casa e mi sono messo a scrivere queste canzoncine durante un’estate di due anni fa. Ho iniziato a registrarle piano piano e infatti non ho ancora finito perché, nel frattempo, ho fatto tante altre cose. Intanto è uscita “L’arte della felicità”, il film di Rak e lo staff del film ha lavorato pomeriggi interi a queste canzoncine durante la lavorazione del film. Ci siamo organizzati per curare il progetto insieme con delle illustrazioni da abbinare a queste canzoni e piccoli corti animati… vorrei realizzare un libro con tutte le illustrazioni, come quelli con le copertine morbide, organizzare dei concerti per bambini, ma ci vorrà un po’ di tempo perché Rak è impegnatissimo tra vari lavori e anche io…
Che rapporto hai con i Foja?
Sono molto amico di Dario Sansone da 3-4 anni. Ci siamo conosciuti meglio grazie a Gino Fastidio, che è un amico comune, poi ci siamo inventati il progetto Tarall &Wine con dei pezzi in napoletano, su tutti “L’importante è ca staje buono” e, verso la fine di quel periodo, c’erano anche i Foja che dovevano registrare il loro secondo disco. Io venivo da un altro paio di produzioni che avevo fatto tempo prima, si era creato un ottimo rapporto di amicizia, conoscevo bene tutti i membri del gruppo e, in virtù di una stima reciproca molto forte, mi hanno chiesto di rimanere in famiglia e io ho accettato. Ci siamo messi a lavorare per quattro mesi alle loro bellissime canzoni ed è una bella esperienza sia dal punto di vista umano che artistico. Sono molto soddisfatto del risultato e, quando posso, sono ospite ai loro concerti.
Cosa ci anticipi del progetto “Nevermind” in napoletano con Gino Fastidio e Jonathan Maurano?
E’ nato tutto per caso anche questa volta. non vedo l’ora che esca questo progetto perchè è la cosa più divertente che abbia mai fatto in vita mia! In realtà è nato tutto all’Angelo Mai a Roma, che in questo momento sta vivendo un momento molto difficile, l’ si tenevano delle serate a tema intitolate “Long Play”: diversi artisti si esibivano interpretando un disco intero con la scaletta originale e mi hanno chiesto di partecipare al progetto. Il fatto è che io sono molto pigro nello studio dei pezzi degli altri: o mi viene come passione o diventa solo studio. Da ragazzino suonavo i Nirvana con Gino Fastidio e gli ho chiesto di rifare “Nevermind”. Lui è stato molto contento e, durante le prove, ci siamo molto divertiti perché lui si inventava delle cose che facevano davvero ridere e mi è venuto in mente che a Napoli, durante gli anni 70 /80, c’erano gli Shampoo, un gruppo che interpretava i pezzi dei Beatles in napoletano, per cui e ho pensato che, in omaggio a questo gruppo, potevamo chiamarci i Balsamo… ognuno di noi ha un alter ego, io, per esempio, suono il basso…
In conclusione, tra Tarall &Wine, le mie serate, i Balsamo e i pezzi per bambini la mia vita è molto piena. Il percorso per sentirsi arrivati è ancora lungo ma, forse, è meglio non sentirsi mai arrivati perché altrimenti ti spegni e non hai più voglia di fare le cose.
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Claudio Domestico e Stefano Di Mario di Metratron per la disponibilità
Gaetano Morbioli insieme a Francesco Silvestre dei Modà
Gaetano Morbioli è uno più noti registi italiani. Tantissimi dei videoclip musicali più visti portano la sua firma, che individua nell’essenzialità del suo approccio artigianale l’unicità del suo stile. Nel corso di trent’anni di carriera Gaetano ha saputo instaurare un rapporto di fiducia con tantissimi artisti, grazie alla sua professionalità e all’amore per il rispetto della musica. Creatore del canale televisivo Match Music prima e della società Run Multimedia poi, Gaetano Morbioli è riconosciuto come uno dei massimi esponenti del settore audiovisivo italiano. In questa intervista il regista racconta il suo lavoro approfondendone gli aspetti tecnici senza tralasciare problematiche, sfide e nuove prospettive.
Gaetano, con quali parole spiegherebbe il suo lavoro?
Il nostro è un lavoro molto particolare, l’audiovisivo fonde la comunicazione classica di uno spot pubblicitario con lo sviluppo di un cortometraggio con l’obiettivo di poter far ascoltare la canzone esaltandola. La particolarità sta nel fatto che bisogna cercare di suscitare la stessa emotività che solitamente viene stimolata quando si guarda un film.
Quali sono le fasi e i passaggi principali che scandiscono la produzione di un video musicale?
I brani composti dagli artisti sono legati ad un progetto discografico, già frutto di una linea guida precisa, in grado di fornire l’idea generale su cui si svilupperà il videoclip. Il mio ruolo è, quindi, quello di cercare, insieme all’artista, di individuare il tipo di linguaggio e la storia da creare attraverso l’ideazione di un video. Nella prima fase ci sono due teste e quattro mani non solo per scegliere la storia ma anche il tipo di abbigliamento, le comparse, la tipologia di produzione da mettere in piedi… si discute di tutto e di più poi ci si rivede il giorno dopo e la ricerca creativa continua. La seconda fase, molto più produttiva, consiste nel cercare di mettere insieme quello che si è deciso di fare: c’è la ricerca delle modelle, dello styling, della location, fino ad arrivare al giorno delle riprese, durante il quale si procede allo shooting. Da qui in poi c’è la fase più delicata del lavoro ovvero l’editing e il montaggio: è importante sottolineare che il montaggio di un videoclip rappresenta la parte essenziale di tutto il lavoro. A differenza della pubblicità, che in 30 secondi mostra quello che hai realizzato, o del cinema in cui hai, invece, dei tempi lunghi per decidere che tipo di montaggio realizzare, nel videoclip comanda la musica, non puoi prescindere da essa! Sarà il montaggio a determinare se il videoclip sarà un grande successo o un grande fallimento. Dopo una settimana di montaggio si arriva al prodotto ideale che, dopo essere stato confrontato sia con l’artista che con i discografici, viene poi inserito in un percorso di programmazione dominato soprattutto da internet e dalla comunicazione via social networks.
Gaetano Morbioli sul set di un videoclip di Laura Pausini
Come cambia, di volta in volta, il suo approccio nella trasformazione della musica in immagini?
Partiamo dal presupposto che è sbagliato pensare che il regista di un videoclip sia un autore. Fare il regista di videoclip significa innanzitutto mettersi a disposizione di una fase creativa già eseguita e realizzare quello che vuole l’artista. Nel momento in cui un artista non si interessa del proprio progetto o dice “voglio quel regista perché vorrei che egli mettesse a frutto la sua visione” si verificano gli errori più clamorosi che si possano fare. Di fondo è come se si volessero incrociare due comunicatori diversi: da un lato c’è la visione del regista, dall’altro c’è la canzone…il risultato sarebbe la stratificazione di due comunicazioni diverse: la canzone che vuole dirti qualcosa e il regista che la vede alla sua maniera, per un risultato scadente. Molte volte i video che realizziamo noi vengono visti e funzionano su internet per un motivo preciso: ci mettiamo a disposizione di un percorso creativo che c’è già. Il ruolo del regista è simile a quello di un meccanico in questo senso. Poi è chiaro che la capacità di filmare in una certa maniera o di scegliere un posto piuttosto che un altro determinano il valore del videoclip che, in ogni caso, ha la funzione principale di arrivare al maggior numero di persone possibile.
Lei ha iniziato a lavorare in questo settore a 17 anni… come si è evoluta, da allora la sua carriera?
Nella vita si fanno delle scelte ma a volte è anche una questione di casualità… Il destino può essere vario e la fortuna incide tantissimo nella vita di ogni persona. Nel mio caso, quando ho iniziato ho sempre detto:«Mamma mia nella mia vita non farò mai videoclip», questo è un lavoro veramente snervante, anche dal punto di vista produttivo: hai 3 minuti in cui devi girare come se si trattasse di un cortometraggio quindi, dovendo lavorare a bassi costi, devi farti un mazzo tanto in un giorno per poi concentrare tutto in quei tre minuti; questo è devastante, anche dal punto di vista psicologico. Il mio percorso è molto semplice: nasco in provincia, da una famiglia molto povera, di origine contadina, anche io sarei diventato un contadino oppure avrei lavorato nel terziario ma dall’età di 15 anni ho cominciato a fare diversi lavori. Ho fatto l’elettricista, il meccanico e per guadagnare qualcosa in più anche il facchino in un’azienda di traslochi. Questo lavoro, in particolare, era faticosissimo, ci si spaccava la schiena dal mattino alla sera. In seguito ho intercettato, per caso, in estate, la possibilità di poter dare una mano ad una tv locale di Verona ed essere il classico garzone di bottega che dava una mano agli operatori che andavano a fare le riprese in giro. A quell’epoca l’operatore non aveva la telecamera completa quindi aveva bisogno per forza di un aiuto, ho fatto questo lavoro a tempo perso, mentre gli altri erano in ferie, facendo anche la messa in onda, mettevo in onda dei video in una tv locale con dei turni notturni e lì ho capito tante cose, mi sono detto che se mi pagano per guardare la televisione, mia grande passione negli anni ’70, dovevo assolutamente imparare questo lavoro. Da qui è partita la passione, mi sono avvicinato al mondo della tecnologia, ai mixer, ai video, vedevo cose che per me erano veramente fantascienza per il tipo di percorso che avevo fatto prima.
All’inizio si è trattato soprattutto di applicazione, volevo imparare a tutti i costi per capire e ho cominciato a studiare in maniera quasi maniacale, di notte, per imparare le cose. Se uno si applica, impara anche le cose più impensabili ed è così che è cominciata la classica gavetta. Insieme ad un amico inventai un programma che si chiamava “Match Music”, prima ancora di Mtv, volevamo lanciare un tipo di linguaggio nuovo per i ragazzi e pian piano Match Music è diventato un canale televisivo. Nel corso degli anni ho conosciuto tantissimi artisti della musica italiana, abbiamo iniziato con piccoli prodotti audiovisivi realizzati con le telecamere di una televisione locale poi, la qualità del lavoro e la determinazione ci hanno permesso di arrivare ad essere quello che siamo dall’1984 ad oggi. Sono passati 26 anni e, attraverso varie fasi, siamo una realtà basata sul voler rendere un servizio alla musica.
I suoi lavori sono ormai tantissimi e altrettanto numerosi sono gli artisti che si affidano a lei e a Run Multimedia per la realizzazione dei loro videoclip. Come riesce ad instaurare un rapporto di fiducia con gli artisti?
Per me è importante svolgere questo lavoro dietro le quinte e cercare di farlo il più seriamente possibile. In questo momento, se ci si pone come una persona seria e professionale e se ci sono dei risultati importanti, è chiaro che gli artisti vengono da me non solo come amico, ma anche come azienda, e vengono per ottenere dei risultati. Firmare i video genera una sorta di meccanismo per cui i registi fanno in fretta a volersi chiamare tali. Ormai tanti ragazzi si buttano in questo mondo e vogliono prima di tutto essere chiamati registi invece di essere effettivamente pratici nelle cose ed è uno dei danni maggiori per chi si avvicina a questo settore. Nell’audiovisivo, il segreto per svolgere un buon lavoro sta nel lavorare con la stessa dinamica, la stessa passione, la stessa voglia di far bene sia se lavori per una piccola bottega di provincia sia se devi lavorare per Adriano Celentano.
Che rapporto ha con la cinepresa?
Nel corso della nostra vita ci capita tante volte di fare involontariamente ricerca: guardando un libro o leggendo una rivista abituiamo la nostra testa alla bellezza. La scoperta della mia passione è arrivata attraverso la fotografia: con la macchina fotografica posso creare un vero e proprio gusto. Il gusto della scelta, di un’ottica, della ripresa del campo, etc… il tutto per ottenere il risultato che voglio. Durante un pomeriggio della mia giovinezza, fotografai mia sorella e usai per la prima volta una reflex, in quell’occasione ho capito che la reflex ti permette di realizzare quello che tu vedi nell’obiettivo. La comprensione di quel segreto mi ha fatto andare avanti in tutte le scelte che ho fatto in seguito: dal tipo di ripresa all’inquadratura, al tipo di macchina da usare per riprendere fino alla decisione di realizzare video coi 35 mm, che all’epoca nessuno usava. In funzione del mio rapporto fisico con la macchina, ho deciso di essere anche direttore della fotografia, oltre che video-operatore e regista.
Come mai Verona compare spesso nei suoi lavori?
Verona è una città di mezzo tra una città di provincia e grande città e ricorda tutta l’Italia come immagine, ha un fiume che l’attraversa, caratteristica di tantissime città ed è il simbolo di un’Italia che mi piace. Ho girato un po’ dappertutto, in Sicilia, in Sardegna, in Puglia, a Napoli ma sono molto più comodo a Verona. Non si tratta di un rapporto speciale, se abitassi in un paese di provincia delle basse, troverei, forse, anche lì’ un modo per riuscire a valorizzare quel posto. Se sei in un mondo in cui c’è crisi economica, devi risparmiare, devi trovare delle soluzioni, devi cercare di trovare delle condizioni che rispondano ai requisiti che cerchi e Verona è in grado di fare fronte a queste necessità. L’ho scelta anche quando ho lavorato con Adriano Celentano per l’apertura dell’evento “Rockpolitik”: 10 minuti di volo sulla città mi hanno dato lo stesso effetto che avrei avuto volando su Roma o Berlino.
Se si utilizzassero le città italiane come cartoline, cioè per il valore estetico che possiedono, si farebbe un grande lavoro di rispetto del proprio luogo e delle proprie tradizioni. A proposito di questo, vorrei estendere il discorso anche alla musica: tante volte gli artisti italiani tentano di scimmiottare gli americani ma noi abbiamo un valore che esiste a prescindere, siamo legati alla nostra melodia, nostra storia musicale che è nel nostro Dna.
Cosa pensa delle colossali produzioni video d’oltreoceano?
E’chiaro che se si opera in un mercato con un potenziale pubblico di 500 milioni di persone, si procede alla realizzazione di mega produzioni create in funzione di questo aspetto. In Italia dobbiamo basarci su un panorama di 50 -60 milioni di persone e questo determina il fatto che ci siano investimenti molto bassi. In America si parla di un bacino di utenza in grado di raggiungere tutto il mondo e c’è una selezione molto più serrata degli artisti. In Italia, invece, la competizione deve basarsi sulla storia della nostra musica, bisogna evolvere pur rimanendo legati alle nostre radici ed è lo stesso motivo per cui funzionano i Modà o Pino Daniele, il quale è riuscito a portare la nostra melodia un elevato livello di ricerca e di raffinatezza.
Quali sono, secondo lei, le nuove frontiere del suo settore?
Il nostro mestiere è quello in assoluto più legato alla comunicazione. L’audiovisivo è uno dei settori più in espansione per quel che riguarda il prossimo futuro perché qualsiasi tipo di azienda, in qualsiasi tipo di settore, dal comune, alle imprese private, all’industria, alla musica, avrà bisogno di comunicare, soprattutto attraverso le immagini. Ci sono grandissime opportunità nel mondo dell’audiovisivo e, se riusciamo a creare i giusti presupporsti, possiamo creare un’importante opportunità di lavoro per i nostri figli. Credo in un futuro che passi attraverso l’audiovisivo ma deve esserci una formazione seria. Abbiamo una cultura e dei posti che ci differenziano dagli altri e abbiamo la possibilità di giocare la nostra grande partita e questa partita io la voglio giocare!
Vorrei far capire che c’è qualcosa di positivo nel nostro settore oltre che fare il regista per videoclip. Vorrei far capire quanto è importante imparare bene e infatti abbiamo in mente vari progetti, su tutti la Run Academy un progetto che vedrà la luce nei prossimi mesi. Si tratterà di un contesto serio in grado di insegnare questo mestiere a chi lo desidera davvero. Il nostro mondo è molto duro, si pensa che sia tutto facile ma, se si sbaglia un lavoro, ci vuole un attimo ad esserne rigettato fuori.
Raffaella Sbrescia
Si ringrazia Gaetano Morbioli per la disponibilità
Bruno Bavota è un pianista, chitarrista e compositore napoletano. “Il pozzo d’Amor”, “La casa sulla luna” e “The secret of the Sea”, in uscita il prossimo 21 aprile, per l’etichetta discografica irlandese Psychonavigation Records, sono i titoli dei suoi lavori discografici. «La musica ogni giorno mi abbraccia e mi salva da ogni povertà…soprattutto da quella più grande, quella dell’anima», sostiene il giovane e appassionato Bruno che, avvicinatosi alle note e agli strumenti all’età di vent’anni, è riuscito a trovare un sentiero che lo porterà davvero molto lontano nel mondo della musica. Reduce dal concerto sold-out che ha tenuto in Russia, per l’inaugurazione della Philarmonic of new musical art, lo scorso 30 marzo, Bruno ha aperto le porte del suo cuore per aiutarci a capire fino in fondo le evoluzioni stilistiche che hanno determinato la felice creazione di “The Secret of the Sea”.
La musica è una fedele compagna delle tue emozioni giornaliere. Come si è evoluto nel tempo il tuo rapporto quotidiano con le note? Cosa ti aspetti dalla musica e cosa le dai tu, a tua volta?
La musica mi ha semplicemente salvato la vita, per cui l’unica cosa che posso fare è esserle grato e cercare di darle il mio piccolo contributo. In realtà essa è arrivata molto tardi nella mia vita, avevo vent’anni, uscivo da una storia d’amore importante e cominciai a suonare la chitarra mancina di mio fratello per colmare un vuoto, solo in seguito scoprii il pianoforte e mi sentii finalmente completo. La musica per me è un abbraccio continuo e spero di poter continuare questo viaggio d’amore ad un certo livello.
“Il pozzo d’amor”, “La casa sulla luna” e “The Secret of The Sea” sono i titoli dei tuoi dischi. Cosa rappresenta per te ciascuno di questi lavori?
Amore, luna e mare sono gli elementi centrali. Il primo album è nato per caso, ho composto i brani nel giro di qualche mese, pur registrandoli in modo professionale in uno studio. Non sapevo cosa fosse un comunicato stampa, cosa significasse inviare materiali in giro, eppure cominciai a farlo, anche un maniera un po’ rozza, fino a quando, grazie ad Internet, mi scoprirono due ragazzi, oggi miei amici stretti, che mi fecero fare dei concerti a Palermo, quella fu la mia prima uscita ufficiale, suonavo il piano da nemmeno un anno e si trattò di un’emozione davvero molto forte. In seguito ho scritto nuovi brani e nel secondo disco ho cercato di dare qualcosa in più, collaborando con una valida etichetta, la Lizard. In questa occasione ho ricevuto tantissimi riscontri positivi, al punto da essere scelto per suonare alla Royal Albert Hall. Questo ha sicuramente rappresentato un punto di svolta per me, mi ha fatto capire di volerci provare fino in fondo. Ho iniziato questo viaggio insieme ad un giornalista e mio caro amico, Alessandro Savoia, che mi fa da manager e mi supporta. Con il secondo disco ho iniziato a pensare in grande, l’ho inviato a tutti e pian piano sono riuscito ad inserirmi nel roster della Tourpartout, l’agenzia di booking che lavora con artisti che fanno il mio genere musicale. Quando poi sono riuscito ad ottenere il contratto con Felix, l’agente dei miei artisti preferiti e del mio gruppo preferito, ho pensato di stare al centro di un sogno. A partire dal quel momento, ho cominciato a pensare al nuovo disco, volevo fare qualcosa di completamente differente dagli altri due.
Dove e come nasce “The Secret of the Sea”?
Per questo disco avevo in testa i retaggi sonori dei Sigur Rós e la voglia di creare una musica eterea, fino a quando non ho trovato degli strumenti in grado di riprodurre queste sonorità, il delay e il riverbero, che mi hanno dato il suono che volevo. “The Secret of the Sea” è il disco più luminoso dei tre e il cardine principale è sempre la speranza. Il titolo nasce da un legame molto forte che ho con Napoli. Quando mi dicono di andarmene, io dico di no, non me ne voglio andare, io amo troppo questa città! Quando scendo in bici, in 10 minuti sono al mare e penso che questo sia impagabile. Il mare mi dà un’idea di libertà e non posso stare senza. Spesso ci vado anche alle 22.30 di sera, mi piace stare di fronte al mare, mi fa sentire pieno… se ci pensiamo il mare è qualcosa che sta sulla terra ma è la cosa meno umana che ci sia.
L’immagine delle onde che fanno l’amore con la luna è quanto di più sensuale possa esserci in questo album… come sei riuscito a trovare l’ispirazione per trasformare tutto questo in note?
Ho sempre pensato che una delle cose più belle sia l’influenza della luna sul mare e sulle maree… Questi elementi si attirano a vicenda e, in questo senso, stanno insieme, creando un tutt’uno, soltanto noi esseri umani siamo fuori posto. Quando penso alle stelle, alla luna, al sole non posso fare a meno di chiedermi il perché dei loro movimenti e ne resto affascinato. Nei miei lavori parlo soprattutto di luoghi: “Il pozzo d’amor” rispecchia un mio triste momento amoroso, un pozzo vuoto da colmare, “La casa sulla luna” è un altro luogo – non luogo, una casa per continuare a sognare, dove pensare a me e a quello che c’è sulla terra. In “The Secret of the Sea” c’è un ritorno sulla terra, anche se non ancora definitivo, si tratta di un tentativo di avvicinamento…
E la copertina del disco?
Devo ringraziare Luca Scognamiglio che, ogni volta, realizza delle copertine- capolavoro. La foto è stata scattata ad Sant’Angelo d’Ischia, dove c’è un mare bellissimo. L’ombrello che ho in mano rappresenta sia una protezione che una possibile scappatoia, oltre che un enigmatico gioco vedo-non vedo.
Come hai pensato ai complessi titoli delle tue composizioni?
Prima compongo i brani e poi penso a come titolarli. In questo caso ci sono due brani che sono molto legati alla letteratura: il primo è “Les nuits blanches”, ispirato all’omonimo libro di Dostoevskij, l’altro è “Plasson” che si rifà a “Oceano Mare” il libro di Alessandro Baricco. Plasson è un pittore che prova a dipingere il mare usando esclusivamente acqua marina e finisce per raffigurare vedute oceaniche su tele che restano ostinatamente bianche. Poi c’è “You and me”, un dialogo tra me e il mare, “The Man Who Chosed The Sea” un brano che finisce in dissolvenza, un never ending, un sogno inafferrabile. “Hidden lights through smoky clouds” è il frutto della scelta di un mio caro amico, Domenico, che, in ogni mio lavoro, ha il compito di scegliere il nome di un brano. La composizione che sento più mia è “If only my heart were wide like the Sea”: il brano dura un minuto e 58 secondi eppure credo che, in un così breve tempo, esso riesca a racchiudere tutto quello che volevo dire. Il momento più intimo arriva con “Constellations”, un’ apertura tra cielo e stelle. Poi ci sono brani un pò più cupi sul finale come “The boy and the whale”, in cui ho sentito l’esigenza di inserire il suono selvaggio delle onde uggiose del mare di Mergellina. La title track “The Secret of the Sea” è un brano inquieto, il segreto del mare forse sono io stesso, un essere umano e il mare che trovano un punto di connessione…
Che rapporto c’è, secondo te, tra la luce e il mare?
Quando vado vicino al mare mi sento completo, tutti dovrebbero poter aver dei momenti in cui rimanere da soli con se stessi…Penso che ci si possa fidare del mare ma la luce la si può trovare lo stesso dentro di sé.
Bruno Bavota
Continua ancora il percorso parallelo con gli Adaily Song?
In realtà sono molto preso dal mio progetto personale ma è anche vero che purtroppo non vedo un futuro per la musica italiana! C’è una lotta continua per cercare serate, per provare a suonare,i gestori dei locali non pagano o non vogliono pagare. Per questi ed altri motivi sto provando ad esportare la mia musica… Con Psychonavigation, un’etichetta discografica irlandese, ho scoperto che esiste tutto un mondo legato al mio genere musicale, ci sono etichette che lavorano ancora con le redazioni, io e Keith Downey ci sentiamo tutti i giorni via mail, insieme lavoriamo a questo sogno e mi sento molto coccolato…sì, è proprio un altro mondo!
Quali sono gli altri tuoi contatti più importanti all’estero?
Dopo l’esibizione alla Royal Albert Hall di Londra, ho ricevuto il Premio Speciale Cultura Albatros 2013, poi partecipai all’edizione di Piano City Milano e cominciai a contattare gli agenti degli artisti che mi piacevano… Fui vicino a concretizzare l’apertura dei live di Olafur Arnalds ma i tempi erano troppo stretti, nel frattempo sono entrato in contatto con Felix, che ora è il mio agente. Certo, ci è voluto un po’ ma l’ho aggiornato costantemente delle cose che facevo fino a quando, lo scorso ottobre, egli mi scrisse una mail in cui mi diceva di voler essere il mio agente, quella notte non chiusi occhio per la gioia!
Non rimane che augurarti in bocca al lupo!
Crepi il lupo! Vi aspetto il 29 aprile alla Libreria del Cinema a Roma!
Alessandro Errico è un cantautore comparso sulle scene della musica italiana a metà degli anni ’90. Dopo uno sfolgorante inizio di carriera, Alessandro decise improvvisamente di lasciare il palcoscenico per ritrovare una dimensione di equilibrio, necessario per assimilare e comprendere se stesso e le proprie necessità personali e artistiche. Nel corso del tempo Alessandro si è dedicato a svariati progetti e, a distanza di tanti anni, ha deciso di tornare sulle scene a modo suo e con i suoi tempi. Scopriamo come, in questa intervista che l’artista ci ha gentilmente concesso.
Alessandro, il tuo percorso artistico nasce nel 1995 e ha attraversato una serie di fasi molto diverse tra loro… come si è evoluta la tua ricerca musicale nel tempo?
Proverò a raccontare 15 anni della mia storia facendolo a grandi linee. Ho pubblicato due dischi nel 1996 e nel 1997 ottenendo un discreto successo. A quei tempi avevo 19 anni e, probabilmente, ad un certo punto ho spezzato un po’ la corda; ho sentito l’esigenza di prendermi il mio tempo e fare un percorso diverso per ricominciare a crescere. Il successo a volte ti toglie la possibilità di seguire i tuoi tempi, io ero un ragazzino iscritto al primo anno dell’università, volevo capire quello che mi succedeva intorno. Ho fatto una serie di , anche non lontane dalla musica, ho realizzato un progetto discografico prodotto da Gianni Maroccolo, ho lavorato con Edoardo Sanguineti dedicandomi ad un genere più di nicchia. Questo disco rappresenta, quindi, una sintesi tra quello che facevo un tempo e quello che ho fatto in tempi più recenti. Con il singolo “Il mio paese mi fa mobbing” sono partito da una musica molto popolare per arrivare ad un tipo di ricerca avanguardistica.
Alessandro Errico
Quali sono la storia, la genesi e gli obiettivi del brano “Il mio paese mi fa mobbing?
Si tratta di una lettera. Ho pescato nella tradizione epistolare, il mio referente è un presidente a cui racconto come vivo il mio paese e quello che il mio paese mi fa. Questa è l’unica canzone che ho scritto di getto in vita mia ed è effettivamente uno sfogo rielaborato perché, in fin dei conti, la forza di una canzone è riuscire ad essere il più possibile universale. Ho cercato di raccontare non solo quello che ho vissuto durante la mia esperienza di 15 anni da precario ma ho anche voluto raccontare cosa significa vivere in un paese come il nostro, in chiave ironica. Odio la polemica sterile del muro contro muro, dell’uno contro uno. Credo che un artista vada valutato non solo per le sue canzoni ma anche per la sua coerenza, nonché per la capacità di raccontare qualcosa senza entrare nei meccanismi della polemica sterile.
“La guerra si combatte tutti i giorni e tutti i giorni si muore un po’”?
Il riferimento principale di questa frase è “Le Déserteur”, una canzone pacifista di Boris Vian, cantata anche da Fossati con una traduzione bellissima. Il personaggio principale del brano non vuole andare in guerra, è un disertore che non ha armi e non sa sparare. Io ho riletto questa canzone in maniera tagliente, il mio paese mi ha portato a dire “Maledizione, io armi non ne ho”. Questo paese è quello che ti porta a dire che sei in guerra, una guerra diversa dal disertore di Vian, una guerra non convenzionale come può essere quella del mobbing, qualcosa che in molti hanno sperimentato sulla propria pelle sottoforma di un continuo e lento disgregarsi dell’anima e della mente, a causa di fattori esterni che non sono ben identificabili.
Ci racconti la tua esperienza di #sanremoperforza?
Il retroscena è molto situazionista. L’idea era quella di fare riferimento alle scelte dei selezionatori del Festival con canzoni che parlavano solo di sentimenti. In un periodo così drammatico per il paese, fare un festival in chiave intimista non è il massimo della coerenza ma, onde evitare la solita polemica pre-sanremese, mi sono chiesto come avrei potuto fare per raccontare un’altra realtà e mi sono inserito subdolamente con finti scoop e finte pagine di giornale ed è stato un divertente corto circuito tra finzione e realtà …Tutti mi chiamavano per chiedermi perché non mi fossi esibito sul palco ed è stato stranissimo! Alla fine, attraverso questo gioco, io ed il mio staff siamo riusciti a parlare di lavoro e di crisi in un contesto che non dovrebbe essere una zona franca.
A cosa stai lavorando adesso? Ci sono nuovo brani pronti per l’album? Che prospettive hai?
In realtà non sono convinto che l’album implichi il fine di un progetto. Sento che quello sia un po’ uno schema, un paradigma che nasceva qualche anno fa, quando ancora esistevano i cd. Per quanto mi riguarda è già uscita una canzone qualche mese fa, molto diversa da “Il mio paese mi fa mobbing”, s’intitola “Mai e poi mai”. Dopo 15 anni di assenza vorrei portare avanti un discorso un po’ più a lungo termine ed entrare in un circuito diverso da quello classico.
E per quanto riguarda la dimensione live?
Sto preparando qualcosa di molto speciale che annuncerò sui miei canali… sto cercando di capire come fare per portare questa lettera al suo legittimo destinatario!
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Alessandro Errico e Alessandra Placidi per la disponibilità
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