Alessandro Errico è un cantautore comparso sulle scene della musica italiana a metà degli anni ’90. Dopo uno sfolgorante inizio di carriera, Alessandro decise improvvisamente di lasciare il palcoscenico per ritrovare una dimensione di equilibrio, necessario per assimilare e comprendere se stesso e le proprie necessità personali e artistiche. Nel corso del tempo Alessandro si è dedicato a svariati progetti e, a distanza di tanti anni, ha deciso di tornare sulle scene a modo suo e con i suoi tempi. Scopriamo come, in questa intervista che l’artista ci ha gentilmente concesso.
Alessandro, il tuo percorso artistico nasce nel 1995 e ha attraversato una serie di fasi molto diverse tra loro… come si è evoluta la tua ricerca musicale nel tempo?
Proverò a raccontare 15 anni della mia storia facendolo a grandi linee. Ho pubblicato due dischi nel 1996 e nel 1997 ottenendo un discreto successo. A quei tempi avevo 19 anni e, probabilmente, ad un certo punto ho spezzato un po’ la corda; ho sentito l’esigenza di prendermi il mio tempo e fare un percorso diverso per ricominciare a crescere. Il successo a volte ti toglie la possibilità di seguire i tuoi tempi, io ero un ragazzino iscritto al primo anno dell’università, volevo capire quello che mi succedeva intorno. Ho fatto una serie di , anche non lontane dalla musica, ho realizzato un progetto discografico prodotto da Gianni Maroccolo, ho lavorato con Edoardo Sanguineti dedicandomi ad un genere più di nicchia. Questo disco rappresenta, quindi, una sintesi tra quello che facevo un tempo e quello che ho fatto in tempi più recenti. Con il singolo “Il mio paese mi fa mobbing” sono partito da una musica molto popolare per arrivare ad un tipo di ricerca avanguardistica.
Quali sono la storia, la genesi e gli obiettivi del brano “Il mio paese mi fa mobbing?
Si tratta di una lettera. Ho pescato nella tradizione epistolare, il mio referente è un presidente a cui racconto come vivo il mio paese e quello che il mio paese mi fa. Questa è l’unica canzone che ho scritto di getto in vita mia ed è effettivamente uno sfogo rielaborato perché, in fin dei conti, la forza di una canzone è riuscire ad essere il più possibile universale. Ho cercato di raccontare non solo quello che ho vissuto durante la mia esperienza di 15 anni da precario ma ho anche voluto raccontare cosa significa vivere in un paese come il nostro, in chiave ironica. Odio la polemica sterile del muro contro muro, dell’uno contro uno. Credo che un artista vada valutato non solo per le sue canzoni ma anche per la sua coerenza, nonché per la capacità di raccontare qualcosa senza entrare nei meccanismi della polemica sterile.
“La guerra si combatte tutti i giorni e tutti i giorni si muore un po’”?
Il riferimento principale di questa frase è “Le Déserteur”, una canzone pacifista di Boris Vian, cantata anche da Fossati con una traduzione bellissima. Il personaggio principale del brano non vuole andare in guerra, è un disertore che non ha armi e non sa sparare. Io ho riletto questa canzone in maniera tagliente, il mio paese mi ha portato a dire “Maledizione, io armi non ne ho”. Questo paese è quello che ti porta a dire che sei in guerra, una guerra diversa dal disertore di Vian, una guerra non convenzionale come può essere quella del mobbing, qualcosa che in molti hanno sperimentato sulla propria pelle sottoforma di un continuo e lento disgregarsi dell’anima e della mente, a causa di fattori esterni che non sono ben identificabili.
Ci racconti la tua esperienza di #sanremoperforza?
Il retroscena è molto situazionista. L’idea era quella di fare riferimento alle scelte dei selezionatori del Festival con canzoni che parlavano solo di sentimenti. In un periodo così drammatico per il paese, fare un festival in chiave intimista non è il massimo della coerenza ma, onde evitare la solita polemica pre-sanremese, mi sono chiesto come avrei potuto fare per raccontare un’altra realtà e mi sono inserito subdolamente con finti scoop e finte pagine di giornale ed è stato un divertente corto circuito tra finzione e realtà …Tutti mi chiamavano per chiedermi perché non mi fossi esibito sul palco ed è stato stranissimo! Alla fine, attraverso questo gioco, io ed il mio staff siamo riusciti a parlare di lavoro e di crisi in un contesto che non dovrebbe essere una zona franca.
A cosa stai lavorando adesso? Ci sono nuovo brani pronti per l’album? Che prospettive hai?
In realtà non sono convinto che l’album implichi il fine di un progetto. Sento che quello sia un po’ uno schema, un paradigma che nasceva qualche anno fa, quando ancora esistevano i cd. Per quanto mi riguarda è già uscita una canzone qualche mese fa, molto diversa da “Il mio paese mi fa mobbing”, s’intitola “Mai e poi mai”. Dopo 15 anni di assenza vorrei portare avanti un discorso un po’ più a lungo termine ed entrare in un circuito diverso da quello classico.
E per quanto riguarda la dimensione live?
Sto preparando qualcosa di molto speciale che annuncerò sui miei canali… sto cercando di capire come fare per portare questa lettera al suo legittimo destinatario!
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Alessandro Errico e Alessandra Placidi per la disponibilità
Video: “Il mio paese mi fa mobbing”