Quando un’artista emana tanta energia da diventare carismatica c’è da prestare doppiamente attenzione per qui il meccanismo che si innesca è simile ad una magia. Questa è quella che crea Paola Turci quando entra in contatto con il suo pubblico. La riprova l’abbiamo avuta ieri sera, in occasione del suo concerto al Teatro degli Arcimboldi di Milano. Del resto questo Secondo Cuore tour sta rappresentando per Paola, l’occasione perfetta per portare tutto il suo bagaglio artistico e personale sul palco.
«Buonasera Milano, che sogno! Questa è la mia prima volta in questo luogo sacro. Mi sento una bambina con il suo gioco più bello. Mi piacerebbe se stasera, il vostro secondo cuore, quello che contiene le emozioni più intime, più forti, più coinvolgenti, potesse battere allo stesso ritmo del mio. Buon concerto a tutti voi!». Questo è il benvenuto di Paola Turci che, fasciata in un sensuale abito color oro, si muove libera e sinuosa sul palcoscenico che, privo di scenografia, mette in risalto solo e soltanto lei.
Brilla di luce propria Paola che, sulla lunga scia del grande successo ottenuto in questo ultimo anno, mette in scaletta tanti dei brani contenuti nel suo ultimo album ma regala nuova vita anche ai successi del passato. Nuovi arrangiamenti, sfumature più corpose donano fluidità al concerto che scorre via leggero e coinvolgente. Da Off-Line a La vita che ho deciso, La prima volta al mondo, Combinazioni passando per Volo così e Attraversami il cuore, Paola Turci mette in risalto i pensieri vibranti, appassionati, contraddittori di una donna affamata di vita, di sogni, di passione autentica.
Verace e ispiratissimo Ma dimme te, il brano con cui Paola Turci ha riscoperto le proprie radici: «Conosco molto bene Milano, ci ho vissuto quasi più che nella mia Roma. Ho cantato in molti dialetti ma mai nel mio – spiega Paola Turci al pubblico- scrivendo questa canzone, ho riattivato le mie radici, ho realizzato il ritratto di una donna ispirata ad Anna Magnani; una donna tosta davvero, testarda, capocciona e sicura di se stessa in tutto tranne che in amore».
Per il cambio d’abito, Paola opta per i pantaloni e un top sfavillante: è il momento di suonare la chitarra. Un connubio catartico per la cantante che, effettivamente, in versione intima, quasi unplugged, riesce a dare il proprio massimo. La voce è nitida, potente, estesa. Le parole fluttuano, i pensieri elaborano sogni; ecco l’incanto.
Tra le cover più belle e più ispirate, c’è da segnalare l’intensa versione di “Dio, come ti amo” (scritta da Domenico Modugno): «Quando suono la chitarra mi viene voglia di cantare tantissimi brani, un po’ come quando sono con amici. Ho sempre tante canzoni in testa ma mi ritrovo sempre a cantarne una in particolare, la considero la più forte e la più bella tra le dichiarazioni d’amore musicali esistenti» – precisa Paola Turci prima di cantarla.
Piccola canzone d’amore è, invece, quella dolce e tenera composizione che dà l’avvio all’ultima parte del concerto in cui spiccano Questione di sguardi, Bambini e l’immancabile Fatti bella per te, il brano che ha segnato in modo inderogabile l’inizio di un nuovo percorso che ha reso Paola Turci finalmente libera, felice, ammaliante.
“Of Shadows” è il nuovo album del cantautore siciliano Fabrizio Cammarata. Pubblicato per 800A Records e distribuito in tutto il mondo da Kartel Music Group e da Haldern Pop Recordings in Germania, Austria e Svizzera, l’album è stato prodotto dallo spagnolo Dani Castelar (produttore di Paolo Nutini e engineer in passato di Editors, REM, Michael Jackson, Snow Patrol) e registrato a Palermo negli studi di Indigo al Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa, un luogo che col tempo si è trasformato nel cuore pulsante della scena musicale dell’intera isola siciliana.
Undici tracce in inglese che delineano i chiaroscuri dell’anima, sonorità folk senza geografie univoche ma con lo sguardo contemporaneo e gli arrangiamenti elettronici. Tutto guidato dalla straordinaria voce di Fabrizio – al tempo stesso malinconica e rabbiosa, dolce e disperata ma sempre profondamente penetrante. Canzoni scritte durante gli innumerevoli viaggi che lo hanno portato dalla sua nativa Palermo in giro per il mondo e che intrecciano ricordi del passato e sentimenti vivi del presente.
Intervista
Il tema dell’ombra è piuttosto scomodo. Come mai l’hai scelto come cardine di questo tuo nuovo progetto?
Perché nel momento in cui ho “scoperto” che stava nascendo il disco ho capito che queste canzoni non erano state altro che una continua ricerca nelle zone più nascoste e scomode della mia anima. Così come durante le eclissi un’ombra riesce a darci la consapevolezza della natura di astri e pianeti, così ho capito che stavo assistendo a un’eclissi totale dell’anima, e ho colto l’attimo godendomi l’oscurità e attendendo con emozione che tornasse la luce, osservando e annotando tutto come un astronomo del ’600.
Cosa rappresentano per te l’ombra e l’oscurità, più in generale?
Sono un appassionato di fotografia e amo il mondo della pellicola e del bianco e nero. Quando sono nella mia camera oscura faccio sempre quel lavoro di sperimentazione e studio su come governare luce e ombre e farle parlare. Cerco le ombre nei ricordi, nel disco invece guardo ai lati oscuri dell’amore.
Dove, con chi e come hai lavorato alla produzione del disco?
Si è verificata una simbiosi magica, inaspettata e imprevedibile, con Dani Castelar, il produttore artistico. Oltre a essere uno che ha lavorato con i più grandi (come produttore con Paolo Nutini, e in studio con R.E.M., Editors e Michael Jackson), è una persona di estrema umiltà, che ha voluto entrare a capofitto nel mio mondo più interiore, voleva capire da dove nascessero queste canzoni e ha accresciuto come nessun altro avrebbe saputo fare il potenziale espressivo di questi undici brani. Infatti siamo diventati grandi amici, per me è uno dei regali più belli di quest’anno meraviglioso. Ho registrato però nella mia Palermo, avevo bisogno di farlo, e per questo mi sono avvalso degli amici di Indigo, uno studio che sta al piano nobiliare di Palazzo Tomasi di Lampedusa, in pieno centro storico.
Canti in inglese ma la tua anima è siciliana, come riesci a conciliare questi due aspetti tanto importanti quanto paralleli e in che modo traspaiono nelle tue canzoni?
È la cosa più difficile da vedere, benché per me sia ovvia. Mi sento siciliano ma mi sento molto più “mediterraneo”, sento di appartenere a questo mare che ha trasformato guerre e dominazioni in atti di d’amore, unione e tolleranza. Trovare il centro in mezzo al mare è impossibile, e questo decentramento è una delle caratteristiche che sento più mie in ogni aspetto di me. Mi sento a casa in un luogo inesistente in cui si canta in inglese, si parla in italiano, si piange come Chavela Vargas e ci si dispera come Rosa Balistreri, si guarda il tramonto dalle saline che diventano rosa e si beve il tè del Sahara.
Malinconia, rabbia, disperazione fanno leva sull’impatto emotivo. Quali sono i tuoi punti di riferimento in tal senso e cosa vorresti che le persone percepissero ascoltando i tuoi testi?
Nel mio ultimo concerto a Parigi, a fine serata, si è avvicinata una ragazza mentre smontavo la mia roba e mi ha detto «hai smosso qualcosa dentro di me, di molto profondo». Aveva gli occhi lucidi ed era sincera, voleva regalarmi quel momento di comunione in cui anche se a cantare sono io, sto dando voce anche a qualcun altro. E non penso sia qualcosa che riguardi solo i testi, infatti parlava anche un inglese stentato… Ecco, sogno che sia sempre così, chiamala catarsi se vuoi, ma io preferisco parlare di “effetto sciamanico” della mia musica. Cerco sempre di far diventare ogni concerto un rituale in cui mi faccio carico delle ombre di chi decide di entrare nel mio mondo. All’ultimo applauso, ci sentiamo tutti più liberi.
Sei abituato a muoverti e a viaggiare molto spesso. Cosa ti lascia ogni viaggio che fai?
Una valigia piena di cose che poi diventeranno canzoni. È bellissimo scandire la propria vita in questo modo.
Ne hai fatto qualcuno particolarmente significativo di recente?
Ogni viaggio ha un fascino a sé. Ultimamente mi capita di tornare in luoghi che ormai conosco bene, come Parigi, Londra, Berlino, Amburgo. Ma una sorpresa c’è sempre, e io non dimentico mai la mi macchina fotografica, perché ciò che non può diventare canzone diventa una fotografia. L’ultima fotografia che ha avuto un significato forte per me l’ho scattata a Montreal, in Canada, dove ho suonato per un festival. Non ho ancora sviluppato la pellicola e non so cosa è venuto fuori, ma dentro di me quella foto esiste già da quel momento, in un angolo di “memoria creativa”.
fabrizio cammarata of shadows
Colgo l’occasione per chiederti anche del prezioso progetto di recupero culturale che hai messo in piedi con Dimartino con l’album “Un mondo raro”, in cui omaggiate Chavela Vargas. Come vi è venuta la voglia di lavorarci, con quale spirito e con quali prospettive?
Ero in Messico con un amico regista, Luca Lucchesi, per un road movie su La Llorona a cui lavoriamo dal 2012. Antonio mi raggiunse lì dopo uno dei suoi tour e, su un bus sgangherato in mezzo alo stato di Morelos, si toglie l’auricolare e mi fa «Ma perché non proviamo a tradurre queste canzoni?». Da lì è nato tutto, dopo tre giorni eravamo in studio a Città del Messico a registrare con i chitarristi di Chavela, una serie di casualità ci ha portato a venire a contatto con tutta la gente che le era stata più vicina… Insomma, abbiamo collezionato tante di quelle storie, alcune mai raccontate neanche da lei, che a quel punto il disco ci stava stretto, ed è nato il romanzo. Una “fiaba biografica” l’hanno definita, e mi piace molto pensarla così.
Nella tua bio si parla della tua passione per la musica berbera e tuareg. Ti va di approfondire questo argomento?
Per me nel 2017 il vero blues è quello dei Tuareg. Di chi ieri imbracciava un fucile e poi ha capito che con la chitarra ci poteva combattere meglio. Musicalmente è il genere più rivoluzionario degli ultimi decenni, e io ogni giorno sto lì a cercare di capire il segreto dietro a quelle scale così desertiche e così aperte. Le loro canzoni, con eleganza e compostezza, parlano di acqua che è il tesoro del deserto, di emarginazione e di una pace cercata.
Che rapporto hai con le arti visive e il cinema?
Molto stretto, da appassionato e spettatore. Per il mio disco ho coinvolto un artista che in Europa ha fatto cose meravigliose, palermitano come me, che si chiama Ignazio Mortellaro. Insieme abbiamo costruito il concept dell’album, le eclissi e tutte le immagini a corredo, tratte da antichissimi libri di astronomia, che è una passione che io e Ignazio condividiamo, e che lui indaga nelle sue opere con la grazia dell’alchimista.
Quali sono, secondo te, gli elementi che contraddistinguono un folk fatto a regola d’arte?
Intanto definiamo “folk”. Se intendiamo il cantautore che imbraccia la chitarra e scrive di sé, senza dubbio la cosa che io cerco sempre nei miei ascolti è la sincerità. Più ancora dell’originalità, ho bisogno di sentire la forza del messaggio, che può non essere ecumenico, non occorre che tutti vi si riconoscano. Ma mi piace vedere l’anima dell’artista che si spoglia senza vergogna.
Quali sono i tuoi riferimenti in questo senso?
La gente che ha sempre e solo seguito se stessa: Bob Marley, Nina Simone, Chavela Vargas, Bob Dylan, Nick Drake, i Tinariwen, Beck, Nick Cave.
Quali sono i traguardi che senti di aver raggiunto e quali invece appaiono ancora lontani?
Inseguo da anni quel potere sciamanico che la musica può avere, e che ho sentito in alcuni artisti come Chavela Vargas e Nick Cave. Impossibile arrivare a quei livelli, in cui tutti escono dalla sala concerti in lacrime, ma ho bisogno di tenere quell’obiettivo per tendervi, asintoticamente. Però a volte succede che arrivo negli angoli più profondi di qualcuno, che poi viene a ringraziarmi, e questa è una delle emozioni più belle, per me. Da una dozzina di anni costruisco tutto a poco a poco, una casa che non sarà enorme ma sicuramente salda. Se vuoi sapere un mio desiderio… un mio sogno ricorrente è bere un whiskey con Bob Dylan, passare mezz’ora seduto accanto a lui, anche senza parlare.
Cosa provi quando sei sul palco e come varia il tuo stato d’animo a seconda del posto in cui ti esibisci?
Cambio in toto. Da persona timida e riservata divento qualcosa che ha bisogno di esplodere, prendo tutto il palco come se fosse la mia stanza, in maniera anche prepotente, insolente forse. Ma fa parte di quel processo in cui decido di denudarmi (in maniera figurata) davanti al pubblico. Dopo l’ultima canzone, tutto cambia, e anche ricevere i complimenti mi confonde un po’.
“GOOOD” è il nuovo album di YOMBE, la coppia di artisti che sta conquistando sempre più consensi grazie ad un suono pop contemporaneo. Tra i primi artisti italiani a essere stati inseriti in UK nella playlist di Spotify “New Music Friday”, gli YOMBE compiono un passo in avanti evolvendo la loro formula musicale con forti iniezioni di elettronica. Anche dal punto di vista testuale, i due dimostrano di essere sul pezzo concentrando i testi su temi assolutamente attuali. Il titolo dell’album, infatti, riprende il mantra del “to be good at something”, la rincorsa al primeggiare, al continuo innalzamento dell’asticella personale. L’invito è quello di godersi la propria dimensione personale senza guardarsi troppo indietro ma anche senza sentirsi ossessionati da traguardi che finiscono col privarci della gioia di godere del presente.
Raffaella Sbrescia
Video: Tonight
YOMBE presenteranno dal vivo il loro nuovo disco nel tour curato da Radar Concerti, assieme a quattro date esclusive in apertura a Ghemon:
30/11 – Santeria Social Club - MILANO w/ Ghemon
01/12 Santeria Social Club - MILANO w/ Ghemon
02/12 – TPO - BOLOGNA w/ Ghemon
Che cosa vuol dire essere un cantautore nel 2017? Scrivere raccontandosi e raccontando gli altri può essere bellissimo quanto complesso e non sempre utile. Anzi, ultimamente quasi mai.
Impiegare due anni della propria vita, investendo tempo, energie e risorse in un progetto discografico significa crederci per fare in modo che ci credano anche gli altri. Cesare Cremonini per “Possibili scenari”, il nuovo album in uscita domani, prodotto da Walter Mameli per Trecuori e Universal Music, registrato negli Studi Mille Galassie di Bologna, ha fatto esattamente questo. La sua concezione di pop è artigianale, elegante, curata e fuori dagli schemi. La struttura su cui si reggono le sue canzoni poggia su più livelli ed è proprio questo che, disco dopo disco, fa sì che l’artista riesca a fare la differenza portandosi su un gradino più in alto rispetto alla media. Cesare, come dicevamo, ragiona da artigiano libero, va per la sua strada e si diverte a portarci per mano tra guazzabugli letterari e sinfonie ora divertenti, ora strappalacrime. Avvalsosi della collaborazione di Davide Petrella in veste di co-autore durante la lunga fase di scrittura delle canzoni (fatta eccezione per “Nessuno vuole essere Robin”), Cremonini ci presenta un punto di vista curioso, attento e possibilista; sarà per questo che mai come in questo caso il titolo dell’album si presta molto bene allo scopo del progetto. Sia dal punto di vista testuale che musicale abbiamo molto di cui parlare. Si parte dal calore degli archi e dei fiati della title track, concepita per fare da apripista a concerti e ragionamenti. “Sentirsi bene senza un perché” è il mantra da perseguire per raggiungere lo stadio della contentezza, spauracchio di chi invece è ossessionato dalla felicità. Irresistibile il piglio energico di “Kashmir- Kashmir”, un brano ritmatissimo, tutto da ballare, nonostante un testo incentrato sulla storia di un ipotetico figlio di un estremista islamico. L’accostamento è tanto bislacco, quanto originale. Il protagonista della canzone vorrebbe vivere l’occidente a modo suo, all’insegna della leggerezza, eppure anche per lui non sarà facile vincere il pregiudizio.
Cesare Cremonini @ Giovanni Gastel
Arriva il turno di “Poetica”, il singolo che ha conquistato consensi unanimi. Un brano raffinato, completo, necessario. “Anche quando poi saremo stanchi, troveremo il modo per navigare nel buio”, canta Cesare, incoraggiandoci ad affrontare il viaggio della vita al meglio delle nostre possibilità. L’angoscia della solitudine non può far paura di fronte alla bellezza dell’arte, pronta a risollevare l’anima.
Segue la dimensione interstellare e rarefatta di “Un uomo nuovo”: “Ma tu credi che per volare basti solo un grande salto”? La ritmica di un rullante permanente incoraggia il volo pindarico dell’immaginazione di un indovino che prova a ricordarci di affrontare l’amore a pieno viso, costi quel che costi.
Arriva poi il turno del potenziale nuovo singolo: “Nessuno vuole essere Robin”. Come dare torto a Cesare? Il brano, già a partire dal titolo, svela lo spirito di una delle canzoni più riuscite del disco. Presentata come l’erede di “Marmellata#25”, questa ballata è una fotografia dei nostri tempi, uno specchio delle contorte relazioni umane, il termometro della solitudine che scandisce i nostri giorni: “Ti sei accorta anche tu che siamo tutti più soli, tutti col numero dieci sulla schiena e poi sbagliamo i rigori. In questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin”. L’ascolto continua intersecandosi tra i sentieri di “Silent Hill”: la collina dove gli incubi peggiori affiorano a galla e costringono lo stesso Cesare a cantare quasi urlando per liberarsi e liberarci al contempo. Eppure i ricordi sono linfa, sono una preziosa risorsa, oro colato. Lo sa bene Cremonini che ne “Il cielo era sereno” disegna a pennellate un film intimo ma non autoreferenziale. Una bella istantanea vintage che contrasta, e molto, con “La Isla”, il brano più debole del disco, forse perché incentrato sulla diffidenza per le atmosfere menzognere e fugaci delle mete che spesso scegliamo per le nostre vacanze: “Questa follia non vedo l’ora che finisca”, canta Cesare, che stempera i toni con un ritmo fresco e scanzonato. Su questa lunga scia vive la trama de “Al tuo matrimonio”, brano ispirato al film “il Laureato” di Mike Nicholas, con Dustin Hoffman e Katharine Ross di stampo autenticamente cinematografico. La conclusione di “Possibili scenari” è malinconica. L’ultimo brano della tracklist è “La macchina del tempo”,una canzone che nel raccontare una storia d’amore al contrario, dalla fine all’inizio, squarcia la tristezza all’insegna della dolcezza con una lunga coda strumentale, scandita dai vocalizzi dello stesso Cesare, che chiude il disco con fare epico e maestoso. Pronto a spiccare il volo.
Raffaella Sbrescia
Previsto per quest’anno anche l’ esordio negli stadi per il tour “Stadi 2018” (prodotto e organizzato da Live Nation Italia)
Esce venerdì 24 novembre il nuovo album di Giuliano Palma “Happy Christmas”. Il progetto sigla l’ingresso del cantante in casa Sony ed esorcizza una festività che per Giuliano Palma ha sempre rappresentato un momento angosciante.
Rivolgendosi ad un pubblico ampio e lontano dai purismi, Palma si approccia al repertorio dei grandi classici natalizi con il suo ritmo reggae – ska che in tanti anni abbiamo imparato ad apprezzare e riconoscere.
All’interno di una presentazione stampa molto particolare, tenutasi a bordo di un Music Tram in centro a Milano, Giuliano Palma ha raccontato: «Con questo album ho voluto mettere l’accento sui ritmi in levare, sui fiati coinvolgenti, sulla batteria incalzante. Piccoli accorgimenti che rendono ballabile qualsiasi ballata natalizia, anche la più classica e malinconica».
Tra le cover più curiose c’è “All I want for Christmas is you”, a proposito della quale Giuliano rivela: «Farei un momento a chi ha composto e prodotto questo brano che, sebbene sia stato rifatto innumerevoli volte, solo nella versione di Mariah Carey ha fatto davvero la differenza. Personalmente mi sono divertito tantissimo a cantarla. In realtà in tutto questo disco sembro un po’ un matto, chi mi conosce sa che definirmi naif è dire poco. Sono curioso di sapere cosa ne penserà chi lo ascolterà».
E se gli si chiede perché ha scelto di cantare proprio “Jingle Bells”, Giuliano dice: «Un conto è cantare “Let it snow”, un altro è cantare un brano come questo in cui mi sono messo alla prova in modo più forte rispetto agli altri. Questo classico ha convinto intere generazioni, esistono splendide versioni: da quella di Sinatra a quella di Elvis Presley. La mia viaggia sulle tonalità dello ska perché, in sostanza, ho voluto creare il Natale che piace a me. Lo ska è uno status mentale.»
Un Natale personalizzato, dunque, un modo per scacciare via la malinconia: «Il Natale mi mette angoscia, non mi piace per niente, spesso l’ho superato stando su un palco a cantare, anche questo disco è concepito per non cedere alla malinconia».
Poi ancora una curiosità: «”White Christmas” l’ avevo registrata qualche anno fa ma non l’ho mai pubblicata. Sentivo di aver sprecato un’occasione quindi questo progetto prende il via proprio da quel momento lì».
A parte questo aneddoto, niente spazio per il passato per Giuliano Palma che a proposito della recentissima pubblicazione del cofanetto celebrativo per il 20esimo anniversario dei Casino Royale, dice: «Premettendo che non intendo rinnegare nulla del mio passato, non mi piace riesumare “cadaveri”. Sono andato semplicemente oltre. Ho fatto altre cose. Non ho partecipato in alcun modo a questo progetto e non mi interessa. Son felice di avere altro a cui pensare in questo momento».
Infine, l’immancabile quesito sulle sorti di questo album natalizio: «Si tratta di un’iniziativa estemporanea, legata ovviamente a questo periodo. Sicuramente ho in mente di suonare queste canzoni dal vivo per qualche concerto pensato apposta ma in questo momento non ho ancora ricevuto conferme in merito. Se nel frattempo volete pensare ad un regalo di Natale per me, sarei contento di ricevere una bella Aston Martin usata! (ride ndr)».
Pop, rap, rock e soul si incontrano e si fondono nella miscela musicale degli Urban Strangers. I talenti più inesplorati e promettenti usciti dalla fucina di X Factor. Alla luce dell’interessante formula proposta nel loro album “Detachment”, il duo composto da Gennaro Raia e Alex Iodice, sarà in concerto a Milano il prossimo venerdì 8 dicembre per un concerto- evento organizzato da All Music Italia in collaborazione con Casa Lavica e Make It. Esattamente come su supporto discografico, anche il live sarà all’insegna della sperimentazione elettropop in cui il suono accompagna perfettamente i testi che parlano del distacco, fisico e psicologico. I due ragazzi saranno accompagnati da Giuseppe Conte (in arte Pleiam) e Raffaele “Rufus” Ferrante (già produttore di Detachment).
Il Natale è alle porte e con esso ecco in arrivo i primi album a tema. Il primo è “Big Christmas”, il nuovo progetto di Sergio Sylvestre, vede il giovane cantante alle prese con il repertorio natalizio affrontato con autentico trasporto.
Mai come in questo album, prodotto da Diego Calvetti su etichetta Sony Music, Sergio, nato e vissuto a Los Angeles (California) ma italiano d’adozione, è riuscito a mettere a punto una serie di interpretazioni calde, intense ed emotivamente cariche.
Forte dell’esperienza sanremese dello scorso anno e di una serie di collaborazioni, Sergio ha ha voluto mettersi in gioco per dare il proprio tocco alla colonna sonora che accompagnerà le nostre festività.
Big Christmas – Sergio Sylvestre
Finalmente a proprio agio con degli arrangiamenti curati e realizzati su misura, Sylvestre si è mostrato nella sua veste canora migliore. Preciso, pulito e coinvolgente, con il suo trasporto interpretativo, Sergio rende convincente il progetto che raccoglie classici natalizi come “Let It Snow”, “White Christmas”, “Santa Claus Is ComingTo Town”, “Have Yourself a Merry Little Christmas”. Il progetto si apre con “Little Drummer Boy”, un brano della tradizione popolare americana che ha segnato l’infanzia del cantante. Tra i momenti più riusciti del disco segnaliamo l’energico medley di “Jingle Bells” e “Jingle Bell Rock”. Da non perdere le graffianti versioni gospel di “I Will Follow Him”, la versione di Bill Crosby di “White Christmas” e l’’inaspettata “Hallelujah” che sancisce in modo inderogabile la migliore vestibilità della voce di Sergio che, in inglese, ha tutto un altro fascino. Il colpo di coda per la carriera di questo giovane cantante, dotato di forte emotività, sarà dato dai concerti dal vivo che gli daranno modo di sviluppare il potenziale e mettere da parte i punti deboli.
Cantare d’amore è un’arte tanto inflazionata quanto necessaria. A questo proposito diventa interessante capire come, un grande interprete come Gianni Morandi abbia coraggiosamente deciso di incidere il quarantesimo album in carriera affidandosi alla penna dei cantautori più in voga in Italia. Pubblicato lo scorso 17 novembre su etichetta Sony Music, “d’amore d’autore” si presenta come un progetto figlio di menti fresche cantate da una voce storica che rimanda ai ricordi e ai pensieri di ieri. Elisa, Ivano Fossati, Levante, Luciano Ligabue, Ermal Meta, Tommaso Paradiso, Giuliano Sangiorgi , Paolo Simoni hanno offerto il loro personale contributo al racconto dell’amore: quello appassionato e fresco, quello solido e maturo, quello acerbo e incoerente, quello incerto e intermittente. Partito in sordina con “Dobbiamo fare luce”, il brano scritto da Luciano Ligabue da cui ha preso il via tutto il progetto, l’album trova il connubio più riuscito tra voce, testo e musica in “Ultraleggero” di Fossati, “Lettera” di Paolo Simoni e “Un solo abbraccio” di Ermal Meta. Spiazzanti, invece, gli arrangiamenti realizzati da Dario Faini per “Una vita che ti sogno” di Tommaso Paradiso e “Mediterraneo” di Levante: sonorità elettroniche e ritmate cozzano con le tonalità vocali di Morandi. Molto simpatica, invece, la nuova versione di “Onda su onda”, il brano di Paolo Conte in cui Morandi duetta a sorpresa con Fiorella Mannoia.
Video: Dobbiamo fare luce
Per fare un bilancio conclusivo, Gianni Morandi persegue la linea dell’artista intergenerazionale aggiungendo al proprio bagaglio musicale una serie di tasselli tanto intelligenti quanto poco coraggiosi. Questa deduzione nasce dal seguente concetto: una volta affidatosi ad autori giovani, Morandi avrebbe potuto scegliere di alzare il tiro, di affrontare magari anche lo stesso tema ma secondo una prospettiva diversa, allora sì che il suo quarantesimo album avrebbe potuto fare davvero la differenza all’interno di una carriera illustre come la sua. Ad ogni modo, queste nuove canzoni daranno nuova linfa al repertorio dell’artista che dal prossimo 24 febbraio 2018 sarà in tour nei più importanti palasport italiani.
Raffaella Sbrescia
Morandi tour 2018 “d’amore d’autore”
22/02 JESOLO (VE) Pala Arrex – DATA ZERO 24/02 RIMINI RDS Stadium 26/02 MONTICHIARI (BS) Pala George 28/02 CONEGLIANO (TV) Zoppas Arena 02/03 GENOVA RDS Stadium 03/03 TORINO Pala Alpitour 05/03 FIRENZE Mandela Forum 07/03 LIVORNO Modigliani Forum 9 /03 PERUGIA Pala Evangelisti 10/03 ROMA Pala Lottomatica 12/03 EBOLI (SA) Pala Sele 13/03 NAPOLI Pala Partenope 15/03 REGGIO CALABRIA Palasport 17/03 ACIREALE (CT) Pal’Art Hotel 19/03 BARI Pala Florio 21/03 ANCONA Pala Prometeo 22/03 PADOVA Kioene Arena 24/03 BOLOGNA Unipol Arena 28/03 MILANO Mediolanum Forum
Come cambia la qualità e la dimensione del rapporto interpersonale nell’era tecnologica? L’incipit fu il Tamagotci. Questo piccolo animaletto di cui bisognava prendersi cura, diversamente sarebbe morto. E la strage di pulcini che ne seguì, avrebbe dovuto costituire un monito, invece…..invece oggi dialoghiamo con le macchine. Immaginate una mattina, vi alzate, vi mettete al PC, non c’è rete. Chiamate il vostro operatore di riferimento, cominciate a dialogare con lui, e alla fine questo vi dice che siete l’ultimo cliente che ha accesso al servizio. La rete sta morendo. Fuori è un mondo diverso. Fuori è un mondo difficile, senza le comodità cui ci siamo abituati in questi anni….rete, informazioni a portata di mano, memoria aggiuntiva, dati, dati dati……dati che non si perdono, ma che si estinguono con la rete. E tu non puoi più recuperarli. Come quando ti chiudono una casella di posta elettronica a pagamento, a tradimento.
Marco Paolini – Antropocene – Romaeuropa Festival
L’uomo Marco Paolini, il suo recitare pungente e coinvolgente, al punto da strappare spesso applausi a scena aperta), e la Macchina Frankie Hi-nrg mg, autore dei testi rap, il primo rapper di successo di cui l’Italia ha memoria, che ancora coniuga il rap ad un tessuto musicale sofisticato e complesso. L’Uomo e la Macchina. Soli, nufraghi….disperatamente ancorati l’uno all’altra….Ed ecco che nasce l’ Antropocéne. Chi è l’Antropocéne? L’antropocéne è “l’abitante dell’era più cool della storia del pianeta” (cit.). Disperato, ansioso, frettoloso, preoccupato non tanto della propria salvezza, del proprio rischio di estinzione, ma della salvezza degli oggetti che gli sono più cari. Perché rappresentano tutte quelle comodità cui dovrà rinunciare, nel momento in cui si estingueranno. In un’ora, sessanta minuti che sembrano venti anni, si prendono le distanze da un destino tecnologico, e si intraprende un percorso totalmente ignoto.
Marco Paolini – Antropocene – Romaeuropa Festival
Smarrito l’uomo…..smarrita la macchina. E uomo e macchina, in questo vorticoso evolversi delle cose, una sorta di post big bang, tra aggregazione e disgregazione, si prendono per mano e si accompagnano. Il primo per non cambiare, la seconda per non morire. Il tutto sulle note di un intensa “Passione laica”, che fonde temi musicali attuali con musica barocca, in un risultato minimalista, moderno ma non incomprensibile, nemmeno ad un orecchio profano. Uno spettacolo da vedere, come tutti quelli di Marco Paolini. Coinvolgenti e spesso traumatici, nella loro essenziale drammaticità, espressa con sottile ironia. Caratteristica di un teatro di impegno civile, che, ahimé, si sta estinguendo, esattamente come la rete.
“Illegacy” è il titolo del nuovo lavoro della pianista e compositrice Roberta Di Mario,(Warner Music Italy – Publishing: Red&Blue/Abiudico/ I Mean)
Il disco si compone di 10 brani dotati di grande potere evocativo. La ricercatezza, l’inquietudine creativa e l’elegante femminilità di Roberta Di Mario sono le chiavi di accesso ad un mondo onirico variegato ed appagante. La superficie, in ogni caso, di un iceberg emotivo sommerso.
Intervista
Da dove arriva il flusso emotivo che ha ispirato “Illegacy”’
Arriva dalla vita, dal mio “sentire”, da ciò che guardo e ascolto non solo con occhi e orecchie, ma con chili di cuore e anima. Dall’urgenza di condividere, dalla musica che ho ascoltato, dalla musica che sento nelle dita ancor prima di suonare e scrivere.
Come si trasforma un mondo in “bianco e nero” (quello dei tasti del pianoforte) in un universo visionario?
Non c’è un come, non c’è un perché. Succede, naturalmente e con tanta passione. Arrivano visioni, arrivano immagini, l’immagine supporta la musica e viceversa.
In “Illegal song” come superi i concetti di dolore e oblio?
Illegal song e tutta la musica in genere ha il potere, almeno per me, di purificare il mio animo inquinato dai pensieri storti, dalla sofferenza e dal dolore. Così come ha il potere di accelerarmi il battito e portarmi verso le emozioni più forti ed autentiche.
Come si vive la musica in qualità di esperienza totalizzante?
Il pianoforte e la musica sono esperienze totalizzanti e catartiche. Mi sento una privilegiata nell’ aver scelto di vivere della mia più grande passione e trovare nel pianoforte, questa straordinaria macchina, un vettore che mi porta verso mete inaspettate.
In che modo il tuo percorso pregresso ti ha portato alla tua identità attuale?
Attraverso l’esperienza e la curiosità. Ho sempre amato sperimentare, uscire dalle regole anche se non in modo drastico, perdermi per ritrovarmi in nuovi mondi sonori. Finalmente ho trovato Roberta, centrata nel suo progetto artistico che la rappresenta completamente e profondamente.
Come riesci a trasformare questa emotività così spiccata, e a tratti violenta, in arte?
Succede anche qui, senza sforzo. Per “senza sforzo” intendo una naturalità del processo creativo, a cui segue però tanto impegno, tanta ricerca, tante ore di studio e mestiere. Sono certa di avere una emotività ed una sensibilità molto forti, non può che seguire tanta musica.
In che percentuale l’inquietudine e il tormento influiscono sulla creatività?
In altissima percentuale, almeno nel mio caso. L’inquietudine ed il tormento hanno contraddistinto la mia esistenza fino ad oggi, anche se non sono mancati momenti di gioia e serenità. L’inquietudine però è il segreto ed il prezzo da pagare per una vena creativa in continuo movimento, per non fermarsi mai, per tendere sempre a qualcosa di nuovo e soprattutto migliore.
Come si esprime la sensualità in musica?
Nella semplicità, ma quella semplicità pregna, elegante e non così banalmente dichiarata. La semplicità è davvero molto esigente e sono ogni giorno a perseguirla, così come la sensualità e la femminilità, che fanno la differenza nell’universo femminile.
Come definiresti il concetto di intimità?
La più profonda condivisione, capirsi nel profondo, nel più intimo. Darsi senza paura, completamente e senza filtri.
“Epilogue” chiude l’album o anche una parte del tuo percorso artistico?
Chiude solo l’album e le 10 storie visual che accompagnano i 10 brani del disco. Illegacy è un nuovo inizio, non potrebbe essere una fine.
Quali sono gli altri progetti che stai portando avanti?
Nuovi brani per il nuovo album, riecco l’inquietudine di cui si parlava prima, tanti concerti in italia e all’estero e tanto altro che comprende sempre la musica e la creatività! Ho fondato un brand di t-shirt che racconta di musica…Lalala #musictowear! Bianche e nere, ispirate ai tasti del piano…
Che tipo di feeddback hai ricevuto da parte delle persone che ti seguono?
Tantissimo entusiasmo. Illegacy piace tantissimo, colpisce e ruba l’anima. Quindi missione compiuta!
Quali sono i prossimi passi che vorresti compiere?
Lavorare per il cinema, scrivere con assiduità soundtrack e collaborare con registi che considerino la musica l’altra metà del cinema!
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