Rita Marcotulli: Ne ” I Caraviaggianti” il jazz si addolcisce, si veste di seta, scalda e coinvolge.

E’ la first lady del jazz nostrano, la figlia piena di talento ben curato che siamo fieri di avere e che ci riempie di orgoglio e commozione. E’ un monumento della musica internazionale. Eppure nulla si coniuga meglio con Rita Marcotulli del termine “semplicità”.
Oddio, non lo è la sua musica, “semplice”, come ci dimostra l’ambizioso progetto ispirato alle opere di Caravaggio che ha presentato il 20 novembre all’ Auditorium Ennio Morricone di Roma, al cospetto di una platea numerosa ed attenta, e che prende appunto il nome di “ I Caraviaggianti”: un nome dalla sonorità itinerante, come itineranti sono i musicanti. Ma la parola musicante, spesso impropriamente accostata ad un’accezione riduttiva, contiene anche in sé l’essenza dell’aspetto squisitamente figurativo della musica e di chi la esegue. E così, se il Beato Angelico ha i suoi angeli, Caravaggio vanta un ensemble musicale di livello elevatissimo: oltre alla madre del progetto, Mieko Miyazaky (koto e voce), Israel Varela (batteria e voce), Tore Brunborg al sax, Michel Benita al contrabbasso, Marco Decimo al violoncello e l’impareggiabile Michele Rabbia alle percussioni. E, a incorniciare il tutto, la voce di Stefano Benni che con parole sospese tra la narrazione e la poesia, racconta di luci ed ombre, di amori e odi, di turbamenti onirici e contenuti deliri: pennellate verbali che accarezzano le immagini e le note di questo straordinario concerto.
Più che un concerto, una vera e propria esperienza, che nulla deroga alla semplificazione o alla superficialità, e nonostante ciò risulta accessibilissima e coinvolgente.

ph Roberta Gioberti

ph Roberta Gioberti

Le immagini si intrecciano con le note, si scompongono e si ricompongono, prendono vita, ci parlano ben oltre la già più che esaustiva comunicativa del genio che ha rivoluzionato il mondo della pittura e non solo.
Un’esperienza multisensoriale, quindi, che fonde musica, arte e parole, per condurci in un’immersione totale attraverso le note del pianoforte, intrecciate con sonorità jazz, classiche e contemporanee, senza soluzione di continuità: fatto che porta alla nascita di un linguaggio unico, qualcosa che appartiene a Rita e solo a Rita.
Caravaggio è sempre stato considerato il pittore delle tenebre, per quella sua capacità di gestire in maniera così suggestiva il chiaroscuro, e per la peculiarità della sua biografia così avvolta nel torbido, così vicina a quel substrato umano che spesso viene calpestato perché invisibile. Ebbe il coraggio di entrarci dentro al lato oscuro delle persone, di abbracciare la genuina espressione popolana, più che popolare e di vestirla di bellezza, incanto, purezza e dignità. Caravaggio non mise il colore sulla luce, ma al contrario, tirò fuori la luce dalle tenebre tanto in senso pittorico quanto umano, e con la luce il colore, e l’intensità dei sentimenti.
Lo scambio di sguardi tra la Zingara e il bel Giovine de “La buona Ventura”, diventa così intenso e espressivo, mentre corrono vellutate le note del Sax di Brunborg, da farci dimenticare che in realtà si tratta di un sotterfugio: sembra quasi amore, e poi alla fine l’amore, spesso, è un sotterfugio.
Medusa è la rabbia, ma anche tanta umanità per quella figura femminile violata, che ha pagato per tutti lo scotto dell’affronto.
E ancora il fiotto di sangue che sgorga dalla gola di Oloferne nel momento in cui una sdegnata Giuditta affonda la lama, momento reso quasi catartico dall’incessante susseguirsi di note sincopate, e per finire un ritorno all’armonia e all’equilibrio nel rendere omaggio al celebre Canestro, con sottolineature musicali distese e descrittive. Sono solo alcuni dei tratti salienti di un progetto che convince e vince.

Attraverso le note, Rita Marcotulli dipinge con i suoni le atmosfere cariche di contrasto e di emozione delle opere del grande maestro del baroccco.
Ogni brano è un omaggio a un quadro, una luce che illumina un dettaglio, un’ombra che cela un mistero. La musica diventa così un’estensione della pittura, un’interpretazione sonora che ci permette di penetrare più a fondo nell’anima delle opere.

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Ora, sappiamo tutti come il jazz possa essere ostico a volte anche al pubblico più raffinato. Lo sa anche Rita Marcotulli, come ha sottolineato durante il bel concerto che ha tenuto questa estate nel Palazzo dei Priori di Perugia, nell’ambito della rassegna di Umbria Jazz, a cui abbiamo avuto il privilegio di assistere.
Ma l’incanto di questa Donna straripante di talento consiste proprio in questo. Con la sua semplicità, con la capacità che ha non solo di articolare pentagrammi perfetti e suggestivi, ma di farli arrivare sotto forma di musica ed energia al pubblico, quel jazz si addolcisce, si veste di seta, scalda e coinvolge.
E il pubblico, il suo pubblico, la ama proprio per questo.
Grazie Rita.

Roberta Gioberti

Free Love: i Negramaro raccontano il nuovo album che soffia su un vento di libertà

I Negramaro pubblicano il nono album “Free Love” e ancora si emozionano come la prima  volta.

In questa occasione sono dodici le tracce che compongono il disco con tanti duetti che sono figli di amicizie di lunga data e di stampo fraterno. Tra tutti segnaliamo i duetti con Niccolò Fabi, Fabri Fibra, Malika Ayane, JJ Julius Son e quella con Aiello, frutto di una sintonia nata dietro le quinte del Festival di Sanremo del 2021.

Il disco è stato registrato a Berlino negli Hansa Studios ma le musiche e i testi sono di Giuliano Sangiorgi la cui produzione artistica si è avvalsa della  collaborazione di diversi decani del settore come Taketo Gohara, Andro, d. whale (Davide Simonetta). Il file rouge che accompagna il lavoro trova efficace espressione nella cover del disco  in cui è riprodotta l’opera originale “Narciso” di Jago in cui vengono rappresentati l’uomo riflesso in una donna e il suo contrario. L’intento è quello di rispecchiare la simmetria dei sentimenti narrati dai Negramaro che, partendo da racconti personali, rivendicano la  libertà di amare sé stessi e gli altri senza pregiudizi ma anche senza possesso o prevaricazione della libertà altrui.

“Questo disco è il frutto di una consapevolezza acquisita dopo anni e anni di lavoro nella band”,  spiega Giuliano Sangiorgi alla stampa. “C’è stata veramente una grande evoluzione, siamo noi all’ennesima potenza, ci ritroviamo in tanti artisti giovani, ritroviamo tante analogie di cose fatte all’interno della band. Essere liberi è determinante ma è una libertà che stiamo imparando ad avere. Siamo sempre stati liberi ma in una civiltà la libertà si impara, non è fare quello che vuoi e basta, si tratta di imparare a fare quello che vuoi rispettando gli altri; è un’ossessione bellissima quella di voler essere liberi, quell’ossessione che abbiamo dentro non è mai negativa, ti spinge a fare le cose migliori, significa voler mostrare l’animale migliore di sé, è un disco quindi che impara ad essere più libero e senza la parola però accostabile accanto.

Anche i feat. rispettano la libertà con cui sono arrivati,  con ognuno di essi è stato così. Impariamo anche dagli errori, senza rimanere nel pregiudizio.

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Amore è tutto quello che sta dentro l’essenza dell’umanità stessa, noi crediamo che ci sia amore in ogni manifestazione di vita, nell’arte soprattutto. Stiamo cercando di non smussare più gli  angoli ma di incastrarci in essi, facendone la nostra grandezza; sono passati 24 anni ed è stupendo essere qui a raccontare di dischi, concerti, stadi e palasport. Ci siamo quindi concessi di amarci per come siamo stati in questi anni e per come saremo nel futuro.

Produrre un disco con più produttori ci esponeva al rischio di avere diversi suoni invece questa cosa non si è verificata. Questa volta, racconta Giuliano, ho preso in mano un po’ il lavoro, non voglio fare il producer, ma tutto ciò che sentite ha molti provini che si mantengono fedelissimi all’originale. Per me la prima cosa che faccio è sempre quella sbagliata,  in realtà quello che arriva  e traspare dal suono  dell’album è l’istinto, salvato dai produttori. Questo disco aveva quindi già la chiave corretta, sono stati bravi i produttori intorno a tenere viva quella cosa che io di base avrei trasformato, questo ci ha consentito di andare dritti in studio e fissare la magia. Il tempo è stato stato fondamentale, eravamo a Berlino a marzo -aprile ed eravamo già pronti con il disco, abbiamo però chiamato da Berlino Filippo Sugar, chiedendogli di uscire con il disco nel momento in cui eravamo pronti a incontrare le persone, era un nostro desiderio che ci ha spinto a programmare l’uscita in questo periodo in cui eravamo liberi per farlo. Non è solo questione di tempo che passa ma di rispetto per gli altri; i nostri dischi non hanno mai avuto una data di scadenza.

Quello dei tre minuti è rimasto un claim perfetto della mia vita, io rimango sempre affezionato a quelle canzoni che arrivano in meno di tre minuti, sono tagli sulla tela, sono quelle cose che restano appiccicate anche alla band altrimenti non ce la farebbero. Mi fido solo quando una canzone arriva e strazia il sereno, è una gioia quando una canzone racconta di qualcosa di felice, in qualche modo una  canzone è sempre un errore del sistema, è un momento della quotidianità in cui si apre un varco spazio-temporale in cui essere totalmente libero. Vorrei essere sempre in grado di trovarmi pronto per quei tre minuti, è sempre quello l’approccio e quando succede ti senti in pace con te stesso, senti di nuovo quell’animale che ti porti dentro.

I dischi, in generale, sono delle occasioni, a partire da un emergente fino a un artista navigatissimo. Aldilà del nostro percorso, si sta perdendo il concetto di occasione per comunicare, lanciare dei messaggi. Ogni album per noi è stata una foto del periodo che abbiamo vissuto, l’aspettativa è quella di continuare a vivere di musica ma rimanendo slegati da vendite e streaming.  Che siano passati 24 anni insieme, va già oltre ogni aspettativa. Ecco perché Free Love soffia su questo vento di libertà senza preoccuparci e senza voler sapere fin dove ci spingerà. Free love, do you feel the same?”

Raffaella Sbrescia

Subsonica live a Milano: il racconto dell’emozionante rituale per l’ultimo atto de la Bolla tour.

La seconda serata di Cuori Impavidi 2024 - la rassegna di MI AMI Festival e Circolo Magnolia  all’Idroscalo di Milano- vede protagonisti i Subsonica che, uno alla volta salgono sul palco, come in un rituale, per l’ultimo atto de la Bolla tour. La band torinese si stringe e travolge il pubblico, ormai vera e propria comunit,  in un live tiratissimo della durata di più di due ore in cui è palpabile è l’emozione vissuta dai nostri cinque. D’altronde lo avevano già spiegato mesi fa, questo tour è stato molto speciale in quanto è stata l’occasione per i Subsonica per ritrovarsi e risplendere di rinnovato fulgore.

Il pubblico queste cose le percepisce e restituisce questo entusiasmo in forma di energia, movimento e propulsione. Una sorta di circuito virtuoso in cui entrambe le parti si sentono un tutt’uno forte e vibrante. La prima parte del concerto vede in primo piano alcuni estratti dal decimo disco della band “Realtà aumentata”: Cani umani, Mattino di luce, Pugno di sabbia, Africa su Marte sono già parte della ricca antologia dei Subsonica, il cui suono si conferma dinamico, ricco di infinite sfumature e capace di insediarsi nelle viscere e nella testa. Samuel è lo sciamano che invoca occhi, orecchie e voci del pubblico, raccontando questo ultimo periodo che ha felicemente travolto la band. La scaletta prosegue suadente nei più profondi meandri della tana dei Subsonica con: Veleno, Aurora sogna, Liberi tutti, il tutto con i bellissimi visuals del collettivo High Files Visuals.

A me tocca la parte romantica della serata dice Boosta: “Sembra una storia triste ma è ricca di gioia … quando abbiamo iniziato a scrivere il decimo album, non avremmo immaginato  di aver ancora il privilegio di essere sul palco. Essere qui a festeggiare insieme a voi è un regalo enorme, promettiamo che se tutto va come deve andare torneremo veramente molto presto”.

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Si continua a ballare con l’immancabile Discolabirinto,  a seguire Nuvole rapide, L’Eclissi, Grandine, Universo. Lo scienziato Boosta, l’ufficiale sommozzatore Vicio, l’ufficiale pilota Max e l’ingegnere elettronico Ninja fluttuano voluttuosi sul palco insieme al super frontman Samuel; poi tutti insieme accolgono il rapper Ensi, fedele compagno di questo tour, sulle note de Il Cielo su Torino. Subito dopo arriva anche un altro amico, si tratta di Willie Peyote con cui servono al pubblico Scoppia la bolla.

Ensi e Willie cantano insieme Numero uno, brano ricco di significato, scritto proprio da Ensi.

Molto significativo l’omaggio  a tre voci al genio di Neffa con il suo brano Aspettando il sole. “Stare sul palco con dei fratelli è impagabile e loro due sono nostri  fratelli sono da sempre”, dice grato ed emozionato Samuel. Molto intenso il  successivo momento di Giungla nord.

Il pubblico è ancora pronto a dare tutto, ecco quindi incedere il rush finale dello show: riappare in scaletta, dopo tempo immemore, Istrice. Max Casacci è protagonista di un importante monologo in cui chiarisce l’importanza e l’urgenza del senso di comunità come antidoto per questi tempi malati, ringrazia le realtà che ancora, non senza fatica, promuovono la musica dal basso, ricorda le stragi di morti nel Mediterraneo introducendo, a ragion veduta, il brano Nessuna colpa.

“Il fottuto pubblico dei Subsonica è ancora in forma”, evidenzia e sottolinea Samuel, ecco perché il quartetto: Diluvio, Lazzaro, L’odore, Tutti i miei sbagli si rivela incandescente. Cadono spontanee le lacrime di commozione sulla closing song Strade: “Grazie a ognuno di voi per aver preso ognuno la propria strada ed essere venuto qui stasera”, ringrazia ancora Samuel. Chiudendo al meglio il rituale tra gli applausi a scena aperta. Di lì a poco, mentre qualcuno va via, un nuovo flusso della notte arriva per l’aftershow, un’ ultima cerimonia notturna in cui i nostri cinque si avvicendano alla consolle in un flow di influenze, rimandi e spunti che, siamo certi, sarà ancora linfa vibrante per cose nuove che saremo ovviamente pronti a vivere e ascoltare.

Raffaella Sbrescia

Umbria Jazz: l’ultimo report del concerto di Djavan e un bilancio generale

E’ trascorso qualche giorno dalla conclusione della cinquantunesima edizione di Umbria Jazz, un’edizione che ha visto, come evento clou dell’ultima giornata, l’esibizione di Djavan, interprete cult della musica brasiliana, che ha scelto proprio Perugia per una delle sue due date italiane del D. Tour: l’altra al teatro Arcimboldi di Milano.
I brasiliani in Arena Santa Giuliana sono moltissimi, e brasilianamente accettano l’invito dell’artista ad avvicinarsi sottopalco, ed è subito festa.
Balli, canti, bandiere e tanto romanticismo per questo delicato portavoce di note dal Brasile che oramai ha consolidato una carriera ultracinquantennale, e che ha lasciato un’impronta indelebile nella scena musicale del suo paese e non solo.

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Originario di Maceió, membro di una famiglia poverissima, Djavan ha saputo combinare le radici musicali della sua terra d’origine con le influenze internazionali, creando uno stile molto personale e riconoscibile. Così al samba e al forrò si vanno a intrecciare le note proprie del rock, del pop, della musica africana creando a una miscela scoppiettante che lo ha reso uno degli artisti brasiliani più conosciuti e apprezzati al mondo.
Sin dagli esordi, dal 1976, quando pubblicò il suo primo album “A Voz, o Violao e a Arte del Djavan” si è imposto all’attenzione del pubblico con la famosa “Flor de Lis”: da allora sono stati tantissimi i riconoscimenti ricevuti, e molte le collaborazioni con artisti di fama internazionale. Tra loro i Manhattan Transfer, Zucchero, Fiorella Mannoia, Loredana Berté, Al Jarreau, e in patria Chico Barque, Caetano Veloso e Gal Costa.
Particolarità di questo artista è la descrizione del quotidiano, dell’amore, delle storie di tutti i giorni, della vita semplice, il tutto reso a pennellate delicate, a tratti carezzevoli. E in questo quadro di semplice intimità si incastona il concerto di Perugia, con un pubblico coinvolto, sognante, innamorato. Una coppia di amici, venuta appositamente da Napoli, mi ha confessato che è stato la colonna sonora del viaggio di nozze in Brasile: e come non commuoversi?

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Sul palco una band di tutto rispetto, composta da Paulo Calasans e Renato Fonseca alle tastiere, Luis Felipe Alves alla batteria, Joao Castillo Neto alla chitarra, Marcelo Mariano al basso, Jesse Sadoc alla tromba e Marcelo Martins al Sax, ne accompagna le evoluzioni vocali, a parte la parentesi a solo durante la quale si crea un momento di grande empatia col pubblico: pubblico con cui è evidente che Djavan ci tiene a entrare in intimo contatto. E il pubblico lo ricambia con commozione ed affetto, creando una sorta di atmosfera dalle tinte oro e rosa, per un concerto che va a pizzicare le corde dei sentimenti più delicati e positivi.
A seguire, la Pacific Mambo orchestra, dalla California, conclude letteralmente le danze di un’edizione che ci ha appassionato assai.
Lenny Kravitz, Nile Rodgers, Carl Potter e il suo quartetto di numeri primi, Hiromi, Chucho Valdés, Roberto Fonseca, la divina Raye, Rita Marcotulli, Capossela, Galliano…

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Un’edizione ricca, serrata, di qualità assoluta. A nostro avviso, entusiasmante, come entusiasmanti sono stata i numeri relativi alle presenze: 250 eventi, 12 location, 600 musicisti, 42.000 biglietti venduti.
L’organizzazione, come sempre, perfetta, e non ci resta che augurarci che Umbria Jazz ci accolga con affetto anche per la prossima edizione. Noi di Ritratti di Note, rinnovando una consuetudine che va avanti da tempo, saremo felici di esserci.
Grazie Perugia, Grazie Umbria Jazz.
Roberta Gioberti

Umbria Jazz: a Perugia si balla con gli Chic di Nile Rodgers

E’ sabato sera, e su Perugia aleggia un’aria febbricitante. No, non sono le poche gocce di pioggia, inattese e inefficaci tanto a rinfrescare l’aria, quanto a disturbare gli eventi all’aperto, la causa. La causa è Nile Rodgers. La causa sono gli Chic.
Si balla questa sera a Perugia, e si balla in pedana. Nile Rodgers, newyorkese classe 1952, rappresenta l’eccellenza per quello che riguarda il mondo della produzione discografica pop. Ed è anche a lui che dobbiamo la colonna sonora di momenti indimenticabili della nostra vita.
Chitarrista di buon livello, Rodgers cominciò il suo percorso artistico suonando come turnista presso l’Apollo Theater di Harlem, insieme a star affermate del mondo del soul, del jazz e del rock and roll, ma ben presto sentì l’esigenza di ampliare i suoi orizzonti e creare qualcosa di suo, complice anche il desiderio di riscatto verso un contesto fortemente discriminatorio nei confronti della gente di colore, causa per cui si spese partecipando attivamente alle iniziative delle Pantere Nere a New York.
Dopo alcuni tentativi di irrilevante successo, nel 1977 insieme al bassista Bernard Edwars e al batterista Tony Thompson formò la band degli Chic, e il trionfo interplanetario non tardò ad arrivare. Una band di disco music, gli Chic, ma sicuramente di altissima qualità, che ricordiamo per via di un paio di tormentoni da cui però era bello farsi tormentare: Le Freak e Everybody dance.
Disco, ma sicuramente molto ricca e tutta suonata, senza supporti elettronici di alcun tipo: una disco piena zeppa di hip hop e di funky.

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Nel 1980 Rodgers inizia il suo percorso nella produzione, facendosi carico, insieme all’amico Edwars di sostenere il disco di Diana Ross che porta il suo stesso nome, Diana, e che contiene grandissimi successi, basti pensare a Upside Down. Nel 1983 sostenne l’amato Duca nella produzione di Let’s Dance, album che segnò una svolta nella storia di David Bowie, e che, a oggi, rappresenta il suo maggior successo commerciale.
La carriera di produttore prese il via, e vanta collaborazioni con nomi della musica che hanno fatto epoca: Madonna, i Duran Duran, Grace Jones, Michael Jackson fino ad arrivare, nel 1996, a fargli ottenere il riconoscimento di Primo produttore del Mondo, da parte del Billboard Magazine.
E i successi di quelle produzioni Rodgers in questa afosa serata umbra ce li ripropone tutti. Sul palco una coreografia ipersgargiante, una sezione di fiati molto attenta e partecipativa, due voci femminili nere di indiscutibile spessore, uno spettacolo dai ritmi serrati, ricco di aneddotica, e decisamente coinvolgente. L’incipit lo affida ai due brani che gli sono valsi la fama con gli Chic, e poi da Modern Love a Like a Virgin, da Notorius a We are family, da I’m comin out al sopra citato Upside down è un susseguirsi incalzante di pezzi iconici, musica che, volenti o nolenti (e ai tempi parecchi erano i nolenti, ma tant’è), ci ha fatto da colonna sonora, mettendo freschi accenti su momenti della nostra adolescenza che ci sono rimasti nel cuore.
Vestito di bianco sgargiante e in vena di chiacchiere, Rodgers ci fa ripercorrere 50 anni di storia di un genere che ha sbancato i botteghini, incassato milioni di dollari, fatto ballare cinque generazioni.
Good times e good feeling, quello di ieri sera. Il pubblico è decisamente su con gli anni, ma balla come se ne avesse diciotto. Coppie mature si abbracciano, ricercando la spontaneità dei primi approcci, magari proprio in discoteca, magari proprio con quel brano lì e, quello che più entusiasma, è che la trovano.

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L’Arena è sold out e festosa, la musica arriva potente, e sul finale l’esecuzione di Last Dance ci fa inumidire gli occhi. A omaggio dell’amato Bowie, sullo schermo, compare a lungo, il fulmine bicolore, e trattenere le lacrime non è facile.
Sul palco una presenza importante, il bassista Jerry Barnes che spadroneggia interfacciandosi spesso in prima persona col pubblico e contribuendo a mantenere alti i ritmi, anche se non ce n’è bisogno. Il pubblico, caricato a molla, va avanti ad oltranza di suo, fino al comparire, sul maxischermo, della scritta “Grazie Umbria Jazz”, commiato sincero da parte di una band che ci ha fatto davvero divertire.

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Ognuno ringrazia come sa, Nile Rodgers sa farlo bene, e noi speriamo di riuscire a restituirgli la gratitudine che merita, perché senza di lui certi momenti della nostra vita sarebbero stati diversi, e invece ci sono piaciuti così.
Grazie Nile.

Roberta Gioberti

Umbria Jazz: quattro spettacoli all’insegna del jazz etnico, con sconfinamenti nel tribal e nel repertorio latinoamericano più ricercato.

I concerti del 18 e del 19 luglio all’Arena Santa Giuliana hanno avuto un carattere monotematico e geografico: Africa il 18 e Cuba il 19: quattro spettacoli all’insegna del jazz etnico, con sconfinamenti nel tribal e nel repertorio latinoamericano più ricercato.
E tre di loro sono stati veramente eccezionali.

La prima menzione è per Somi, che ha sostituito Laufey, e che con la sua caratterizzazione vocale crea un raccordo tra il le sonorità jazz più pure e raffinate, il soul e le radici musicali africane. Somi, statunitense dell’Illinois, si ispira alla figura di Miriam Makeba, cantante gigantesca, attivista per i diritti civili in sudafrica per cui ha composto anche un musical: “Dreaming Zenzile the reimagination of Miriam Makeba”, in celebrazione di quello che avrebbe dovuto essere il suo novantesimo compleanno. Un lavoro è stato premiato con il Jazz Music Award per l’interpretazione vocale. E la voce sicuramente non manca a questa statuaria artista, che propone sul palco della Santa Giuliana un’ ora abbondante di performace vocale nella miglior tradizione jazzistica, con vocalizzi che riportano alla mente le evoluzioni di Nina Simone e Dianne Reeves cui viene spesso paragonata, e anche Joni Mitchell. Già presente in rassegna lo scorso anno, con movenze di danza quasi tribali, nonostante la raffinata mise scenica, e con una vocalità articolata e plasmabile molto espressiva e spontanea porta una nota diversa rispetto a ciò che andremo a vedere in seconda serata e nella giornata del 19.

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Qui il Jazz è dominante, la coniugazione con la tradizione sudafricana avviene più in termini di contenuti che di espressione sonora, l’ascolto è impegnativo, e non ce ne sentiamo all’altezza: quando il jazz si fa puro, purtroppo, i nostri padiglioni auricolari non hanno la capacità di sostenerlo in tutta la sua integrità, ma è un limite nostro. La donna che è sul palco merita un profondo inchino e un prolungato applauso per i suoi vocalizzi di assoluta qualità, per la sua performance artistica, per la sua formazione, per lo spessore umano, e per l’impegno in ambito politico e sociale. E si esibisce il giorno del Mandela Day, non crediamo sia una coincidenza, ma se lo è, è una coincidenza assai significativa.

E’ poi la volta dell’attesissima, colorata, esplosiva Fatoumata Diawara, e la musica cambia completamente. Qui siamo nella dimensione afrotribale più convinta, e, va detto, assistiamo a qualcosa di davvero entusiasmante. Nata in Costa d’Avorio ma genitori provenienti dal Mali, in Mali torna all’età di 12 anni, e poco dopo, comincia la sua carriera artistica come attrice. Ha lineamenti bellissimi e particolari, Fatoumata, già solo i primi sorrisi che rivolge a noi fotografi nel pit, ci annunciano una serata all’insegna del “feeling good“, standard inserito nella performance e proposto anche a Propaganda Live che l’ha voluta nei suoi studi proprio di recente. Ha chiesto di non occupare la parte centrale del PIT: le foto si (e ci caveremo la voglia, per la tanta bellezza che c’è da ritrarre), ma nel rispetto del pubblico.

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Ora, apriamo una parentesi: i fotografi sono molesti, soprattutto quando sono tanti. Spesso non hanno rispetto per il pubblico pagante che ha il sacrosanto diritto di godersi il concerto in santa pace. Ne siamo consapevoli, noi fotografi. Forse non tutti, ma sicuramente chi sta sotto un palco da decenni sa come ci si deve muovere. Non sempre accade, quindi bel venga, almeno per quanto ci riguarda, la decisione presa a tutela del pubblico.
Ma torniamo a lei: Fatoumata si ispira al canto wassoulou, con incursioni nel jazz e nel blues. Ha avuto modo a inizio carriera di collaborare con Herbie Hancock, e diventa in breve tempo una delle rappresentanti più significative della musica contemporanea africana. Colore, danze, musica pirotecnica, scenografie variopinte e raffinate, in cui si mostra, anche attraverso i filmati che scorrono alle sue spalle, in tutta la sua bellezza: messaggi incondizionati di amore, pace e serenità. Un invito continuo ad aprire la mente, a lasciarsi andare, a partecipare. Chiama il pubblico sottopalco, e il pubblico non se lo fa dire due volte.
Fatoumata Diawara è quasi profetica nel suo raccontare l’Africa e il potenziale espressivo del continente nero, nell’immaginario che lo unisce all’Europa, crea una dimensione in cui è possibile impadronirsi del proprio futuro, e si, chi l’ha definita “Afrofuturista”, non ha sbagliato.
Ci lascia con un’esibizione, in un bis più volte reiterato, di impatto squisitamente tribale. Maschera tradizionale e una grande energia, che riscatta la difficoltà di ascolto del concerto precedente. E le auguriamo un futuro coronato da meritati successi e grande visibilità. Il mondo della musica ha bisogno di lei.
Nella giornata del 19 luglio, invece la protagonista è la Isla grande, Cuba: la patria della musica per eccellenza.
A Cuba suonano tutti. Abbiamo avuto l’opportunità di soggiornarvi a lungo, e abbiamo visto fare musica con tutto. Cuba si sveglia a passo di danza e va a dormire a passo di danza, quando va dormire: non esiste nulla di tanto coinvolgente al mondo come l’energia positiva che arriva dai ritmi cubani, che sono qualcosa di profondamente diverso e raffinato rispetto ai ritmi latinoamericani più ortodossi.
E questo ci racconta l’ultra ottuagenario Chucho Valdès, in un’ora e mezza di concerto che ne vale dieci. Probabilmente il più famoso musicista cubano di Jazz, dopo un’entrata divertente e divertita (oddio, questa sera i cubani ci hanno fatto impazzire di gioia e divertimento) questo potente figlio d’arte comincia subito con Mozart, e che Mozart: scoppiettante e allegro sui tasti del pianoforte il musicista austriaco viene reinterpetrato in chiave jazz con una fluidità che sente l’influenza del sudamerica, e in particolare di Cuba, dove con la musica si può tutto. Entra in scena a pugno chiuso, e con tanto di bandiera cubana e italiana al seguito, eppure negli Stati Uniti è stimatissimo: cittadino onorario di Los Angeles, San Francisco, New Orleans e Madison, premiato con i grammy awards, gli states lo amano, lui non disprezza, ma cuore e anima sono a Cuba. Ha ridisegnato i tratti della musica cubana , ha diretto molte band e questa sera celebra Ikarere, e il suo cinquantennale. Si muove, scherza, dirige, suona…quanta energia positiva questa cariatide del Jazz, nella festa in onore di quella che ha rappresentato una vera e propria linea di demarcazione per quanto riguarda la musica della Isla Major. Esiste un prima e un dopo il progetto Ikarere, e Valdes ne è la mente raffinata, che ha fatto della contaminazione ad ampio spettro quasi una missione. Musica popolare, afrocuba, fusion, jazz, rock, musica classica: quante cose ci mette Valdès sui tasti del pianoforte. Tante da mandare in visibilio e lasciare letteralmente a bocca aperta.

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Musica e alchimia, diremmo, in una performance difficile da dimenticare e, sì, commovente.
Ci commuove Cuba, ci commuove la sua generosità: come non ricordare la sorridente equipe medica sbarcata con i vaccini (a prescindere da come la si pensi, un gesto di generosità assoluta), in un paese che, forse con meno convinzione di altri, va detto, ma è pur sempre complice di quella politica di embargo che da più di sessant’anni ne determina le condizioni di vita, decisamente poco agevoli. Eppure i cubani non perdono il sorriso, l’energia e le note.
Non lo fa Roberto Fonseca, incredibile protagonista del concerto successivo. L’aria già frizzante, si riempie di un perlage di bollicine che scoppiettano su per il naso, di energia densa e quasi materica.
Con all’attivo collaborazioni con i mitici Buena Vista Social Club e Ibrahim Ferrer, anche per Fonseca la contaminazione è fondamentale criterio di espressione.

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Siamo di fronte a un pianista che abbraccia il pianoforte, fisicamente, che fa vibrare i bicipiti mentre “pista” elegantemente sui tasti, che accompagna la musica con espressioni del volto estremamente accattivanti. E che suona con una band da paura.
Nel progetto che abbiamo apprezzato in maniera totale, e che prende il nome di La Gran Diversion, Fonseca si stacca dal suo genere consolidato e si butta a volo d’angelo nelle sonorità più espressive della madre patria. Dediche a Buena Vista (los Mejores), un viaggio nella Cuba degli anni 20, del favoloso Perez Prado, quella del mambo, un invito a ballare fin quando ce n’è, qualche ammiccamento elegante al tribal cubano, che è un tribal raffinato, molta coreografia, musicisti bellissimi, entusiasmanti sorridenti, che escono e rientrano sul palco tre volte, e ogni volta si abbracciano tutti. Lo fanno con convinzione, si cercano, ci cercano: di fronte a tanto disinvolto calore, che culmina in un momento di altissima commozione nel brano dedicato alla Madre, Mercedes, mentre scorrono le slide delle foto dell’album di famiglia, e della Cuba meravigliosa che non smetteremo mai di amare, balliamo, ma con gli occhi umidi per la commozione, e ci allontaniamo a ritmo di danza da un’arena che stenta a spegnersi.
Grazie Cuba e grazie Umbria Jazz.
Roberta Gioberti

Umbria Jazz: il compitino dei Toto e il mecenatismo raffinato di Bosso. I report dei due concerti

Grande attesa per il concerto dei TOTO a Umbria Jazz: l’evento Rock dell’Arena Santa Giuliana. E, pur non essendo fan della band, comprendiamo giustamente gli entusiasmi che hanno accompagnato l’annuncio delle quattro date live in Italia del gruppo statunitense.
I TOTO si sono formati a Los Angeles nel 1976 e, del gruppo originario, è rimasto solo il chitarrista Steve Lukather, accompagnato da Joseph Williams, la più vecchia tra le voci che si sono alternate nel corso degli anni. Tante, infatti, sono state le sostituzioni operate dagli inizi degli anni ’80, e la formazione attuale non ha più quasi nulla di quella originaria.

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Adesso al suo organico oltre a David Paich, che ha collaborato alla realizzazione dei primi album, senza però mantenere una continuità di presenza nel tempo, la band annovera John Pierce, Robert Searight, Steve Maggiora, Dominique Taplin e Warren Ham, e in questa formazione sta portando in giro per il mondo una tournée decisamente impegnativa. Arena Santa Giuliana sold out e fan di più generazioni in modalità “grande evento”. Un grande evento che però, a nostro avviso, ha un pochino deluso.
Innanzitutto la platea è seduta, e seduta rimane fino alla fine del concerto. Ora, la pretesa di far stare sedute le persone durante un concerto rock ci sembra francamente un assurdo. Ricordiamo il meraviglioso concerto di David Byrne del 2018, la gente riversata sotto palco e il frontman del Talking Heads dire chiaramente “o li fate ballare, o fermo il concerto”. E ci saremmo aspettati qualcosa di simile, qualcosa che però non accade fino all’esecuzione degli ultimi due brani. Ecco, in questo senso, il calore che avrebbe dovuto caratterizzare una serata così importante è mancato.

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Sono una band significativa, i TOTO, con i loro 14 album pubblicati, tutti i dischi live, i quarant’anni di attività, ma una band che non si riesce bene a definire in termini di continuità di ascolto, almeno qui in Italia. Parlare dei TOTO significa evocare alcuni grandi successi, come Africa o Rosanna e poco più: ma non alle orecchie del pubblico di Perugia che, regolarmente equipaggiato di maglietta commemorativa, in gran parte i brani se li canta tutti. Evidentemente estimatori.
Ci si sarebbe attesi una partecipazione rock con tutti i crismi, e invece si ha un poco la sensazione di guardarlo in TV, questo concerto. Belli gli effetti luce, le scenografie, bravi loro, ma poco trainanti. E, va detto, il pubblico non ha neppure un granché voglia di essere trainato. Dopo aver assistito all’incredibile live di Kravitz, beh, la delusione è molta.
Il filo conduttore del concerto è un album live, “Whit a Little Help From My Friends” uscito già da qualche anno in cui, oltre ai brani già citati, e ad altri altrettanto noti, vengono proposti brani meno noti, come Georgy Porgy, Pamela, Girl Goodbye. Tutto sulla base di una scaletta già prestabilita che nulla concede a digressioni.
Sul palco non si fanno guardare dietro, grande professionalità, armonie rese alla perfezione, intrecci di note e di strumenti. Un ascolto decisamente gradevole, ma si ha la sensazione di essere di fronte a un pacchetto ben preconfezionato poggiato sul banco di un supermercato. Niente a che vedere con gli acquisti di qualità fatti direttamente in bottega.
Due ore precise di concerto, pubblico, ripetiamo, quasi interamente seduto comodamente in poltroncina (quelle dell’Arena santa Giuliana sono molto comode, va detto), circa 30 minuti persi in chiacchiere, una simpatica presentazione dei componenti del gruppo attraverso l’esecuzione di accenni di brani celebri altrui, 16 brani come da scaletta, e nessun bis.
Il pubblico nemmeno lo chiede, il bis. Si alza, composto, e defluisce.
Nessun delirio, nessuna improvvisazione, nessun mancamento, niente di tutto quello che il rock non chiede: impone. Vero è che un concerto dei TOTO va visto nella vita, ma forse siamo arrivati nel momento sbagliato. Ci duole dirlo, ma un’esperienza assolutamente evitabile.
Nel pomeriggio invece, al teatro Morlacchi, Fabrizio Bosso ha presentato About Ten, progetto realizzato in collaborazione con Paolo Silvestri che ha curato gli arrangiamenti dei brani.

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Si tratta di una rivisitazione di alcuni grandi maestri del Jazz, come Gillespie, Duke Ellington, affiancata dalla proposta di brani originali, nell’esecuzione di Mazzariello al pianoforte, Ferrazza al contrabbasso, e Angelucci alla batteria. Oltre a loro, un sestetto di fiati selezionato tra giovani talenti provenienti da tutta la penisola, e questo è l’aspetto veramente interessante del progetto.
L’impegno del trombettista italiano nel promuovere la musica presso le nuove generazioni è sempre stato alto. I talenti vanno valorizzati, e consentire loro di avvicinarsi a un palco come quello del Morlacchi rappresenta un fattore di notevole motivazione. Della bravura di Bosso non stiamo nemmeno a parlare, ma di questa forma di impegno sì, perché è un aspetto meno evidente ma non meno importante nella realtà musicale di un artista che, giustamente, consideriamo un vanto.
E’ un impegno che va avanti da tempo. Bosso non è nuovo a questo genere di sana sponsorizzazione. Già nel 2021 si rese protagonista di una performance di altissimo livello e coinvolgimento nel progetto Erios Junior Jazz Orchestra, una formazione di ragazzi composta da circa trenta elementi di età compresa tra i 7 e i 20 anni, diretta da Mario Biasio.
E’ importante per le future generazioni di musicisti avere certi riscontri e certe opportunità, e di questa sensibilità, che va ben oltre le potenzialità diaframmatiche del fantastico trombettista, siamo sinceramente grati.

Roberta Gioberti

Umbria Jazz: le Signore dicono la loro, e la dicono a gran voce: Rita Marcotulli, Hiromi e Lizz Whright.

Giornata di scoperte e di conferme la quinta di Umbria Jazz. L’appuntamento pomeridiano in sala Podiani è con Rita Marcotulli. La Signora Marcotulli non ha bisogno né di presentazioni né di referenze. Il suo talento la ha giustamente portata a calcare le scene internazionali, e rappresenta il nostro fiore all’occhiello, per quanto riguarda il Jazz italiano nel mondo.

Ci piace ricordare, anche per motivi squisitamente personali, che è figlia di Sergio Marcotulli, uno dei tecnici del suono più significativi nel trentennio compreso tra il 1970 e il 1990.
Il suo nome e la sua foto comparivano già all’interno dell’album di De André “Storia di un impiegato”, e senza di lui molta della musica che abbiamo conosciuto ed amato, e continuiamo ad amare, non avrebbe suonato così bene.
La sensibilità artistica e quella musicale, quindi, le ha nel sangue, e nel corso della sua oramai quasi cinquantennale carriera è riuscita, con grazia, leggerezza e determinazione, a imporsi sulle scene musicali di tutto il mondo, vantando collaborazioni davvero importanti.

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Nel 2017, proprio qui ad Umbria Jazz venne insignita del riconoscimento di Ambasciatrice dell’Umbria nel mondo, e nel 2019 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella le ha consegnato il premio onorario come Ufficiale della Repubblica. Sempre nello stesso anno la Royal Swedish Academy of Music le ha conferito il ruolo di membro, accanto a nomi del calibro di Path Metheny, Keit Jarret, Riccardo Muti: insomma un monumento.
Arriva con una semplicità che innamora, sembra una farfalla, sorridente, disponibile, è li, la potresti toccare e lo fai, idealmente: una sorta di statua di Donatello che puoi accarezzare in tutto il suo splendore.
Ecco, la semplicità e la disponibilità di Rita sono quasi disarmanti.
Il suo set, per “Piano Solo” si articola su esecuzioni che coinvolgono il pop, la musica da cinema, un emozionante Pasolini, i Beatles…ce n’è per tutti.
Ma la cosa che più colpisce, sono le parole semplici che rivolge al pubblico: ”non lo so nemmeno io che suono, e mi rendo conto che andare a recuperare note distinguibili in un contesto di improvvisazione non è facile”. Si chiama empatia, o ce l’hai o non ce l’hai. Si può essere il top in fatto di conoscenze musicali e decidere, invece di farle cadere dall’alto, di porgerle su un vassoio di umiltà. E’ toccante.
Richiamata in sala (sold out, manco a dirlo) per un bis, gioca col pubblico, lo invita a partecipare, lo abbraccia.
Un monumento che si inchina: pensiamo non esista nulla di più commovente al mondo. Grazie Rita, grazie davvero.
Alle 17, al Morlacchi, in una Perugia che parrebbe meno affollata, ma non nelle sale, si esibisce l’ensemble Something Else: icona del soul jazz.

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Si tratta di una band di sette musicisti, selezionati di volta in volta ad ogni esibizione tra una rosa che annovera i migliori nominativi del genere. Vincent Herring al sax alto, Wayne Escoffery al sax tenore, Jeremy Pelt alla tromba, Paul Bollenback alla chitarra, David Kikosky al pianoforte, Essiet Essiet al contrabbasso. Assente Joris Dudli alla batteria, la sola piccola variazione al programma iniziale, il settetto regala note decise, molto soul, intense e impeccabili improvvisazioni sui singoli componenti, una formula ortodossa e molto valida per una proposta che viene apprezzata dai presenti in sala, sicuramente intenditori ed estimatori del genere.
Possiamo definirla una giornata all’insegna delle eccellenze femminili, quella del 16 luglio: in Arena Santa Giuliana il palco è tutto in rosa, con i concerti di Lizz Whright e Hiromi.

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Hiromi la ricordiamo nel 2017, quando diede vita ad un’esibizione stupefacente. E stupefacente è quanto vediamo su quello stesso palco oggi: una ragazzina, Hiromi, anche se non lo è più anagraficamente, fresca, colorata, originale, ossequiosa, come la miglior tradizione culturale giapponese impone. Parla in italiano, aiutandosi con degli appunti, è segno di rispetto e desiderio di comunicare con un pubblico che la ama: il famoso feedback che spesso fa la differenza.
Accompagnata da tre eccellenti turnisti, propone l’Hiromi’s Sonicwonder, un insieme frizzante di jazz, funky, rock, ma non solo: sul bis la sua esibizione si fa sognante, forse ispirata dalla luna che si staglia sul cielo sereno di Perugia, e ci dona un momento di fiabesca magia.

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Approvazione incondizionata dalla platea, riunitasi tutta sottopalco, e non potrebbe essere diversamente.

Prima di lei, però, sul palco una vera rivelazione, almeno per chi scrive. La divina Lizz Wright, una voce unica, densa, calda, fondente come una tazza di cioccolata in pieno invermo, scende su una platea incantata. Ecco, le cose che ci fanno amare Umbria Jazz: le scoperte.
Una cantante che sa ciò che vuole, che ama l’indipendenza, che ha fondato una sua casa discografica, proprio per avere il controllo diretto sulle sue scelte artistiche, senza dover rendere conto a nessuno: e già qui, tanto di cappello.
E’ blues il suo sound, blues caldo ed elegante, quella voce che smuove lunghi brividi sulla schiena, mentre la temperatura dell’aria pian piano cala, ma non quella dei cuori. Ciò cui assistiamo è davvero emozionante, qualcosa che vorresti non finisse mai. Ha qualcosa che ricorda Tracy Chapman, nelle corde vocali e non solo, e quando ci fa dono di una cover incredibile di “Old Man”, è sicuramente amore.
Insomma, le Signore dicono la loro, e la dicono a gran voce: Rita Marcotulli, Hiromi e Lizz Whright. Una giornata a tinte rosa, ma rosa intenso ad Umbria Jazz. Con buona pace, almeno per oggi, del mondo jazzistico maschile.

Roberta Gioberti

Umbria Jazz il “concerto perfetto” di Potter, Mehldau, Patitucci e Blake. E non solo.

Mentre i Funkoff colorano di note, come ogni anno, le strade di Perugia, prosegue la festa della musica, giunta ieri alla sua quarta giornata. La banda di Vicchio, capitanata dal suo fondatore, Dario Cecchini, sono oramai anni che è ospite fissa di Umbria Jazz, e rappresenta uno dei momenti di musica in strada più divertenti in assoluto. Si muovono coreograficamente i ragazzi toscani che hanno fatto scuola nel genere e, con la loro doppia uscita quotidiana, fanno parte di quello che assolutamente non si può perdere.
E’ tutta un suono, Perugia, e muoversi tra le sue strade medievali, in mezzo a scorci di una bellezza da togliere il respiro, è davvero un’esperienza indimenticabile.
Come indimenticabile è l’esibizione del duo Peirani Parisien in sala Podiani.

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Peirani è l’incredibile fisarmonicista francese che avemmo modo di conoscere proprio a Umbria Jazz qualche anno fa e propone un progetto dal titolo “Abrazo” insieme a Emile Parisien, connazionale sassofonista di Cahors. I due giovani e simpatici artisti danno vita a uno spettacolo magico, in alcuni momenti quasi circense, muovendosi tra scambi di fraseggi a modulazione alternata tra un tango, una ballata, un valzer, momenti jazz e momenti lirici, attimi frenetici e attimi di pace assoluta.
Ci si abbraccia nella danza, ma anche nella vita, ci si abbraccia tra amici e tra persone che si vogliono bene: ci si abbraccia anche nella musica, e Parisien e Peirani, che vantano una conoscenza di vecchia data, anche per aver intrapreso un percorso musicale simile sin dall’infanzia, seppur con strumenti diversi, proprio questo fanno. Si abbracciano con intensità e abbracciano il pubblico, lo coinvolgono in divertissments musicali e non, dando vita a un’esibizione difficile da dimenticare.
Le sale di Perugia sono tutte piene, è incredibile. Del resto la proposta è di qualità assoluta: a Perugia, anche in strada, c’è spazio solo per le eccellenze.
E eccellenza è quella di Danilo Rea, al Morlacchi alle 17, con il suo oramai collaudato e sempre vario “Piano Solo”, una serie di improvvisazioni su temi musicali generalmente mutuati dal pop e rivisitati in chiave jazz.
E’ indiscutibile il talento di Rea. Quello che gli rimproveriamo è il fatto di immergersi completamente nelle sue note, creando in qualche modo una sorta di campana di vetro tra lui e il pubblico, che pure lo adora, ma non riesce a entrare in contatto diretto. Nelle improvvisazioni di ieri, tanti gli accenni non completamente sviluppati.

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Mani che a un certo punto sembrano volare sui tasti, bravura da dieci e lode, ma l’impatto è rimasto un poco freddo. Alla fine, con l’esecuzione di “Un giorno dopo l’altro” di Tenco, e di “Merry Christmas Mr. Lawrence” di Sakamoto, la musica cambia, diventa più calda, quasi un rilassarsi dopo una tensione crescente. Ecco, se avesse inserito momenti così durante la performance (cosa che solitamente fa e ci si aspetta), lo avremmo apprezzato.
Arena Santa Giuliana, è il momento di Potter, Mehldau, Patitucci e Blake.
Ora, prendiamo quattro numeri primi: un numero primo, assoluto e indivisibile, al sax, uno alla batteria, uno al contrabbasso e uno al pianoforte, ed ecco che esce fuori il concerto impeccabile.
Mehldau è antipatico, non lesina di dimostrarlo anche nelle espressioni del volto, e seppur indiscutibilmente bravo, non riscuote la nostra personale ammirazione per via di questo limite caratteriale: tuttavia, nel susseguirsi di note proposte da Potter nel progetto sviluppato insieme, trova una dimensione davvero accattivante, quasi commovente. Per il resto, poco da dire, oltre al “il concerto perfetto”.
Blake incontenibile nelle improvvisazioni, Patitucci empatico, Mehldau indiscutibile, e Potter…beh, Potter ti prende e ti piazza direttamente sull’ancia, il suo respiro diventa il tuo, e il cuore batte all’unisono.

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Ripeto: “Il concerto perfetto”. Il profondo inchino dei quattro artisti si affaccia su una standing ovation meritatissima. Un altro grazie a UJ per questa cosa memorabile.
A seguire, i Gil Evans Remembered ci fanno dono di un’ora e mezza quasi due di ricordi: i ricordi di quello che è stato un momento topico per Umbria Jazz.
Nel 1987 infatti l’orchestra di Gil Evans, di cui alcuni componenti sono sul palco, ha eseguito una serie di concerti notturni nell’ex chiesa di San Francesco al Prato, che sono rimasti nella storia.
E’ a quei concerti che si ispira il repertorio messo in scena alla Santa Giuliana, arena non più affollatissima ma estremamente partecipativa.

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Un’emozione sul filo della memoria magistralmente orchestrata da Pete Levin, che introduce i brani con poche essenziali parole. I ricordi spesso portano con loro un retrogusto di stantio: ecco non è questo il caso.
Rivisitazioni vivaci capaci di solleticare la curiosità e l’attenzione di chi, purtroppo, a quell’esperienza non prese parte.
Insomma, chi sostiene che UJ abbia virato al POP, trascurando il Jazz, dopo la giornata di ieri sarà costretto a ricredersi.

Roberta Gioberti

La classe di Raye incanta Umbria Jazz

Terza intensa giornata a Umbria Jazz, quella di domenica 15 luglio.
Gli eventi a Perugia sono moltissimi, per tutti i gusti, tutte le tasche, tutti i sound: sarebbe bello poterli seguire tutti, ma del dono dell’ubiquità purtroppo non siamo ancora forniti. Così abbiamo assistito all’incantevole live di Kravitz, con un pochino di rammarico per aver dovuto tralasciare il concerto di Paolo Fresu al Morlacchi, programmato per la stessa ora.

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Mancano un poco gli appuntamenti notturni al Morlacchi che ci coinvolgevano stanchi ma ancora molto entusiasti. Sicuramente il nuovo orario di programmazione è più comodo, però quel mischiarsi di sapore di tabacco stantio in bocca, lacrimazione densa negli occhi assonnati e impiastricciati e meraviglia nelle orecchie era magico.
Restano immutati invece gli appuntamenti nella sala Podiani, arricchiti da importanti eventi nella prima fascia pomeridiana, come quello che ieri ha visto sul palco del Palazzo dei Priori il Micah Thomas Trio, formato appunto da Micah Thomas, Dean Torrey e Kayvon Gordon.

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Un jazz altamente innovativo, una sorta di raffinata rielaborazione gourmet di sonorità che prendono forme assolutamente originali e accattivanti. Esibitosi alcuni giorni fa a Spoleto, il trio, per la prima volta in Italia, propone a UJ il lavoro “Reveal”.
E’ un vero talento universalmente riconosciuto Thomas, che ha il coraggio di proporsi nello standard essenziale “pianoforte – batteria – contrabbasso”, per regalarci qualcosa di insolito che, come sostengono molti dei più grandi jazzisti di fama mondiale, lascerà un segno indelebile nella storia del Jazz.
Di corsa al Morlacchi, nuovamente sold out, per l’esibizione di Kurt Rosenwinkel’s the next step, accompagnato da Mark Turner, Ben Street e Jeff Ballard. Si riuniscono quattro nomi significativi del panorama jazzistico mondiale, intorno al progetto di un chitarrista decisamente importante, che già da solo riempie di atmosfera il teatro gioiello di Perugia, al suo terzo importante sold out in tre giorni, nonostante il caldo sia insopportabile. L’amore per la musica comporta qualche sacrificio, sacrificio che le note di Mark Turner al sax, i ritmi di Jeff Ballard alla batteria e le espressioni simpatiche e sonore di Ben Street al contrabbasso compensano pienamente. Ci fa piacere constatare come, rispetto alle precedenti edizioni che abbiamo avuto l’onore di seguire, il pubblico sia particolarmente coinvolto. Vero anche che la percentuale di stranieri è altissima, e sicuramente all’estero hanno orecchie diversamente allenate dalle nostre.
Ce lo dimostrano gli originalissimi CHA WA in Arena Santa Giuliana alle 21, in apertura del concerto di RAYE.
Da New Orleans, una band colorata e allegra, essenzialmente funky, ma che non disprezza il rap, il cui nome trae origine da una frase utilizzata dagli indiani del Mardi Gras, e significa “stiamo arrivando per voi”.
Una sintesi lessicale che si traduce in un’articolatissima estensione di suoni e colori, questi ultimi indossati da Honey Bannister, il frontman, che veste per l’occasione un costume dalle prevalenze di toni caldi, il giallo e il rosso, e un copricapo piumato che, davvero, non sappiamo come faccia a saltare e ballare senza sosta a 32 gradi fuori dai riflettori: figuriamoci sotto.

Honey Bannister @Umbria Jazz ph Roberta Gioberti

Honey Bannister @Umbria Jazz ph Roberta Gioberti

Conosciuti dai più giovani, gruppi di ventenni che ne seguono i fraseggi, e ballano entusiasti. Che come si fa a pretendere di far stare seduta la gente con questo sound, non lo sappiamo. E non lo sa nemmeno l’indulgente ma attenta security, rassegnata al potere dirompente della musica, ma attenta che tutto fili liscio. Alla security di Perugia tutta la nostra ammirazione e stima, soprattutto per l’educazione, che non è sempre scontata, purtroppo.
Fatte le dovute differenze, è una sorta di Orchestra di Piazza Vittorio statunitense con un poco di colore in più, quella che ci salta e canta e balla di fronte pur più di un’oretta, convincente nella musica e nelle coreografie, nominata ai Grammy Awards e premiata per aver realizzato un video musicale di eccellenza: con questi numeri di creatività e fantasia, non ci meraviglia.
Il grande palco prende un attimo di respiro e introduce un’artista davvero eccezionale per capacità canore, bellezza e sensualità. Talmente eccezionale che Guido Harari ritiene opportuno fare un salto nel PIT, tra l’emozione generale.
Lei è lì magnifica nel suo abito bianco, disinvolta, sorridente, accattivante, bellissima: RAYE.

Raye @Umbria Jazz ph Roberta Gioberti

Raye @Umbria Jazz ph Roberta Gioberti

Alle cronache assurta grazie all’esecuzione del brano del DJ Jax Jones ”You don’t know me”, esecuzione magistrale per quello che riguarda la perfezione dell’impostazione della voce, ha riscosso un notevole successo nel 2022 in Gran Bretagna, con il suo singolo d’esordio “Escapism”.
Racconta tanto e velocemente cose che la nostra scolastica conoscenza dell’inglese non ci permette di cogliere pienamente, ed è un peccato: possiamo però coglierne la bellezza con cui ci fa dono di un mix sofisticatissimo di jazz, soul e ballate, la capacità di stare sulla scena da vera regina, con la freschezza della sua età e senza retoriche da diva, le coreografie essenziali ma elegantissime.
Ringraziamo sempre per la bellezza, e ringraziamo RAYE per averci fatto dono della sua, accomiatandoci soddisfatti da un’Arena Santa Giuliana infocata in tutti i sensi.
Una menzione a Nico Gori, che con i suoi fiati disinvolti e seducenti intrattiene tutte le sere un accaldato pubblico, prima degli eventi principali in Arena Santa Giuliana. Ogni sera in modo diverso, come solo un affascinante e disinvolto “suonatore di flauto” riesce a fare in maniera incantevole: è il caso di urlarlo… Cool!!!

Roberta Gioberti

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