Brunori Sas presenta “A casa tutto bene”: canzoni che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti

copertina-album-A-Casa-Tutto-Bene-Brunori-Sas

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A casa tutto bene” (Picicca Dischi) è il nuovo album di Dario Brunori, in arte Brunori Sas. Dopo averlo lasciato sul palco del Teatro dal Verme in occasione dello spettacolo Brunori Srl, lo ritroviamo oggi con un disco che lascia da parte l’ironia per porci alcune fondamentali domande. Registrato nella casa padronale di una vecchia masseria del 1100 con il brillante contributo di Taketo Gohara, “A casa tutto bene” è un album musicalmente complesso e stratificato. Flussi e richiami della Calabria s’intersecano con i sintetizzatori e le tessiture sonore della metropoli meneghina. Il risultato di questi innesti è un sapiente equilibrio tra mondi vicini e lontani al contempo. Il disco si apre con “La verità”: “Te ne sei accorto sì che parti per scalare le montagne e poi ti fermi al primo ristorante e non ci pensi più” – canta Brunori – prendendosi la responsabilità di mettere nero su bianco che “il dolore serve proprio come serve la felicità” e che “La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire, l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire”. Uno dei brani fondamentali del disco è “L’uomo nero” in cui viene messa in risalto la mentalità ottusa e  ipocrita che ci circonda. Dario si sporca le mani e si mette in mezzo: “In fondo tutto bene mi basta solo non fare figli e invece no”. Esorcizzante e spiazzante allo stesso tempo è “Canzone contro la paura”: “In mezzo a tutto questo dolore e a questo stupido rumore sarà una stupida canzone a ricordarti chi sei”. Abituato a percorrere la tratta interessata, in “Lamezia-Milano” Brunori canta la differenza tra la vita reale e la vita cellulare. Le domande senza risposta si susseguono a piè sospinto anche in “Colpo di pistola”: “forse quel che ho non è abbastanza, l’amore è un colpo di pistola, un pugno sulla schiena, uno schiaffo per cena”; l’autoanalisi di un assassino. Bauman ci ha lasciati da pochissimo ma alcuni dei suoi concetti vengono ripresi nel testo de “La vita liquida” tra sonorità western. L’intensità travolgente dell’apparato strumentale di “Diego e io”, l’unico pezzo con il pianoforte e gli archi, in cui Brunori ha coinvolto anche Antonio Dimartino, racchiude il picco sonoro  dell’album. Citazionista e di impatto immediato il testo di “Sabato bestiale”: “stasera sei cascato male con la tua barba da intellettuale, perché io sono un animale e non sarai certo tu a farmi la morale. Lo sai anche tu siamo figli delle stelle e della tv”. Brunori punta a metterci dritti con le spalle al muro in “Don Abbondio”: nel silenzio, nell’assenza, nei funerali della nostra coscienza, Don Abbondio sono io con lo sguardo che si poggia sempre altrove. Disilluso sì ma non fino in fondo, Brunori Sas aggiusta il tiro ne “Il costume da Torero”: “non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me”. La realtà è una merda ma non finisce qua”. In “Secondo me” Dario Brunori prova a rispondere ad altre canzoni che ci sono nel disco descrivendo una condizione di continua discussione interiore. Il disco si chiude con “La vita pensata”: “l’ho capito finalmente che del mondo non ci ho capito niente” e poi, ancora,”la vita è una catena che chiudi a chiave tu”.  L’esame di coscienza finisce così con poche certezze, tante domande e l’intelligenza di essere stato capace di farsele e farcele.

Video: La verità

Intervista

Qual è il punto di partenza del disco?

L’album è nato in un periodo particolare. Avevo appena concluso l’esperienza di Brunori Srl, lo spettacolo con cui avevo ironicamente giocato con la mia forma giuridica per parlare del tema della responsabilità. Una sorta di teatro-canzone in cui ho trattato temi che in genere non tocco nelle mie canzoni grazie alla presenza dei monologhi. Quello spettacolo ha rappresentato la spinta a scrivere altro, a dosare l’ironia, a ragionare sulla mia disillusione rispetto al mio concetto di umanità. Lo svolgimento della scaletta  del disco mette in risalto l’amarezza. Le canzoni seguono un percorso mentale, quando ho cominciato a scriverle sapevo bene cosa non volevo fare…

Affronti in modo diretto argomenti spigolosi

Il percorso è stato difficoltoso, spesso in forma di dialogo fra parti di me. Rispetto alle mie canzoni precedenti non c’è per forza un lieto fine, ho toccato molte volte un terreno scivoloso e pieno di insidie. Quello che mi ha dato coraggio è stata la voglia di affrontare le paure. Questo è un disco serio, ho parlato dell’amarezza che mi ha scosso mettendomi nel mezzo cercando di rappresentare quella stessa condizione che ci accomuna: siamo tutti d’accordo nel dire che bisogna fare qualcosa ma alla fine guardiamo sempre altrove.

“L’uomo nero” è la canzone più politica della tua carriera?

Questo per me è IL pezzo. In questo testo c’è un pensiero che ho fatto realmente pur trattando un argomento molto attuale. L’obiettivo era mettere in evidenza una naturale amarezza. La radice sta in “Povera patria” di Battiato, a questo bisogna aggiungere il sentimento di chi in genere tende a stare a casa a guardare le cose in modo mediato. In questa canzone cerco di dipingere l’attrito tra le mie idee e quello che sono realmente. Questo è il fulcro del brano e, più in generale del disco: una messa in discussione della propria comfort zone.

Da dove arriva “Lamezia – Milano”?

Questo è l’episodio più divertente del disco. Il brano nasce da uno spaesamento di uno come me afflitto da una pigrizia incredibile ma che non riesce ad appendere le pantofole al chiodo. Percorro molto spesso questa tratta, il brano mi forniva un legame con le altre canzoni. Il classico pezzo pop che renderò ballabile nei live, si tratta di un pezzo di respiro con l’attenzione ferma al mood del disco. Ecco, sono stato molto attento a non scivolar via e a non lasciare la pesantezza.

E cosa pensi di Milano?

Mi ci sono trovato molto bene negli ultimi tempi. Ho messo da parte molti pregiudizi. Il mio lavoro mi consente di vedere i lati più stimolanti di questa città. Sicuramente non ci vivrei sempre perché ho anche bisogno del mio paese dove ho la possibilità di dedicare molto tempo a me stesso

Raccontaci degli arrangiamenti del disco

La band con cui ho lavorato è la stessa fin da Volume 2. L’idea per questo album era rompere lo schema della sala prove. Ho lavorato singolarmente con ciascun musicista a casa mia in modo che ciascuno potesse dare il proprio contributo su un’idea di base preparata da me.  A questo va aggiunto il fondamentale contributo di Taketo Gohara che ha dato un’impronta al disco e che lo porta fuori dall’Italia. Io tendo ad essere molto italiano nelle cose che faccio,  Taketo invece è anche capace di vedere le canzoni in un modo che non suona italiano e che rimanda a dischi che in questi anni ho apprezzato di artisti non italiani; era giusto che facessi i conti con questo confronto con altre realtà, qui mi emancipo e trovo una mia cifra personale. Le canzoni vanno dritte mentre intorno ci sono suoni eterei, fatti di colori. Abbiamo preso ispirazione anche da cose molto lontane e le abbiamo portate dentro questo progetto.

Quanto c’è di te in veste di produttore in questo album?

Il principio è che se deleghi, devi delegare. Io delego ma sono sempre lì, mi piace mettermici dentro. Prima di essere cantautore, nasco produttore. Ero dall’altra parte della barricata e in più quando ho una cosa in testa devo portarla avanti fino in fondo. Anche i momenti di attrito hanno portato a questo risultato, penso debba esserci una dialettica necessaria tra le parti, non sono molto tecnico ma so quando una canzone mi emoziona e riesco a capire a livello sonoro cosa non mi sta nella direzione che voglio. In questo disco mi interessava fare emergere il fatto che sono un musicista e che lavoro con musicisti.

Dario Brunori

Dario Brunori

Anche la location della registrazione è particolare…

L’idea della masseria è stata funzionale alla creazione di un’atmosfera concentrata. Desideravo stare lì, vivere lì per 15 giorni in un posto isolato di campagna perché anche i momenti di noia potevano essere importanti per l’ispirazione, era importante che fossimo sempre lì per catturare il momento. Per questo motivo, per quanto riguarda l’aspetto produttivo di questo album non ho rimorsi e non ho rimpianti.

Nel brano “Diego e io” hai convolto Antonio Di Martino. Perché?

Questo brano si tira fuori dal disco segnando la fine del primo tempo e l’inizio del secondo.  Il testo nasce da una suggestione seguente alla visione di un documentario dedicato a Frida Kahlo e, dato che Antonio ha appena pubblicato un album e un libro insieme a Fabrizio Cammarata dedicato alle canzoni di Chavela Vargas, dopo aver trascorso un lungo periodo in Messico, ho pensato che potesse restituire in forma di canzone qualcosa di inerente al reale e non ad una visione mediata. A questo aggiungo che Antonio è uno dei migliori autori italiani per cui lavorarci mi ha reso felice.

Che rapporto hai con l’infanzia e in che modo questo tema emerge nel testo de “Il costume da torero”?

Il brano riassume in modo giocoso il senso del disco. In me la parte che tende alla disillusione convive con un’altra che emerge in maniera sempre molto viva. In effetti bisogna uccidere le proprie illusioni per poterne creare di nuove. Se non ci fossero illusioni e speranze non si scriverebbero canzoni. “La realtà è una merda ma non finisce qua”.

Cos’ hai in serbo per il tour?

L’impresa sarà riuscire a portare dal vivo un disco molto stratificato. Ci sono decine e decine di tracce. La cosa interessante sarà riproporre il mood del disco, voglio che questa energia rimanga, mi piacerebbe che il live non fosse troppo cerebrale però metterò molta attenzione alla connessione dei suoni con la scelta della strumentazione. Ai balletti ci sto ancora lavorando (ride ndr).

Come hai lavorato allo script del video de “La verità”?

Lì si è trattato di un gioco. Non volevo un playback, volevo che ci fosse una storia. Dopo aver superato il pregiudizio nei confronti delle serie tv, ho messo in evidenza i concetti di morte delle illusioni e di amarezza generata dalla sconfitta. Il lavoro fatto con Giacomo Triglia è veramente notevole. Mi pare quasi più bello il video che la canzone stessa, mal che vada posso fare lo sceneggiatore (ride ndr). Scherzi a parte, mi stimola l’idea di comunicare cose che a volte non riesco a comunicare per niente. Confrontarmi con diversi strumenti di comunicazione mi dà la possibilità di non precludermi niente.

Raffaella Sbrescia

A CASA TUTTO BENE TOUR 2017

24.02 - UDINE - Palacongressi
25.02 - BOLOGNA - Estragon
02.03 - MILANO - Alcatraz
03.03 - TREVISO - New Age
09.03 - TORINO - Teatro della Concordia
16.03 - CESENA - Teatro Verdi
17.03 - FIRENZE - Obihall
18.03 - NAPOLI - Casa della Musica
24.03 - GROTTAMMARE (AP) - Container
25.03 - PERUGIA - Afterlife
31.03 - BARI - Demodè
01.04 - ROMA - Atlantico
06.04 - PALERMO - Teatro santa Cecilia
08.04 - CATANIA - Ma
24.04 - GENOVA - Supernova Festival

Info e prevendite: www.brunorisas.it

Ascolta qui l’album:

Demonology HiFi: arriva “Inner Vox”. Recensione e intervista ai predicatori del groove

cover Inner Vox

cover Inner Vox

Dopo due anni di intensa predicazione sulle console dei maggiori club italiani, Max Casacci (Massimiliano Casacci) e Ninja (Enrico Matta) presentano “Inner Vox” (in uscita il 20 gennaio per Sony Music) il primo capitolo discografico del nuovo progetto, Demonology HiFi, che mescola in provetta generi e beat, legando il tutto con un’impronta “afro” e ipnotica, a suggerire la relazione rituale tra danza e purificazione. In un crescendo trascinante e caleidoscopico di pulsazioni a bassa frequenza e ritmi sincopati, i due musicisti produttori hanno posto le basi per un gioioso rituale lavorando sui brani e sulle strutture con cura e ammirevole perizia. Ad arricchire il progetto ci sono numerosi ospiti scelti scelti tra i più interessanti esponenti della nuova scena musicale: Cosmo, Birthh, Niagara e Populous, senza dimenticare un veterano come Bunna degli Africa Unite.

La traccia di apertura è proprio “On the sidewalks of my soul” (feat. Bunna): resistance and dignity sono i cardini lungo i quali si sviluppa il dualismo che attraversa la nervatura principale dell’album. Il flow ipnotico di “Random Gargoyle” precede il ballo incespicante di “False step”. “Fino al giorno in cui” è il brano sperimentale di Cosmo, tra i più apprezzati talenti della nuova scena musicale italiana. Nella traccia emergono sentimenti e visioni in un flusso di intuizioni libere e disincantate. “Neverending” propone, invece, un featuring con i torinesi Niagara tra suggestioni africane, ritmiche footwork e psichedelia elettronica. Il viaggio prosegue con l’avventura vudù di “Totem” e l’esperimento di destrutturazione di genere quale è Line, in collaborazione con la 19enne fiorentina Birthh. La parabola di questo Vangelo danzante è racchiusa in “Realismo magico”, un brano veramente unico, figlio di un incastro perfetto tra le idee sonore di Popolous e dei nostri predicatori. “Club puritate” è il brano con cui guarire i peccatori dalle tentazioni della EDM mentre l’esilarante sadismo de “I miei nemici” feat. Radio Maria mette in luce i tratti più violenti del Salmo numero 18 dell’Antico Testamento: “e ho distrutto quelli che mi odiavano”. Il rito si chiude sulle note ronzanti di “Funeral Party”; il trionfo dei nativi del groove.

Intervista

Da dove nasce “Inner Vox” e perché avete scelto questo titolo?

Il progetto ha avuto origine due anni fa e nasce dalla nostra esperienza in consolle nei club. Abbiamo unito la bass music a proposte provocatoriamente provenienti da altri ambiti. Abbiamo lasciato confluire in un unico contesto sonoro suggestioni diverse avvalendoci di una costante verifica del flusso narrativo attraverso la reazione del pubblico sul dance floor. Man mano che questo gioco si faceva più sistematico, abbiamo cominciato ad integrare dei beats e a creare delle strutture ritmiche più complesse. Questa nostra attività artistica è scissa da quella connessa ai Subsonica, abbiamo creato un ambito narrativo con giacche, crocifissi e led cinesi, ci siamo messi a giocare a redimere i peccatori, abbiamo provato ad unire la fisicità del dancefloor con degli input spirituali per cui ci sono anche temi che vanno oltre il gioco. C’è un elemento che collega Demonology Hifi ai Subsonica: la pulsazione, il ritmo, la musica che suscita un coinvolgimento fisico. Se prima la tessitura ritmica doveva essere racchiusa all’interno della forma canzone e costretta all’interno di linee melodiche preesistenti qui, invece, rappresenta l’elemento di partenza.

Cosa racchiude la scelta di questo titolo?

“Inner Vox” identifica il percorso tematico e narrativo del disco. La voce è quella della coscienza, ci sono anche ronzii di insetti processati nell’autotune all’interno di un simbolismo collettivo. Più nello specifico abbiamo dato potenza alla pulsazione e al ritmo rifacendoci alla musica “bass” che si distacca dalla cassa in quattro. La nostra idea era quella di non rifarci a suoni già prestabiliti, abbiamo cercato di creare un suono riconoscibile ma non riconducibile a qualcosa di già noto.

Demonology HiFi ph Emanuele Basile

Demonology HiFi ph Emanuele Basile

Cosa ci dite degli ospiti presenti nel disco?

Non ci sono nomi sensazionali o accostamenti iperbolici. Ci siamo riferiti ad una nuova generazione di musicisti italiani. Stiamo vivendo una fase molto interessante contraddistinta da un approccio alla musica oltreconfine senza legami con alcun tipo di territorialità specifica. Il primo esempio che facciamo è quello di Birthh, una diciannovenne fiorentina, il secondo è quello dei Niagara. Parliamo di artisti giovani che si sono integrati all’interno di uno scenario internazionale e che non si sentono intrepreti di serie B come magari poteva accadere in passato. Si tratta di italiani di nascita capaci di veicolare caratteristiche melodiche peculiari e di rapportarsi con la scena internazionale. Populous non è un cantante ma ha comunque dato un’impronta molto particolare al brano che lo riguarda. Bunna degli Africa Unite conferma la grande influenza africana riflessa in questo disco.

E Cosmo?

Lui è arrivato alla fine del percorso. Inizialmente il suo brano faceva da base ad un documentario della BBC ma, visto che ci sarebbero stati problemi sicuramente dei legati ai diritti, abbiamo deciso di coinvolgere un cantante. Alla luce del fatto che il 2016 è stato un anno molto interessante in tutti gli ambiti della musica italiana, Cosmo in particolare ha rappresentato il tipo di musicista in grado di arrivare alla radio dopo aver creato un rapporto radicato con il pubblico. Abbiamo scelto lui per amicizia e per conoscenza grazie alla vicinanza territoriale. Inizialmente l’album nasceva in inglese poi Cosmo ha proposto l’italiano e noi ovviamente l’abbiamo lasciato libero di fare esattamente quello che voleva. Quando i discografici l’hanno scelto come singolo, siamo rimasti sorpresi, il nostro intento non è scalare la classifica anche se la storia ci insegna che in casi come questi non sono mancate le sorprese.

Qual è la reale vocazione di questo album?

Il disco è ispirato dal dancefloor. In questi anni di sperimentazione abbiamo avuto la possibilità di fare dei test direttamente in consolle. Se sgarri un bpm o se un pezzo è più fiacco lo vedi subito. C’è un rapporto molto appassionante tra la musica che stai scegliendo o producendo e quello che essa che suscita in pista. In due anni abbiamo testato le frequenze basse attraverso minuziose verifiche ai missaggi ed una lunga fase di studio che ci ha portato a questo risultato finale.

Quali influenze fanno capolino nelle tracce che compongono la tracklist?

Si tratta principalmente di musica di derivazione black senza la classica interpretazione letterale di singoli generi. Nei live continueremo a mescolare le nostre tracce con quelle di altri, abbiamo scelto di non sottostare alla rigidità, usiamo qualche suggestione purchè sia funzionale ed inserita in un percorso da dj. Quello che vorremmo creare è un flusso sonoro consistente che permetta alla pista di fare un viaggio nella musica da ballare senza alcuna specifica di genere.

Una nota di specifica relativa ai tempi dispari…

Già coi Subsonica abbiamo cercato e trovato la via per renderli fruibili. Pensiamo a “Disco labirinto”, “Nuvole rapide”, “Una nave in una foresta”. Se la programmazione del timbro è fluida, la disparità del tempo non viene recepita come ostacolo. In questo disco abbiamo schiacciato ancora di più il piede sull’acceleratore e anche nei dj set la pista non si ferma anzi, funziona tutto bene.

Demonology HiFi - Max Casacci - Enrico Matta

Demonology HiFi – Max Casacci – Enrico Matta

Il brano più curioso è “Realismo magico”. Ci raccontate come è stato realizzato?

Populous l’abbiamo conosciuto a Bari e man mano che il brano veniva fuori accarezzavamo sempre più l’idea di coinvolgerlo. Quando inizialmente ci ha proposto una cumbia eravamo un po’ scettici, poi ho messo mano al balaphone africano e, grazie alle intuizioni di Ninja, il brano è diventato molto surreale, una cavalcata drum and bass. Di solito l’interscambio di file è una soluzione sterile ma in questo caso lavorare a distanza su suggestioni diverse ha dato vita a qualcosa che non ci sarebbe mai potuta essere in tempo reale. Il titolo l’ha proposto Populous e si ispira ad una corrente letterario-pittorica di inizio ‘900 radicata in centro America.

E “I miei nemici?

Già da qualche tempo usavamo anche un po’ per gioco le voci dei predicatori con l’intento di invitare chi ci ascoltava a spurgare l’anima attraverso la musica. Una mattina eravamo sintonizzati su Radio Maria e ci siamo imbattuti nella voce di un predicatore dall’accento apolide mentre recitava il salmo 18, uno dei più violenti dell’Antico Testamento. In quel momento stavamo lavorando ad un brano di suggestione metal e ci sembrava perfetto questo gioco di abbinamenti. Il tutto è stato abbastanza semplice, la voce si poggiava perfettamente sulla base, abbiamo solo scelto le frasi più significative e creato il pezzo.

Perché avete scelto di pubblicare un disco fisico?

Siamo ragazzi del ‘900 (ridono ndr) e crediamo che il progetto in forma liquida avrebbe perso credibilità dal punto di vista narrativo. Il disco è un supporto necessario, tutti i pezzi sono uniti dall’idea di dialogo interiore, si esprimono in modo tattile e poi il supporto fisico ci serviva anche per non cedere alla tentazione di aggiungere nuove suggestioni e a darci una tempistica necessaria senza dimenticare il valore del confronto tra la prima e l’ultima traccia. Qui più che di collezione si parla di percorso. Abbiamo ritenuto giusto fotografare quello che c’era da dire in un determinato momento, in caso contrario sarebbe mancata l’idea di concetto unitario; forse questa è un’eredità culturale che per noi è essenziale.

Tanta cura per i dettagli in questo album…

Sì, abbiamo impiegato molto tempo anche a mixarlo. I missaggi venivano testati di volta in volta dal vivo e questo per noi ha rappresentato un grande vantaggio. Per il mastering del disco abbiamo scelto Beau Thomas; alla fine di una lunga e minuziosa selezione abbiamo capito che era colui che faceva al caso del nostro suono

Che tipo di riscontro avrà “Inner Vox” dal vivo?

I ragazzi riescono a trovare una fonte di divertimento in questo gioco di innesti. Sicuramente continueremo con i dj set con la progressiva aggiunta di strumenti ritmici e corde. Il primo pubblico che s’interfaccerà con il disco sarà un pubblico rock onnivoro, siamo in una fase in cui non ci sono più confini, fino agli anni ’90 la musica era un fenomeno religioso poi con gli anni zero e l’avvento della shuffle generation l’apertura mentale ha scardinato muri e limiti. Da direttore di Festival penso anche che potremmo essere invitati a chiudere le serate di qualche festival rock.

 Raffaella Sbrescia

Video: Totem

TRACKLIST

01 ON THE SIDEWALKS OF MY SOUL (feat. BUNNA)

02 RANDOM GARGOYLE

03 FALSE STEP

04 FINO AL GIORNO IN CUI (feat. COSMO)

05 NEVERENDING (feat. NIAGARA

06 TOTEM

07 LINE (feat. BIRTHH)

08 REALISMO MÁGICO (feat. POPULOUS)

09 CLUB PURITATE

10 I MIEI NEMICI (feat. RADIO MARIA)

11 FUNERAL PARTY

http://demonologyhifi.it - https://www.facebook.com/DemonologyHiFi/ - DemonologyHiFiVEVO

I Baustelle presentano “L’amore e la violenza”: intervista e recensione dell’album

L'amore e la violenza -Cover album

L’amore e la violenza -Cover album

Disinibiti, liberi e maturi i Baustelle ritornano in scena con il settimo album in studio intitolato “L’amore e la violenza”. Prodotto artisticamente da Francesco Bianconi e mixato da Pino “Pinaxa” Pischetola, il disco è composto da dodici brani – dieci canzoni e due brani strumentali che mettono in evidenza un glorioso azzardo melodico e armonico con una particolare attenzione al suono. I Baustelle usano una dolcezza amara dal timbro antico per cantare una vita in guerra lontano dalle vere trincee, un amarcord senza satira né melodramma. Dopo l’intro strumentale di “Love”, si entra nel vivo del discorso con “Il Vangelo di Giovanni”: io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera, resta poco tempo per capire il senso dell’amore, l’idiozia di questi anni, la mia vera identità”. Meglio sparire nel mistero del colore delle cose quando il sole se ne va. Segue il primo fortunatissimo singolo estratto dal disco “Amanda Lear”: niente dura per sempre neanche la musica. Lo zibaldone del disco è “Eurofestival”, un brano giocosamente esistenzialista che non lascia nulla al caso. Inneggia alle grandi hit Made in Italy e a Viola Valentino “La musica sinfonica”: vivere è rimanere giovani nel cielo con le rondini in terra in mezzo agli uomini. “Io non sono mai stato così schiavo del mondo e attaccato alla vita” cantano i Baustelle in “Lepidoptera” ma è nel brano “La vita” che emerge la fragilità, l’inutilità e la bellezza della vita. Pensare che la vita sia una sciocchezza aiuta a vivere. Molto intenso il brano che chiude il disco, intitolato “Ragazzina”, in cui i Baustelle affrontano il tema dell’adolescenza descrivendo la protagonista come una Biancaneve tra milioni di maiali e la incitano a combattere in questa grotta al freddo e al gelo tra Gesù Bambino e l’uomo nero: “Certe volte l’esistenza si rivela come violenza intorno a me”, scrive Bianconi, e così come si aperto all’insegna dell’amore, così il cerchio si chiude con il tema contrapposto per una struttura organica e completa.

Intervista a Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi

 Cosa è racchiuso nel titolo del disco?

Tutto nasce da questo titolo. In genere scriviamo prima la musica e poi passiamo ai dischi. Da un paio di album a questa parte mi trovo invece di fronte a 18 caselle da riempire. Visto che mi capita di bloccarmi, lo stratagemma è quello di darmi dei temi cercando di svolgerli. Il tema di questo disco è osservare il mondo e rendersi conto di essere in guerra, una guerra di tipo diverso da quella a cui siamo abituati, una guerra che entra nel privato, nel nostro intimo.

Quale potrebbe essere il valore aggiunto dato da questo modo di scrivere?

Non so se si tratti di un valore aggiunto, sicuramente è un modo non giornalistico di raccontare il mondo. Descriviamo la contemporaneità attraverso un’ottica per forza di cose distorta, in un certo senso privata. C’è un filtro molto soggettivo davvero inevitabile, stavolta ci siamo dati come obiettivo quello di raccontare una cosa completamente pubblica e politica quale è lo stato di cose che l’Occidente sta attraversando in modo soggettivo. Puoi essere descrittivo quanto vuoi ma di fatto siamo noi ed il nostro privato calati in un contesto di guerra. Ecco queste sono canzoni d’amore sotto i bombardamenti.

Quanto c’è di apocalittico in un brano così ricco come “Eurofestival”?

Questo brano si appoggia sul contrasto tra melodia e testo. Non lo troviamo apocalittico, anzi, è molto ironico, quasi sarcastico. Gioca molto sui contrasti, si tratta di una grande fiera delle atrocità, un circo in cui si mischia tutto tra il caos che disorienta e l’idiozia di questi anni.

Molti sono gli spunti offerti da “Il Vangelo di Giovanni”

Dallo stato di cose che viviamo nasce spesso un mio stato d’animo che corrisponde al volermi staccare dal mondo in cui mi trovo, mi ritrovo a non sopportare quello che vedo ma non si tratta di una rinuncia, c’è anche un aspetto positivo nel sentirsi non allineati all’andazzo generale del mondo, la mia vorrebbe essere una nobile sparizione.

In contrasto a questa affermazione viene da pensare ad una frase contenuta in “Lepidoptera”: “Io non sono mai stato così schiavo del mondo e attaccato alla vita”

Questo lo si dice quando si ha paura di morire. Questa è una cosa che mi ha mandato in crisi, forse coincide con il diventare padre. Quando hai un figlio diventi l’animale che difende il cucciolo, non sono un padre giovane ma ho un senso di estremo attaccamento alla vita. A me non è mai fregato un granchè della morte ma mai così come in questo momento ho paura di morire.

Cosa avete racchiuso nei suoni di questo disco? C’è chi li definisce vintage, chi inneggia agli anni ’70…cosa dite voi?

Quando si parla dei Baustelle spesso ricorrono termini come vintage e citazionismo. Noi semplicemente facciamo uso di strumenti di un certo tipo, ci sono tecnologie che sono ancora all’avanguardia. Le nostre canzoni si compongono di melodia, di parole e di suono. Grande importanza riveste il timbro con cui vengono eseguite, certe canzoni diventano un’altra cosa se suonate con altri strumenti. Per noi un moog o un sintetizzatore analogico non è equiparabile al digitale. Nei nostri dischi teniamo alla stratificazione dei suoni, anche nella musica pop i timbri e gli arrangiamenti hanno un’importanza fondamentale. Detto ciò, abbiamo usato tonnellate di sintetizzatori analogici ed il mellotron un primordiale campionatore divenuto popolare tra la fine degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta, organi elettrici, chitarre acustiche e tante tastiere

A giudicare dai testi delle vostre canzoni, avete una considerazione molto alta del vostro pubblico. Questo dato di fatto è motivo di speranza per il futuro?

Ovviamente sappiamo che il pubblico è intelligente. Il mito dell’accessibilità è in realtà il frutto di una nostra paura, di una nostra proiezione. Se abituato a farlo, il pubblico può ascoltare ed apprezzare anche cose pesantissime. A volte il vero caprone è proprio “l’artista” che va sul sicuro per la paura di non vendere abbastanza dischi.

Rachele, quanto ha influito l’esperienza da solista in questo album?

Onestamente non riesco a quantificare la cosa. Per me è stata un’esperienza nuova, mi ha dato più sicurezza, ho lavorato con persone nuove, ho superato qualche vecchia barriera per cui mi ha fatto sicuramente bene.

Il nuovo tour vi vedrà nuovamente protagonisti dei principali teatri italiani. Come mai questa scelta?

Con “Fantasma” ci siamo trovati molto bene nella dimensione teatrale. In questo caso sarà diverso perché il nuovo album sarà costretto ad un ascolto più intimo. Vediamo cosa succederà, sarà una bella sfida!

Uno dei brani più suggestivi e più veritieri del disco è “La vita”

Questo brano dice le cose come stanno, non usiamo grandi giri di parole. Nel testo c’è scritto quello che penso della vita, forse cercarne il senso è sbagliato, forse va presa alla giornata. Quello che dico è: la vita non è inutile ma è tutta estetica, pensala come una cosa bellissima ma che non serve a niente. Quando cominci a pensare che serva a qualcosa, sei fregato”.

Cos’è “L’era dell’Acquario”?

Il brano nasce da due cose: la prima è una corrispondenza con una mia amica che dice: “Stai tranquillo, vedrai adesso che siamo appena entrati nell’era dell’Acquario, tutto migliorerà” e poi da un articolo uscito il giorno successivo all’attentato che c’è stato al Bataclan in cui c’era scritta una cosa verissima e devastante: “Ci si abitua a tutto, anche al terrorismo”. Ecco, l’unico modo per disintegrare il terrorismo è quello di considerarlo come un’abitudine. Il terrorismo è una forma di terrore basata sulla paura e sull’agire di sorpresa senza motivo apparente, la cosa più difficile a cui abituarsi. Questa è quindi una canzone autoconsolatoria, per l’appunto un’altra storia d’amore sotto i bombardamenti.

Baustelle

Baustelle

Cosa ci dite del singolo “Amanda Lear”?

Questa è una canzone cervellotica, lei scrive una lettera a lui che la prende in parola. Un doppio flashback e la similitudine con la struttura di un Lp. Ho scelto di omaggiare Amanda Lear sia per questioni di metrica sia perché lei è il simbolo di un certo tipo di femminilità.

In che modo il contributo di Pischetola ha influito nella resa del disco?

Abbiamo scelto lui per creare un contrasto tra la scelta degli strumenti ed il missaggio. Lui è il suono della musica leggera italiana ed è stato bravo ad affrontare questa sfida in modo stimolante. A lui va il grande merito di aver capito la nostra visione.

E poi c’è “La musica sinfonica”. Un brano che sposa il passato al presente con un omaggio a Viola Valentino

Sì, questo è un rondò veneziano. Siamo lieti di confessare che questo disco maneggia e manipola i nostri amori proibiti. A me, per esempio, i Ricchi e Poveri sono sempre piaciuti molto, erano i miei Abba italiani. In questo album tiriamo fuori le nostre passioni dell’infanzia, cose opposte che si mettono insieme. Gli anni ’80 erano anni in cui la musica leggera era bella e varia in ogni campo, c’erano arrangiamenti interessantissimi e siamo stati felici di poterli omaggiare

E oggi cosa ascoltiamo?

C’è un sistema che porta alla creazione di cose prive di personalità e finalizzate ad un successo più immediato. Se mi mettessi nei panni di un emergente, probabilmente ne capirei le motivazioni ma è triste che questa sia la deriva di questo tempo. In ogni caso c’è ancora molta musica interessante in giro, all’estero in particolar modo, questo è un fatto che ci fa ancora ben sperare.

Raffaella Sbrescia

 Video: Amanda Lear

Di seguito la track list dell’album:

1-Love

2-Il vangelo di Giovanni

3- Amanda Lear

4- Betty

5- Eurofestival

6- Basso e batteria

7- La musica sinfonica

8- Lepidoptera

9- La vita

10- Continental stomp

11- L’era dell’acquario

12- Ragazzina

Da oggi i Baustelle incontreranno i fan negli store delle principali città italiane: Venerdì 13 gennaio  a Milano – Feltrinelli Piazza Piemonte 2 (h.18.30), Sabato 14 gennaio   a       Firenze – Feltrinelli RED Piazza della Repubblica 26 (h.18.00) ; Domenica 15 gennaio a Torino – Feltrinelli Stazione Porta Nuova(h.18.00); Lunedì 16 gennaio a Napoli – Feltrinelli Piazza Martiri (h.18.00) e Martedì 17 gennaio a Roma – Feltrinelli Via Appia Nuova 427 (h.18.00).

Ascolta qui l’allbum:

All’uscita del nuovo album, seguirà un tour che porterà la band ad esibirsi in alcuni dei teatri più prestigiosi d’Italia.

Si parte con la data zero il 26 febbraio a FOLIGNO (Auditorium S. Domenico) per proseguire poi il 4 marzo a VARESE (Teatro Apollonio), il 5 marzo a TRENTO (Auditorium S. Chiara), il 6 marzo a FIRENZE (Teatro dell’Opera), il 13 marzo a ROMA (Auditorium Parco della Musica / Sala S. Cecilia), il 14 marzo a BOLOGNA (EuropAuditorium), il 15 marzo a PESARO (Teatro Rossini), il 20 marzo a MILANO (Teatro degli Arcimboldi), il 28 marzo a VENEZIA (Teatro Goldoni), il 29 marzo a TOLMEZZO (Udine, Teatro Candoni), il 7 aprile a TORINO (Teatro Colosseo), il 12 aprile a GENOVA (Teatro Piazza Delle Feste / Anteprima Supernova), il 13 aprile a MASSA (Teatro Guglielmi), il 18 aprile a BARI (Teatro Petruzzelli), il 19 aprile a PESCARA (Teatro Massimo), il 21 aprile NAPOLI (Teatro Augusteo). Il tour è a cura di Ponderosa Music & Art.

Tiziano Ferro presenta “Il Mestiere della Vita”. Intervista e recensione

Tiziano Ferro - Il Mestiere della Vita

Tiziano Ferro – Il Mestiere della Vita

“Una vita in bilico, un libro epico…. Fine primo capitolo”. Tiziano Ferro va punto e a capo con “Il Mestiere delle Vita” (Universal Music) certificato da FIMI terzo disco di platino, dopo solo quattro settimane dalla pubblicazione. Con questo nuovo album registrato tra Los Angeles e Milano con la produzione di Michele Canova, Ferro si prende il lusso di osare e di contraddirsi. Smarcatosi dalla gelosia per il foglio bianco, Tiziano si è aperto al mondo, si è lasciato ispirare da Los Angeles aprendo le porte a freschezza, vivacità e forza. “Con la serenità per accettare le cose che non riesco a cambiare e il coraggio per cambiare quelle che posso in precario ma sufficiente equilibrio. Lascio che sia, il mestiere della vita”, con queste parole Tiziano Ferro consegna questo album al pubblico che, nel corso degli anni, ha imparato ad amarne la profonda e controversa sensibilità. Oggi ritroviamo un cantautore pronto a rimettersi in gioco, ad emozionarsi e a divertirsi per primo. Dal punto di vista sonoro, l’album è caratterizzato da un ampio uso dell’elettronica e della programmazione ritmica con suoni ottenuti da beats vintage e moderni coadiuvati da sintetizzatori modulari, tanto vocoder e parentesi trap, hip hop. A trainare il disco è stato il singolo “Potremmo ritornare”, una ballata semplice e diretta, per un approccio tradizionale che non rispecchia il mood dell’album. Ci sono momenti più vicini al pop sincopato, altri in cui si gioca più sul downtempo.  Tra i brani più belli del disco segnaliamo “Il conforto”, in duetto con Carmen Consoli, “Solo è solo una parola,” in cui si Tiziano affronta magistralmente il tema della solitudine, e la title-track scritta Alex Vella, in arte Raige: “Goditi il trionfo, crea il tuo miracolo, cerca il vero amore dietro ad ogni ostacolo”; una ballata veramente potente. Non solo tormento dunque, ma anche leggerezza senza rinunciare alla profondità di cui Tiziano Ferro ha ormai fatto il suo inconfondibile marchio di fabbrica.

Intervista

Come nasce il “Mestiere della vita”?

Questo è un disco importante scritto senza starci troppo a pensare su. In quel periodo Canova aveva trasferito tutto lo studio a Los Angeles, città in cui ho anche preso una casa. Ho scritto i brani da solo, senza registrare o produrre demo insieme a lui. Ero in camera mia, cazzeggiavo, ogni tanto facevo delle cose senza la pressione di pensare che sarebbero finite in un disco.

Che tipo di responsabilità senti di avere nei riguardi di chi ti segue?

L’unica è questa: non avere paura di esporre la mia ricerca personale. All’inizio mi spaventano e mi chiudevo dietro le mie canzoni ma poi mi sono reso conto che la scrittura poteva essere utile anche per me. Ho amato questo tipo di processo, invece di mettermi in un angolo, ho assunto un atteggiamento di attacco e apertura. Non amo molto i social, tendo a non esserci troppo, scrivere è l’unico modo che conosco per vivere. Ogni tanto ho fatto salti nel buio che hanno funzionato più delle scelte a tavolino, queste canzoni nascono proprio così: con un atteggiamento più divertito e disinvolto.

Perché il disco si apre con “Epic”?

Questo capitolo suona quasi come una negazione del precedente. Ci tenevo a tracciare questa linea, è molto importante per chi ascolta capire chi c’è dietro le canzoni. L’inglese usato in questo brano è un caso, avevo in mente di farlo cantare ad un artista ma non è successo. Non sapevo neanche che l’avrei usato, il ruolo del brano è cambiato nel tempo.

Tiziano Ferro

Tiziano Ferro

Raccontaci de “Il Confronto”, in cui canti con Carmen Consoli

Carmen è la mia cantante preferita da sempre. Per una serie di suggestioni soltanto mie, la ritengo la vera erede di Mina. Possiede quel suo gusto per il canto istintivo e per la scrittura, non ho mai pensato che lei volesse scrivere una canzone con me ma ho finito con lo scoprire una persona molto simile a me. Due anni fa al Forum la presentai come la mia controparte maschile. In questa canzone cantiamo come se cantassimo insieme da 20 anni, le nostre sono voci diverse ma simili, non ci sono armonie. Il risultato è un duetto lontano dai manierismi degli ultimi anni, si evita la rincorsa all’acuto e all’urlo, non si tratta di un duetto di facciata, ci tenevo a lasciar trasparire tutto il contenuto che c’è al suo interno.

La cover del disco è piena di riferimenti…

Questa copertina mi piace tantissimo, finalmente uso il linguaggio grafico e non solo fotografico. In questo scatto è racchiuso il percorso che mi ha portato a fare questo disco: il sogno, la realtà, lo spostamento geografico, la fantasia. Los Angeles è diventata inaspettatamente lo scenario di questo disco, ci ho messo 10 anni per capirla e per trovarmici discretamente. Devi vivere quella zona per capirla, se ci vuoi fare delle cose, lì le puoi fare, i musicisti vogliono suonare con te, gli autori ti danno ascolto ma soprattutto realizzano le cose. Da noi si parla, lì si fa. Questa cosa all’inizio mi ha spiazzato, sono sempre stato molto geloso della pagina bianca, invece qui ci sono sessioni di scrittura con altre persone, un fatto che non era mai successo e con autori giovani per di più. La cosa che più è piaciuta è che il mio percorso è stato quasi quello di tutor. Mi hanno inviato dei demo, li ho ascoltati, li ho aiutati a semplificare il linguaggio, a pulire un po’ l’atteggiamento in studio. Alla fine sono stati loro ad aiutare me, a rinfrescarmi, a rinvigorire la mia voglia di fare le cose. Ecco cosa metto in evidenza nella cover del disco. Esporsi agli altri e non sottrarsi: questo è il Mestiere della Vita.

Che idee stai maturando per il tour?

Succederà qualcosa di diverso, nella mia testa da fan che va ad un concerto del proprio artista preferito, immagino un live al servizio della musica e dello spettatore. Non ho mai fatto tour egoriferiti quello che deve emergere è il ricordo, la riflessione, la possibilità di rivivere delle esperienze attraverso le canzoni più importanti. In questo caso ci sarà anche il disco nuovo e, come ogni volta, sfoglieremo un album fotografico partendo dal passato. Non comprendo gli artisti che riducono i pezzi di maggiore successo ad un medley, lo considero un atto di autolesionismo, non c’è niente di più bello che vedere le persone che ti restituisco lo stesso messaggio in sincrono, un fatto che non si può descrivere a parole!

Cosa racconti nel brano di chiusura “Quasi quasi”?

Per credere alle cose che succedono devo confrontarmi, è difficile esistere come persona solitaria, lo specchio sono le persone che ho intorno. Per questo motivo ho abbassato i ritmi della mia vita, avevo perso i contatti con i miei amici e parenti, c’erano momenti in cui ero in un posto bellissimo ma non c era nessuno di quelli che io volevo accanto a me, non aveva senso fare un milione di cose senza poterle condividere.

Tiziano Ferro

Tiziano Ferro

A chi ti sei rivolto in “Casa è vuota”?

Questo è uno dei primi pezzi che ho scritto quando ho capito che Los Angeles era un angolo di mondo che poteva darmi qualcosa in più- Ho scritto il testo di getto ma ci tengo a dire che la rabbia fa parte di una fase di passaggio e di cambiamento. Non credo nell’ odio, credo nella zona grigia tra la serenità e il fastidio, non riesco a provare rancore, posso chiudere rapporti e relazioni amorose amichevoli e familiari ma posso farlo con serenità, passo la fase grigia ma poi vado avanti.

Come vivi questa Italia?

Sono andato in America nel momento peggiore per gli americani, per la prima volta immersi in un mare d’umiltà. Sono anni che vivo all’estero ma non sono mai andato veramente via da qua, prima vado poi torno, questa è la mia peculiarità ma forse anche la mia condanna.

Qual è il vero fulcro di “Potremmo ritornare”?

Ricordo esattamente dov’ero quando ho scritto questo brano. Al contrario degli altri è il frutto di un lungo lavoro. In questo caso ho fatto una cosa che non facevo da tanto, ho preso la musica e ho scritto il testo da zero senza nemmeno una parola da parte. Non si tratta di una canzone d’amore, è una canzone che parla di ritorno e l’ho scritta pensando a una persona che non c’ è più.

Che rapporto hai con la paura?

Non auguro a nessuno di fare scelte per paura. La verità è che bisogna imparare un po’ ad aspettare, alla fine le cose tornano ad essere centrate nella maniera giusta, non bisogna mai lasciare che la paura diventi la principale consigliera, ti dà sempre la versione sbagliata delle cose.

 Raffaella Sbrescia

TRACKLIST

  1. Epic
  2. Solo è solo una parola
  3. Il mestiere della vita
  4. Valore assoluto 
  5. Il conforto (feat. Carmen Consoli)
  6.  Lento / Veloce 
  7.  Troppo bene (Per Stare Male) 
  8. My Steelo (feat. Tormento)
  9.  Potremmo ritornare 
  10.  Ora perdona 
  11.  Casa è vuota 
  12.  La tua vita intera 
  13.  Quasi quasi 

Video; Potremmo Ritornare

 

Questo il calendario ufficiale di TIZIANO FERRO TOUR 2017:

11 giugno                    LIGNANO (UD)       Stadio Teghil

16 giugno                    MILANO                    Stadio San Siro

17 giugno                    MILANO                    Stadio San Siro

21 giugno                    TORINO                     Stadio Olimpico

24 giugno                    BOLOGNA                Stadio Dall’Ara

28 giugno                    ROMA                        Stadio Olimpico

30 giugno                    ROMA                       Stadio Olimpico – nuova data!

5 luglio                          BARI                          Arena della Vittoria

8 luglio                          MESSINA                 Stadio San Filippo

12 luglio                        SALERNO                 Stadio Arechi

15 luglio                         FIRENZE                 Stadio Franchi

Ascolta qui l’album:

“Valiant”, il rock apocalittico dei Sickabell trasforma la negatività in energia creativa

Copertina album "Valiant" ph Francesco Romoli

Copertina album “Valiant” ph Francesco Romoli

“Valiant” è il titolo del concept album dei Sickabell, il gruppo composto da Giuliano G. Vernaschi (songs, vocals, keyboards), Rino Cellucci (el. & ac. guitars), Ivan Cellucci (bass), Marco Lupo (drums). Il fulcro di questo lavoro è quello che potremmo definire rock apocalittico. Non solo apocalisse ma anche occasione di critica costruttiva a quello che di male vediamo in noi stessi e nella società che ci circonda. Il racconto di “Valiant” inizia con la fine e finisce con l’inizio, una sorta di reverse satanico che conferisce un tocco ancora più cupo ad un progetto che ha molto da raccontare. Il filo conduttore che attraversa i brani che compongono la tracklist è lo stato d’animo collettivo con cui stiamo imparando a convivere ovvero la paura che il mondo stia davvero andando alla deriva e che possa esserci un epilogo tragico. Queste paure vengono dagli attentati, dalle divisioni sociali, dall’economia che implode.  Il filtro attraverso il quale viene raccontato questo deperimento agisce come una lente d’ingrandimento sui rapporti sentimentali. Così come da un lato si consuma il pianeta, così si deteriorano i rapporti e gli amori fino a degenerare in perversioni o deliri patologici. Nel disco le dimensioni micro e macro s’incrociano fino al raggiungimento di un finale fantascientifico in cui la terra esplode e nuove forma di vita aliene raccolgono pochi superstiti per dare vita ad una nuova umanità.

Intervista a Giuliano G Vernaschi

Raccontaci la genesi dei Sickabell

Tutto nasce da un sogno: sorvolavo la città del film “Il Corvo”. C’era un grande grattacielo con un tabellone digitale gigantesco con una foto dei Queen e la scritta sickabell, poi, ancora più sotto, Valiant. Ho interpretato il tutto come un messaggio subliminale del mio inconscio; la prima cosa che voleva dirmi era: il tuo gruppo si chiamerà così, la seconda: cerca di fare qualcosa di importante e la terza: cerca di essere valoroso. Appena sveglio mi sono segnato il nome e ho iniziato ad analizzarlo: sickbell, nauseato dalle campaneLa morale è che suoniamo la nostra musica per combattere il suono delle campane ovvero tutta una cultura correlata all’ipocrisia del cattolicesimo.

Cosa c’è alla base di “Valiant”?

Questo album è un concept come si faceva una volta. Abbiamo messo in musica tutto quello che sentivamo senza la vergogna di raccontare anche i nostri incubi; si tratta di una lunga e a volte inconscia introspezione. Viviamo la musica con la massima sincerità, abbiamo realizzato questo album in un anno vedendoci dopo 12 ore di lavoro e lavorando in piena notte.

Come hai lavorato ai testi?

Dietro questo progetto c’è molto di me, sono l’autore dei testi ma ho partecipato anche alla realizzazione dei video, della copertina  e del booklet. Si tratta di un album molto intimo ma anche fortemente negativo; senza rendermene conto ho finito con l’assorbire di tutto, proprio come una spugna.

Sickabell

Sickabell ph Alessandro Petrini

Iniziamo da “Insane head”, un esempio del precipizio psicologico.

 In questo brano ho voluto raccontare la violenza sessuale non dal lato femminile, quello più ovvio e politicamente corretto, ma cercando di calarmi nella mente malata di chi la commette. Per farlo, non ho avuto pudore nel toccare i tasti più intimi delle perversioni latenti, quelle che si annidano in ognuno di noi e che a volte neghiamo di avere. Il protagonista inizia cercando scuse per aver commesso una violenza su una donna. “I’m just a man. Sometimes, you know, we can’t control ourselves. Religion failed ’cause at the end my sexual drive is still out of hand.” Dopo aver raccontato cos’ ha fatto, rivolge la colpa su di lei, come se fosse stata lei a fomentare il suo comportamento: “Guilty innocence. I can’t stand anything about her! The taste of that girl: juice from Hell.” Nello special del brano, i due si rincontrano e lui non si trattiene ancora dall’abusarne: “Here we are again! Enemies are best friends”. Alla fine della canzone, si scopre che nulla di tutto ciò è mai avvenuto: solo una fantasia, il cortocircuito mentale di un uomo che sprofonda nel marcio di sé stesso: “For all I know she still lies there deep inside my insane head”. Lo stato psicologico bipolare e dissociato si ritrova anche nella musica di questo brano: strofe melodiche e quasi calme, ritornello rabbioso con fermate e ripartenze ritmiche nevrotiche. Lo special, che è il climax, il momento in cui lei è spalle al muro e lui annaspa dal desiderio, è connotato da un suono asciutto e da dinamiche di suspance. L’intro e il finale, contraddistinti da organi cupi prima e graffianti poi, rappresentano la dimensione interiore diabolica del protagonista.

La vera apocalisse è in “The End’s out there”?

Questo è racconto fantasioso, un film di fantascienza assolutamente sperimentale. Si tratta di una sorta di protesta, esiste un parallelismo tra le vicende dei protagonisti che valutano il proprio vissuto e quello della società in cui vivono. Questo racconto verrà poi raccontato in un pamphlet di 20 pagine che diventerà anche un audiolibro.

Giuliano G. Vernaschi ph Alessandro Petrini

Giuliano G. Vernaschi ph Alessandro Petrini

Che ci dici del simbolismo di “Forest of Ghosts”?

La leggenda parla di cannibalismo. In questo brano si parla di due perversi, i protagonisti sono una mangiatrice di uomini e un drogato. Lui, completamente succube, aiuta lei nel procacciarsi le vittime, lei è una cannibale ma non ne è consapevole. Il brano intende rispecchiare tanti problemi di numerose coppie. La seconda parte traduce in parole il delirio mentale di lui fino a spegnersi nel più completo cinismo.

Infine il suggestivo titolo “Waves of Sin”…

Questo è l’unico brano positivo del disco insieme a “Valiant”. Il testo descrive una scena di tempesta ma si conclude con un messaggio positivo. I protagonisti navigano in un mare in tempesta, il più esperto dice all’altro cosa fare per continuare a navigare; le sofferenze sono pillole di vita, non dobbiamo rifuggirle ma prenderle in pieno perché sono le chiavi per uscirne più vivi che mai. Il brano è legato a “Valiant” come se si trattasse di un’unica traccia. Quello che emerge alla fine è uno spirito vivo. La negatività viene dall’ energia, è fuoco e agisce come un vulcano in continua eruzione.

Raffaella Sbrescia

Video: Third Wordl War

Ascolta qui l’album:

 

Ti devo un ritorno: un esordio letterario avvincente per Niccolò Agliardi. Intervista

Niccolo-Agliardi ph Francesca Marino

Niccolo-Agliardi ph Francesca Marino

Sarà perché si è laureato in Lettere Moderne con una tesi sui luoghi reali e immaginari presenti nelle canzoni di De Gregori, sarà per la sua mano di autore affermato, Niccolò Agliardi ha firmato un romanzo (Ti devo un ritorno) sinceramente bello perché delicato e significativo. Un esordio letterario che, in realtà, rappresenta il culmine di un percorso in crescendo. Da paroliere di successo a cantautore fino allo stadio di autore, Agliardi conferma una sensibilità particolare nel riuscire a parlare dritto al cuore di chi vive momenti di transizione esistenziale. In “Ti devo un ritorno”, edito da Salani e pubblicato lo scorso 6 ottobre con il contributo della curatrice Maria Cristina Olati e la supervisione giornalistica di Andrea Amato, Niccolò Agliardi si ispira ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 2001 e che ha coinvolto in maniera drammatica la popolazione delle Isole Azzorre. Nel mettere insieme i tasselli di una storia appassionante però, Niccolò lascia emergere alcuni piccoli particolari legati alla propria essenza individuale rendendo tutto l’insieme avvincente. Il protagonista del libro è Pietro, un trentaduenne prigioniero di se stesso che, subito dopo la morte di suo padre, decide di partire alla volte delle Azzorre annaspando fra i sentimenti e le paure. Giunto sul posto, Pietro incontra Vasco, un ragazzo tanto genuino quanto controverso, con cui il protagonista costruisce un rapporto molto intenso, del tutto simile a quello tra padre e figlio. Costretti a fare i conti con le conseguenze di un naufragio che porterà un enorme carico di cocaina sull’isola, Pietro e gli altri protagonisti del libro si troveranno davanti a scelte importanti. Tutto quello che accadrà sarà fondamentale ai fini della svolta esistenziale del protagonista.  Toccante ma mai straziante, delicato e coinvolgente, il racconto gioca su più livelli attraverso tanti temi: quello della natura, della fuga, delle onde, ma anche della tossicodipendenza, della vita criminale, dell’ingiustizia. Da leggere.

Intervista

Un esordio letterario che nasce da una tua esperienza personale visto che sei andato sul posto dopo esserti incuriosito in merito a un fatto realmente accaduto…

Sì, ho unito la mia voglia di viaggiare, sempre molto presente, alla curiosità per un fatto di cronaca davvero surreale. Sono partito 5 anni fa insieme ad un gruppo di amici per andare a vedere che cosa fosse accaduto veramente, lì la verità era di gran lunga superiore all’immaginazione. Al mio ritorno ho cercato di capire cosa potessi fare di questa storia, ho provato a scriverla ma non ha funzionato, i miei editori all’epoca sono stati molto feroci, non hanno capito che direzione volessi prendere quindi l’ho lasciata da parte.

E poi cos’ è successo?

Poi ci sono stati i Braccialetti Rossi, la collaborazione con la Pausini,  ho cambiato casa e città, poi l’anno scorso ho incontrato una mia cara amica dell’università che non vedevo da un po’ e che è diventata una grande editrice (si chiama Maria Cristina Olati) le ho raccontato questa storia ed è stata proprio lei a suggerirmi di unire i tasselli della mia storia personale con questa qui.

Come hai affrontato la fase successiva?

Piano piano ho scritto i capitoli, Maria Cristina li guardava obbligandomi alla disciplina, a stare a casa e mandarle tutte le sere qualcosa. Questo modo di lavorare mi ha insegnato il rigore necessario per fare questo mestiere e mi ha consentito di stare tanto da solo insegnandomi a non essere molto indulgente con me stesso, a non affezionarmi alle prime cose che scrivo. La stessa cosa si riflette  in musica, oggi so quando una canzone c’è e quando non c’è. Andrea Amato, un mio amico giornalista, ha poi supervisionato con grande rigore tutta la parte relativa alla cronaca perchè lì non si può sbagliare, tutto il resto è la vita che si è messa in mezzo.

Ti devo un ritorno

Ti devo un ritorno

Un’espressione, quest’ultima, che riassume con un fotogramma preciso quello che è lo spirito di questo progetto.

Esatto!

Pietro, Vasco e le onde, i padri, le figlie, la droga, l’amicizia vera, l’alleanza, la paura, i ritorni. Partiamo dalla figura del padre…

La linea tra un uomo normale e un padre sbagliato è molto sottile perché spesso un padre è visto come sbagliato dai propri figli: lo si vuole severo invece è morbido, lo vuoi accondiscendente invece è sfuggente etc… Questo libro riabilita la figura paterna da entrambe le parti, la perdita del padre rappresenta il motore propulsivo per la svolta di Pietro; nel caso di Vasco, invece, il problema è che suo padre è un uomo che sbaglia molto.

Che tipo di ritorno è quello di cui parli?

Pietro ha bisogno di tornare diverso perché ha deciso di scappare. Pietro sa, così come lo so io, che la fuga è una vigliaccata però è anche vero che in certi momenti scappare ti salva la vita, rappresenta un modo per potersi perdonare e tornare con un qualcosa in più. Questo viaggio per Pietro è l’occasione di tornare uomo e lasciare per sempre la sua comfort zone. Per quanto mi riguarda, in qualità di grande viaggiatore, adoro i biglietti di andata ma anche i ritorni, soprattutto quelli dai viaggi importanti e quando c’è qualcuno che ti aspetta.

Com’è l’amicizia, quella vera?

 Pietro e Vasco sono amici davvero perché parlano pochissimo. Questo è un libro in cui l’amicizia è come quella nella prima canzone di Braccialetti Rossi in cui si parla dei sottotitoli del cuore. Pietro e Vasco hanno una sintonia di questo tipo, si prendono tanto in giro ma si vogliono bene per davvero.

A proposito di Braccialetti Rossi, cosa ci dici di “BRACCIALETTI ROSSI 3” (Carosello Records), il disco della colonna sonora della terza stagione dell’amata serie?

“Braccialetti Rossi 3” è il disco più completo di tutte le tre edizioni. Così come i ragazzi sono cresciuti e sono diventati belli da morire, le canzoni di oggi raccontano questa evoluzione. Sono canzoni che vanno fuori dall’ospedale, dal dolore, dalla dinamica malattia-guarigione; sono canzoni che guardano verso il mondo e sono molto fiero di questo disco. Credo che siano le canzoni più belle che ho scritto insieme a Edwin Robert e gli altri ragazzi.

“Alla fine del peggio” è una delle più suggestive…sei d’accordo?

Sì, la canzone è nata sempre insieme a Edwin. Collaboro con lui da molto tempo e insieme a lui ho scritto anche i pezzi per la Pausini. In questa occasione eravamo in Messico, c’era una giornata un po’ nuvolosa su una bellissima spiaggia, ci siamo guardati in faccia e, dopo aver realizzato di aver superato parecchie tempeste, ci siamo detti che potevamo permetterci il lusso di dire che stavamo bene e che il peggio era passato; una bellissima sensazione di consapevolezza.

Come vivi il grande affetto che i fan, i colleghi e tanti addetti ai lavori hanno nei tuoi riguardi?

Forse ho semplicemente scelto delle buone persone, tutte le persone che mi circondano parlano la stessa lingua, quella della riconoscenza e dell’umiltà.

 Raffaella Sbrescia

 

3 Minuti di sbagli: ecco il mondo di Manuela Pellegatta. Intervista

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TRE MINUTI DI SBAGLI (Adesiva Discografica/SELF) è l’album d’esordio della cantautrice, compositrice e busker lombarda PELLEGATTA. Il disco, prodotto da Paolo Iafelice (già al lavoro con Fabrizio De André, Ligabue, Fiorella Mannoia), è composto da dieci tracce con un sound pop-folk caratterizzato da testi diretti e ispirati, in cui l’artista lombarda fotografa la sua quotidianità e racconta di incontri voluti e inaspettati.

Questa la tracklist di “TRE MINUTI DI SBAGLI: “Camera Mia”, “Mi Sono Persa”, “Tre Minuti di Sbagli”Sesto Senso”, Primavera Apparente”, “Lontano Da Lei”, “Drinking Sea Water”, “Coincidenze”,  “Ogni Venerdì”, “Vanny Fra Le Nuvole”.

Intervista

Chi è Pellegatta e cosa vuole raccontare la tua musica a chi l’ascolta?
Pellegatta è il mio cognome e totem, mi rappresenta “gattisticamente” parlando, racconto storie che mi sono capitate o che ho sentito mentre suonavo in strada.

Cosa racchiude l’immagine del cappello in senso metaforico?
Il cappello è un contenitore di cose che vorrei fare, molto spesso mi ci perdo.

“3 Minuti di sbagli” è il suggestivo titolo del tuo disco. Da dove nasce questa scelta e di cosa parla la titletrack di questo lavoro?

All’inizio l’album si doveva chiamare “Coincidenze”, poi entrando in studio di registrazione con Paolo Iafelice, ci siamo resi conto che il filo conduttore era la mia voglia di perdermi e che il mio senso di colpa si identificava come in uno sbaglio; un bellissimo sbaglio direi.

Cosa rappresenta per te essere una busker, cosa riesce a trasmettere e a trasmetterti la musica di strada?

All’inizio ero molto titubante, non mi sarei mai aspettata di sentirmi a mio agio, si tratta di un flusso di energia tra chi ascolta e chi si esibisce. Presentando brani inediti non sempre la gente si ferma ad ascoltarmi, ma a volte capitano dei veri piccoli miracoli, le persone si aprono e mi raccontano le loro vite. Spengo l’amplificatore e rimango lì ad ascoltare.

A cosa pensi quando sei nel pieno di una performance di questo tipo?
Non penso a niente, questo il bello! È uno di quei momenti dove stacco il cervello da ogni pensiero e sono me stessa nella mia bolla di energia. Non ho bisogno di niente, sto bene.

Il regista Amin Wahidi ha documentato il tuo percorso. Cosa ne verrà fuori?

Ne verrà fuori un documentario. In questi giorni si sta lavorando al montaggio, uscirà nel 2017 e sono troppo curiosa di rivedermi, Amin ha iniziato a registrare nel dicembre del 2014. Il montaggio verrà fatto in collaborazione con Fabrizio Fini, il lavoro è lungo ma sapere che ripercorrerà un pezzo del mio percorso mi fa pensare che sono una persona fortunata. Sorrido all’idea di andare al cinema e vedere me qualche anno fa. Il documentario si chiamerà Milestone, pietra miliare, step fondamentale;per me incidere l’album è stato uno step importantissimo.

Pellegatta

Pellegatta

Cosa rappresenta per te la città di Milano e in che modo rientra nelle tue canzoni?

Milano è una città “nascosta”, ci vogliono anni per scoprire le bellezze che si celano dietro ai portoni. Milano rappresenta valigie di ricordi ormai dimenticati in cantina e buttati via dai nuovi coinquilini. La prima volta che ho visto Milano è stata in una foto dei miei nonni il giorno del loro matrimonio. Poi un giorno l’ho vista per davvero: avevo marinato la scuola. Milano è presente nella foto della mia laurea, e in tutte quelle in cui c’è la chitarra mentre suono le mie canzoni. Ho condiviso molti mondi dietro questo scenario. Adesso sento l’esigenza di partire fuori dall’ Italia.

Ci racconti del brano “Ogni venerdì”?

Ero seduta sulla mensola di un bistrot dove suonavo spesso e ogni venerdì una coppia si sedeva al tavolo sei verso le 21.30. Dopo mezzora lei si alzava e se ne andava via, ogni venerdì la stessa scena, non ho fatto altro che immaginare la conversazione .

Chi è “Vanny”?

Vanny è una mia amica che è partita.  È talentuosa,  ha affrontato molte difficoltà e ha deciso di partire per trovare la sua identità di origine, perché dove è cresciuta non ha trovato quello che cercava. Allora le ho cantato una ninna nanna per il viaggio di andata, sia il sound che le parole  sono semplici.

Che importanza hanno per te le coincidenze?

A volte mi hanno davvero fatto crescere segnandomi nel profondo, a volte è stato proprio come scendere da un pullman e rincorrere un treno che stava partendo. Ultimamente suonando in strada mi è capitato di incontrare una coppia con negli occhi il coraggio e tanta passione, innamorati delle loro vite. Mi hanno chiesto di suonare al loro matrimonio,  gli ho dedicato questa canzone  (Coincidenze) che li rappresentava in tutto e per tutto.

Quali sono i tuoi riferimenti  musicali?

Ho sempre ascoltato Fabrizio De André quando ero piccola, poi successivamente Bennato, Dalla, Battisti.  Negli anni a seguire ho imparato un sacco di brani che mi dicessero qualcosa ed ascoltavo a ripetizione Samuele Bersani e Tiromancino. Negli ultimi mesi sto ascoltando tantissimo l’ultimo album di Nicolò Fabi, sono andata a sentirlo anche al Premio Tenco ed è davvero disarmante, immenso, mi rappresenta.

Come si articola il tuo immaginario e come lavori alla realizzazione delle tue canzoni?

Scrivo di getto sul quaderno, poi lo riapro dopo qualche giorno, ma soprattutto quando il brano è ancora incompleto cerco di cantare il brano prematuro in strada per capire cosa serve.

Cosa bolle in pentola per Pellegatta in questo momento?

Sto scrivendo nuove canzoni. Prendo sempre spunto dai miei viaggi, per esempio in una tournée Rimini-Bologna-Modena mi hanno rubato la chitarra a Rimini, una storia che io definisco “vita nella vita” e che solo tramite quella canzone riuscirò a tirare fuori  il mio forte senso dell’abbandono che ho lasciato andare quel giorno. Mi hanno aperto la macchina mentre raccoglievo due conchiglie sulla riva. Poi ci sono altri scenari che in questi mesi ho conosciuto e che racconterò nel prossimo album.

Raffaella Sbrescia

 Video: Camera Mia

Intervista a Honor: “Le mie canzoni nascono per rielaborare quello che mi succede”

 Honor

Honor

Honor è una cantante svizzera salita alla ribalta della scena inglese grazie ad un fatto davvero inusuale avvenuto nel 2015 quando il noto Vlogger britannico “Luke is Not Sexy” ritrovò una pen-drive sul treno e lanciò un appello intitolato #namethegirl attraverso il quale invitava la proprietaria della chiavetta usb a materializzarsi. Quella chiavetta conteneva disegni, foto e alcune canzoni che avevano folgorato l’influencer  al punto che lo stesso Luke si era fatto promotore di questa ricerca che non tardò a scatenare la curiosità degli inglesi. A questo episodio sono seguiti un contratto discografico, un singolo d’esordio con un video girato a Los Angeles, l’ingresso nelle classifiche ed i conseguenti remix sempre in onda nel programma del mito Pete Tong su BBC1. Abbiamo incontrato Honor per sapere qualcosa in più su di lei e sulla sua musica. Ecco l’intervista:

Honor, la tua favola artistica ha preso il via ufficiale grazie ad un episodio inusuale ma quando e come è iniziato il tuo percorso di cantautrice?

Tutto è iniziato circa 6 anni fa, quando è mancato mio padre, ho sentito il bisogno di scrivere… Ho iniziato a scrivere pensieri che si sono in un secondo tempo trasformati nel testo delle mie canzoni. Scrivere e cantare è terapeutico per me.

Cosa racchiude e cosa racconta la tua musica? Parlaci di “Never Off” e del suo messaggio…

 Le mie canzoni nascono da momenti di sconforto, momenti nei quali ho bisogno di rielaborare qualcosa. Le mie canzoni non sono tristi, ma per me (e spero anche per chi le ascolta) sono terapeutiche. Le persone si possono immedesimare e le fanno proprie. Come per esempio NEVER OFF, queste due parole hanno un significato molto forte: non arrendersi, non darsi per sconfitti (in amore/ nella vita/ nel lavoro)! Mi piace che chi l’ascolta possa interpretare questo “NEVER OFF”, come meglio crede, in relazione alla situazione che sta vivendo.

Mai darsi per sconfitti è anche il tuo mantra personale?

 Assolutamente si!

Quali sono le tue passioni e i tuoi riferimenti?

Per quanto concerne le mie passioni, sicuramente al primo posto c’è l’equitazione. I cavalli fanno parte del mio quotidiano. Un’altra grande passione è l’arte (in particolare quella contemporanea). Per quanto riguarda i miei riferimenti musicali, invece, sicuramente tutta la scena indie.

Nella tua vita quotidiana hai a che fare con l’arte contemporanea. Cosa significa per te?

Mi piace scoprire nuovi artisti, è un mondo folle, ma al contempo affascinante. Forse perché non sempre anch’essa è razionale, questa cosa m’incuriosisce, anche l’arte dà la possibilità ai fruitori d’interpretarla secondo le proprie logiche.

Honor

Honor

Che rapporto hai con il pianoforte?

Suono il pianoforte da quando avevo 8 anni. Durante l’adolescenza volevo abbandonarlo (avevo la testa altrove), mio papà ha insistito per farmi continuare, oggi non posso far altro che ringraziarlo anche per questo.

Credi nel destino?

Molto!

Quali sono i tratti distintivi di “Love Hate Kiss Kill” e  di “You and my Nightmares”?

Il forte conflitto tra amore e odio. Tra inquietudine e tranquillità. Se non si prova l’uno non si potrà mai sapere cosa significa l’altro.

A quando la pubblicazione di nuovi brani?

 Nel 2017 ve li svelerò!

Raffaella Sbrescia

Video: Never Offu

Antonio Maggio: “Amore pop” vi svela il mio lato più intimo e riflessivo. Intervista

Antonio Maggio

Antonio Maggio

Lo scorso 4 novembre ha pubblicato il suo nuovo singolo intitolato “Amore Pop”. Lui è Antonio Maggio e questo brano intende anticipare il terzo album di inediti del cantautore salentino in uscita nel 2017 per Mescal. “Questa nuova canzone, scritta da Antonio Maggio con la produzione artistica di Diego Calvetti, si muove tra sonorità elettroniche e musica d’autore ma soprattutto segna una ripartenza importante per una nuova tappa di un nuovo viaggio musicale dalle promettenti prospettive.

Intervista

Ciao Antonio, il tuo percorso riparte da “Amore Pop”. Raccontaci cosa ti ha ispirato questa canzone e come hai lavorato alla costruzione di un arrangiamento che accosta in maniera delicata sonorità elettroniche e musica d’autore.

Hai usato le due parole chiave per imbastire il discorso: percorso e ripartenza.  Credo che ogni nuova uscita, ogni album e ogni nuova canzone rappresenti per un cantautore una nuova partenza, il desiderio di approcciarsi con il pubblico in maniera diversa, l’esigenza di aggiungere qualcosa in più rispetto a quanto fatto prima. ”Amore pop” nasce proprio dalla volontà di evidenziare e far conoscere alla gente un lato della mia scrittura che fino ad oggi era rimasto un po’ offuscato, sicuramente in secondo piano, che é quello mio più intimo, più intenso e più riflessivo. Insieme a Diego Calvetti, il mio produttore artistico, abbiamo lavorato in questi ultimi mesi in questa direzione, mescolando il mio universo cantautorale ad un’elettronica elegante, trovando il giusto equilibrio tra le due cose.

Quali parole useresti per dare la tua personale definizione di “Amore Pop”?

L’ “Amore pop” é quel sentimento impersonale, grezzo, che ha bisogno del vissuto e delle cure del tempo per poter diventare unico e incorruttibile. E quando canto che “l’amore pop non ci fa stare bene”, invoco una sana ribellione allo standard, alla regolarità, una forte volontà di uscire fuori dagli schemi. L’obiettività in amore non esiste, esistono solo le eccezioni, che però nella ricerca del sentimento dovrebbero essere la normalità.

Molto suggestivo il video diretto da Mauro Russo, in particolar modo la tua dissolvenza finale… come avete lavorato allo script del video e in che modo si lega al testo della canzone?

Sinceramente l’idea dello script nasce da Manuela Longhi, ufficio stampa della mia etichetta discografica, a testimonianza di quanto sia importante il lavoro di squadra. Poi io l’ho un po’ estremizzata e Mauro é stato come sempre bravissimo nel riprodurre visivamente il tutto. Nel videoclip sono state messe in scena esattamente tutte le sfumature e le emozioni che io ho messo in musica, fatto che non é assolutamente scontato che accada. La ricerca continua di qualcuno o qualcosa che prima insegui, poi raggiungi e infine si sgretola inaspettatamente tra le mani.

Video: Amore Pop

Questo singolo anticipa il tuo nuovo album di inediti…che direzione avrà questo nuovo lavoro e quali saranno le tematiche a cui farai riferimento?

Questo singolo é un po’ l’antipasto di ciò che sarà il mio nuovo album, il terzo, previsto per i primi mesi del nuovo anno. Un album importante per me, perché come ho detto prima sarà l’album dei cambiamenti, sotto vari punti di vista. Fino ad oggi la gente ha conosciuto prevalentemente il mio lato più ironico, che poi rispecchia in parte il mio modo di essere. Però adesso é arrivato il momento di farmi conoscere più a 360 gradi, scendendo un po’ più nel mio intimo. Racconterò come sempre di storie reali e non, di personaggi e di fatti che mi ruotano attorno, di amore e di musica, di sogni e anche della mia tesi di laurea.

Cosa ti ha lasciato il percorso fatto dal tuo precedente album “L’Equazione”?

Mi ha lasciato una cosa fondamentale: la consapevolezza di cosa avrei dovuto fare, dire e raccontare con questo mio nuovo album. Probabilmente dico una cosa scontata, ma l’ultimo lavoro segna inevitabilmente le sorti del successivo, perché dopo averne analizzato pregi e difetti, gioie e dolori, riesci ad individuare più lucidamente il bersaglio successivo da centrare; ma lo puoi fare solo a mente fredda, a debita distanza temporale.

Come ti contestualizzi all’interno dello scenario musicale italiano alla luce del tuo percorso fatto fino ad oggi?

Un cantautore alla vecchia che guarda al futuro.

In che modo la tua sensibilità si riversa nei testi dei tuoi brani?

Completamente. La scrittura delle mie canzoni è un modo per esternarla. Anche nella mia sfaccettatura più scanzonata, dove solitamente è più complicato. A volte è meglio cantare qualcosa piuttosto che dirla.

Quali sono le tue prospettive artistiche e come scandisci le tue giornate di scrittura?

Ovviamente la scrittura non é un’opera quotidiana. Posso trascorrere anche settimane senza scrivere nulla. Le mie prospettive artistiche nel futuro prossimo sono strettamente legate al nuovo album, non vedo l’ora di farlo ascoltare. E poi, in parallelo, sempre col nuovo anno, porterò in giro uno spettacolo a cui tengo tanto, che é “MAGGIOcantaDALLA in Jazz”.

Il disco uscirà nel 2017, c’è in ballo una ipotetica partecipazione al Festival di Sanremo?

Amo profondamente il Festival di Sanremo, ad esso mi legano delle emozioni incredibili e indelebili con la vittoria di 3 anni fa. Di sicuro in futuro mi piacerebbe ritornarci, e quando parlo di futuro non parlo necessariamente di quest’anno. L’unica mia preoccupazione adesso é di chiudere presto la produzione del disco e di mandarlo in stampa.

Antonio Maggio

Antonio Maggio

Hai vinto il premio Musica nell’ambito della seconda edizione del premio Giorgio Faletti. Che significato assume questo riconoscimento per te?

É un premio che mi inorgoglisce molto. Vedere il mio nome accostato a quello di Giorgio Faletti, artista a tutto tondo e in vari campi, mi gratifica del percorso che ho intrapreso oramai un po’ di anni fa. Sono stato felicissimo di riceverlo dalle mani di Gaetano Curreri, artista e persona che stimo tantissimo.

Cosa hai provato nel cantare un pezzo di Dalla insieme a Gaetano Curreri?

É stato sognante, quasi surreale. Per me, cresciuto ascoltando Lucio Dalla, e quindi per ovvi motivi anche gli Stadio, é stata un’emozione che non dimenticherò mai.

 Raffaella Sbrescia

“Siamo noi la scelta”: intervista a Paolo Simoni

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Tra razionalità e sogno, tra poesia e lucidità. Questi i binari sui quali si snoda “Noi siamo la scelta”, il nuovo album di Paolo Simoni, un concept album che ha come tema centrale la generazione dei trentenni di oggi, quelli che hanno il coraggio di vivere e rimanere in Italia, o quelli per i quali la sola “scelta” è andare a lavorare e a vivere lontano da casa. “Il vuoto di questo tempo, si accomoda nello stomaco senza chiedere permesso” e allora ti rendi conto che le parole scritte e cantate da Paolo parlano non solo di chi ha trent’anni, ma vanno dritte al cuore di chi di anni ne ha venti, quaranta, cinquanta, parlano di tutti noi, di tutti gli eroi “che non mollano mai”. Ritratti di Note ha incontrato Paolo Simoni durante il tour di promozione dell’album.

Paolo, in quest’album parli ai trentenni di oggi, a quelli che vivono in Italia, a quelli emigrati all’estero. In realtà il messaggio di “Noi siamo la scelta” è molto “trasversale” e parla in qualche modo a più generazioni.

Sì, assolutamente. E’ un concept album perché visto e scritto da un trentenne ma nelle cose che questo trentenne dice si rispecchiano anche quelli che hanno passato i trenta o addirittura quelli molto più giovani. Ci sono ragazzi di 17 anni che mi scrivono dicendomi che si ritrovano in quello che dico. In realtà un messaggio è un messaggio, e come tale, non ha età e va dove deve arrivare…

Paolo, da Giuliana che tutti chiamano da sempre Giuly, ho amato al primo ascolto il pezzo che si intitola proprio “Giuly”, e che afferma una grande verità: Dietro ogni grande paura c’è sempre una grande risata…

Si, è vero. Ridere dopo che la paura è passata, dopo che le cose sono state superate. E’ quello che ci dicevamo sempre io e Giuliana, la mia insegnante di vita, che ora non c’è più ma che vive in un’altra dimensione. Io la ringrazio perché ha forgiato sin da quando ero giovanissimo il mio modo di essere, il mio modo di fare musica, di essere artista. Lei era una pittrice. Ho trascorso tante ore nel suo atelier, in pomeriggi meravigliosi con tanti altri artisti, e siccome ho letto da qualche parte che quando si arriva a trent’anni, si lasciano in qualche modo i propri maestri per proseguire da soli, ho scritto questa canzone per ricordarla, per celebrarla, ma soprattutto per ringraziarla. Ecco la storia di questa canzone…

Video: Ci sono cose che ti cambiano

Ed è proprio vero che “il maestro arriva quando l’allievo è già sulla strada”…

Si, certo, è proprio così. Quando l’allievo è pronto, il maestro si mostra. Almeno, a me è successo così…

So che tra le cose che “ci cambiano”, ma che hanno cambiato soprattutto te, c’è la musica…

Tutti i miei grandi cambiamenti nella vita, sono stati sempre legati alla musica, con le esperienze che mi ha fatto fare, con le strade incerte che mi ha fatto prendere. In fondo a strade non asfaltate la musica mi ha fatto sempre trovare un fiore, mi ha fatto apprezzare cose che prima non apprezzavo e mi ha portato a vedere le cose in un modo diverso. Si, la musica mi ha regalato cambiamenti enormi….

Paolo, il tuo strumento principe è il pianoforte, anche se tu sei un polistrumentista. Una nota simpatica: è vero che a soli due anni, hai distrutto una batteria che ti era stata regalata?

Si, è vero, era una batteria di marca, molto in voga a quell’epoca, un po’ in plastica, un po’ rigida, regalatami da mia nonna. Ho capito subito che non ero portato per fare il batterista. Poi ho iniziato con il pianoforte e la chitarra. Però, visto che i miei genitori hanno sempre avuto un ristorante sulla riviera, in Emilia Romagna, spesso prendevo le padelle e le pentole, le giravo, andavo in cortile e ci spezzavo sopra quei magnifici cucchiai lunghi di legno che si usavano per girare la polenta. Diciamo che ho iniziato con la cattiveria, poi mi sono ravveduto…

Ti dico in punta di piedi una cosa che di sicuro riceverai con lo stesso sentimento. Quando leggo i tuoi testi ed ascolto le tue canzoni, mi sembra di rileggere e riascoltare un grande artista con il quale hai duettato: Lucio Dalla…

Questa è una cosa che mi dicono in tanti ed io ci tengo sempre a specificare che “lui era lui” ed io sono io. Il fatto di scrivere e cantare in un certo modo è riconducibile a Lucio e alla scuola emiliana ma poi ognuno ha le proprie storie. Io ho avuto dei riferimenti culturali molto precisi nell’adolescenza e Lucio fa parte di questi, poi l’ho conosciuto, ci ho anche lavorato ed è come se si fosse creato un sigillo da questo punto di vista. Io credo che i riferimenti musicali e culturali siano molto importanti nella vita di un artista, sono quelli che vanno a definire il proprio percorso; grazie per l’accostamento ma come recita la canzone con la quale abbiamo duettato insieme “Io sono io, Tu sei tu”, e Lucio era Lucio…

Questa la tracklist del disco: “Il vuoto di questo tempo”, “Io non mi privo”, “Noi siamo la scelta”, “Lascia la tua impronta”, “Ho conosciuto l’amore”, “Una reazione”, “Ci sono cose che ti cambiano”, “Giuly”, “Suona pianoforte”.

Giuliana Galasso

 Ascolta qui l’album:

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