“Ufficialmente pazzi” è il nuovo lavoro discografico di Pallante. Elegante, creativo, stimolante, a tratti amarcord, questo disco lascia trasparire tutta la cura, l’impegno e la maniacale attenzione con cui è stato realizzato. Ad affiancare Pallante, un gruppo di lavoro eccellente: Michele Rabbia (batteria e percussioni), Pino Forastiere (chitarra e supervisione del progetto), Alex Britti (basso, batteria, lap steel guitar e amichevole supervisione), Enrico Terragnoli (banjo), Filippo Pedol (contrabbasso), Eric Daniel (sax), Mike Applebaum (tromba e supervisione ai fiati), Massimo Pirone (tuba e trombone), Gabriele Benigni & The Gabbo 4th (violino e supervisione agli archi). Dall’alto della sua profonda conoscenza del pentagramma, Pallante crea e scrive tra suggestioni e ricordi di tempi andati, senza rinunciare ad un chiaro richiamo ai toni internazionali d’oltreoceano. Spaziando liberamente tra cantautorato, canzone popolare, swing e ballate, Pallante smuove l’animo con ferma delicatezza. La sua voce ruvida, ipnotica e coinvolgente accompagna, descrive, critica, racconta storie armonizzata da chitarre, arpeggi e pause che veleggiano indisturbate tra tastiere e archi, senza soluzione di continuità.
In questo lavoro si parla di follia ( Ufficialmente pazzi) ma anche di lavoro sommerso (King, un nome da re), di senza tetto ( Andiamo in pace), di povertà e ricchezza (La Caroppa e Carmelo casalingo), di rapporti famigliari (Fino alle ossa) e anche d’amore ( Per sempre). Ironia e disincanto si alternano ad un elegante ed irresistibile romanticismo metropolitano per poi confluire, infine, nella magia di “A night in Manduria”, un brano strumentale dai toni crepuscolari, caratterizzato dalla travolgente carica di chitarre incalzanti e furiose, indomabili e lussureggianti, proprio come l’amore che Pallante nutre per ogni forma di espressione artistica.
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L’intervista
Perché il tuo album s’intitola “Ufficialmente pazzi” ? Dove hai trovato la forza, la tenacia, il coraggio di rifare il disco da zero per la seconda volta?
Ancora me lo sto chiedendo… in realtà dopo averlo azzerato e rifatto da capo ho dovuto fermarmi e ricominciare molte volte. Sono accadute cose impreviste durante il percorso ma anche cambiamenti di idea. Sai a volte capita che il risultato di un lavoro non sia esattamente quello che pensavi e allora puoi accettarlo così oppure ricominciare. Io ho ricominciato e oggi sono pienamente soddisfatto, so di aver fatto bene e anche se ho dovuto faticare un po’ di più ho esattamente il disco che pensavo, nel bene e nel male. “Ufficialmente pazzi” prende le mosse dalla poesia che ho avuto in regalo da Helèna, una mia amica. Contiene delle esperienze reali e delle riflessioni personali di grandissimo impatto e volevo che fosse chiaro che l’energia vitale di questo disco parte proprio da lì. In fondo chi decide cosa è folle o cosa è normale?
In una recente intervista hai dichiarato “non so suonare senza parlare e non so parlare senza suonare”…potresti approfondire questo discorso spiegandoci questo tuo rapporto viscerale con la musica e con la chitarra, più nello specifico?
Sono sempre stato un chitarrista, un amante della musica e dello strumento ma poi mi sono accorto che mentre suonavo avevo voglia di parlare, di raccontare. Molti anni fa, mi ricordo, avevo un gruppo rock e già avevo preso il vizio di “condire” le canzoni con racconti, parodie, improvvisazioni parlate mentre giocherellavo con la chitarra. Un giorno un mio “collega” musicista, molto meno propenso alla parola detta o ascoltata, dopo un concerto mi disse: “ ma che te parli, la gente te vo senti sonà, mica ragionà”. Chissà, forse aveva pure ragione, ma da quel momento non ho mai più smesso di parlare. Quello che vuole il pubblico è la verità, la purezza, vuole che un’artista ci metta la faccia e non finga, scimmiottando le star d’oltreoceano che scorrazzano sul palco. Per il resto, non può essere certo il pubblico a decidere cosa devo fare o non fare.
Pallante
Nelle 12 tracce che compongono l’album hai inserito ballate, swing, canzone popolare ed un lungo assolo nel finale. Quali sono le storie, le visioni, le suggestioni, i sogni e le speranze che hai racchiuso in questo lavoro?
Wow! Potrei dire che se c’ho messo così tanto a fare questo disco, potrei metterci sei anni a rispondere alla domanda. Cercherò di condensare: In questo album c’è un mucchio d’amore. Tutto qua. Veramente tanto. L’amore è stata la chiave di svolta non solo del disco ma anche della mia vita. Ho dovuto ricostruire tutto il modo che avevo di guardare fuori, di vedere gli altri. C’ho messo tanto e ho cominciato ben prima di questo disco. Devo dire che anche il mio essere vegano ha influito molto. La capacità di un artista di guardarsi intorno e trasformare in emozione ciò che vede è il fulcro dell’essere artista. In questo senso sono idealmente vicinissimo a Yodorowsky e al suo pensiero sull’arte. Artista è colui che crea emozioni, in ogni istante, con il linguaggio che in quel momento gli è adatto allo scopo. Un artista non replica e non cerca di replicare emozioni, non ripete delle cose perché funzionano. In questo lavoro è racchiuso ciò che ho visto in questi anni, con le sue continue trasformazioni che mi hanno costretto a ricominciare più volte affinchè trovassi una forma che potesse almeno per un po’ superare il tempo, che potesse essere guardata oggi o domani ottenendo lo stesso risultato. Non mi sono posto il problema del “quanto ci metterò” o del “funzionerà in radio”. Non me ne importa un fico secco. Ho cercato di fare del mio meglio e questo lavoro è un buon compromesso fra ciò che vorrei io da me stesso e ciò che me stesso può darmi oggi. Sono soddisfatto.
Come descriveresti gli anni durante i quali hai forgiato, attimo per attimo, ogni nota, ogni parola, ogni dettaglio della tua creatura musicale?
Splendidi, di ricerca, di pausa e rumore, di neve e colline assolate. E’ stato un tempo magnifico che ho goduto fino in fondo, sapendo che sarebbe stato unico e che non tornerà.
“King, un nome da re” narra delle vite di chi prova a sopravvivere nell’ordinaria irregolarità. A cosa ti sei ispirato e che messaggio vorresti trasmettere al pubblico?
King è un uomo, uno dei tanti, che, venuto nel nostro paese per scappare alla guerra, si trova a vendere calzini. Dieci anni qui, da fantasma, anche se ormai regolare, ma da fantasma. La sua storia è quella di altri mille e non contano i particolari, conta la sofferenza, l’umiliazione, il dolore. Eppure c’è una cosa di King che mi ha sempre colpito: il suo magnifico sorriso, anche nei momenti più faticosi, anche quando il padre era morto e lui non poteva tornare a casa e a casa non avevano neanche i soldi per seppellire quest’anziano uomo. Ecco, il suo sorriso è così illuminante per me, così pacifico e pieno di speranza che ogni volta che sto con lui tutto riassume i contorni giusti e le giuste prospettive. Il messaggio è speranza. Il messaggio è capire che non siamo il centro del mondo, anzi non siamo il centro di un bel niente e le nostre “tragedie” quotidiane sono quasi sempre dei piccoli, inutili e miseri vezzi di bambini egoisti.
Pallante
Blues, jazz, musica sinfonica e musica napoletana hanno rapito il tuo cuore…in che modo inglobi questi generi nel tuo mondo musicale quotidiano?
L’arte è una forma espressiva, non credo che contempli un “genere”. E’ una scatola inventata da chi ha bisogno di etichettare ogni cosa. Nel mio mondo musicale quotidiano c’è musica, poesia, libri, dipinti…c’è arte.
Che valore ha la “parola” nel tuo microcosmo personale e professionale?
Amo la parola, credo nella parola, come diceva Gianni Rodari non perché tutti siano poeti o scrittori ma perché tutti siano liberi.
Come mai hai scelto i disegni di Manuel De Carli per il libretto che accompagna l’album?
Conoscevo e a apprezzavo il suo lavoro da un po’ di tempo. Poi ci siamo conosciuti e mi è sembrata la persona giusta a cui chiedere questo tipo di lavoro artistico. Ne abbiamo parlato per mesi, seduti davanti a un buon vino e poi è venuto tutto come desideravo. Quando gli artisti con cui ti confronti hanno determinate sensibilità, lavorare è facile e porta sempre a buoni risultati.
Nel tuo lavoro figurano diversi colleghi…come ti rapporti al contesto musicale italiano contemporaneo?
Non saprei… io mi rapporto con delle persone, in questo caso fantastiche. Sono degli amici, gli stessi con cui vado a prendere una pizza e sono anche grandi musicisti. Il contesto musicale italiano non lo conosco granchè, non riesco ad ascoltare la radio perché mi sembra che passino sempre la stessa orrenda canzone e non ho la televisione. Compro dischi e ascolto tutto quello che mi piace e mi sento felice quando trovo artisti capaci. L’Italia ne è piena. Ma non riescono a esser ascoltati.
In che senso ti “batti per il diritto alla vita”?
Sono antispecista, per me la vita è vita, sia la mia, sia la tua, sia quella di un fenicottero che quella di un riccio. Non faccio differenze. Battersi significa agire, improntare la propria vita e le proprie scelte a questa visione. Significa anche combattere, non solo sventolare la bandiera della pace ma agire concretamente nella direzione della pace. Non sono certo il primo a farlo. Ciò che mi conforta è che i più grandi pensatori e uomini della storia abbiano avuto gli stessi pensieri. Tolstoj scriveva che “Il cibarsi di carne è un residuo della massima primitività; il passaggio al vegetarismo è la prima e più naturale conseguenza della cultura”. Credo sia una palese verità e credo che sia una palese verità l’assenza totale di cultura nel nostro paese.
Cosa vuol dire “essere indipendente, sul serio”?
Vuol dire che ho prodotto, scritto, arrangiato, suonato, cantato, missato e gestito questo disco dalla a alla z. Per scelta. Non perché la Sony mi ha detto che il disco non voleva produrlo. Del resto non lo so neanche, visto che alla Sony non ci sono mai entrato. Per scelta.
Ci anticipi qualcosa sull’idea di “Ufficialmente pazzi a casa tua” e del veg-tour?
Sarà un tour condominiale, per le case, con le famiglie allargate, gli amici. Suoneremo spesso in duo, io e Pino Forastiere, scegliendo solo i posti che davvero vorranno ascoltare la nostra musica. Non suoneremo accanto a banconi del bar o club-ristoranti mentre la gente chiede un piatto di penne al pesto. C’è una dignità da rispettare in quello che uno dei mestieri più difficili al mondo, quello dell’artista. Vogliamo azzerare la distanza tra il pubblico e il musicista, creare un vero rapporto di fiducia. Inoltre abbiamo superato il concetto di genere musicale, come dicevo all’inizio e suonare insieme con Pino, così diverso da me è un completamento, non un banale ostacolo. Usiamo la musica per comunicare e anche se la usiamo in modo diverso l’importante è comunicare, non conta la lingua che scegliamo. Sarà vegano perché non suonerò in posti che non assicureranno mangiare sano per me e per i miei ospiti. Sarà un bel divertimento.
Raffaella Sbrescia