Zibba, all’anagrafe Sergio Vallarino, rappresenta una delle più valide e interessanti realtà del nuovo cantautorato italiano. Sulle scene dal 1998 con gli Almalibre, Zibba ha raggiunto una maturità artistica dettata da una consapevolezza importante: uno sconfinato amore per la scrittura e per la musica. “Senza pensare all’estate” è l’ultimo lavoro, in ordine di tempo, del cantautore che pur avendo già riscontrato importanti e prestigiosi riconoscimenti come il Premio Bindi e la Targa Tenco, ha avuto la voglia e il coraggio di rimettersi in gioco sul palco del Festival di Sanremo nella categoria giovani. Con il brano intitolato “Senza di te” Zibba si è aggiudicato il Premio della Critica “Mia Martini” e il Premio della sala stampa radio-tv-web “Lucio Dalla” nella Sezione Nuove Proposte e, ad oggi, è l’ artista indipendente più trasmesso dalle radio. In questa intervista il cantautore apre le porte del suo mondo fatto di parole calde e messaggi diretti al cuore.
“Senza pensare all’estate” raccoglie una serie di fotografie musicali del suo percorso artistico, tra disegni di sogni e intime confessioni… ci racconta la genesi di questo lavoro approfondendo, in particolare, la cura per la ricerca analogica del suono e aggiungendo qualche pensiero che risale alla fase di scrittura di testi così intimi?
Questo è un lavoro importante sia per il modo in cui è stato affrontato da noi come band sia per le sue canzoni. Alcune fanno parte della nostra storia, altre appartengono al nostro presente e in qualche modo anche al futuro. La ricerca è partita dalla scelta dei brani, accurata e piuttosto difficile, seguita da una serie di prove. Abbiamo scelto di registrare in diretta, utilizzando tecniche e modi che ricordassero il concerto. Registrato e mixato in analogico per mantenere questo spirito live, il tutto è stato processato come fosse un disco di quarant’anni fa. Le canzoni seguono un filo conduttore ed è per questo che non è stato facile sceglierle. La direzione artistica di Andrea Pesce ci ha aiutato molto sia nella fase post che in quella creativa in sala prove. Si tratta di un disco che ci è piaciuto nella sua idea e che ci piace per come è venuto. I testi racchiudono simbolicamente uno sguardo alla totalità del mio modo di scrivere, rappresentando fasi temporali diverse, che vanno dalla quasi adolescenza fino al mio domani.
“Senza di te” ha ottenuto un grande riscontro mediatico, anche grazie al successo legato al Festival di Sanremo, eppure è sempre opportuno sottolineare l’importanza della frase “ti chiedo perdono per le cose che do scontate”… Secondo lei la forza emotiva del brano può risiedere nella facilità di identificazione, da parte dell’ascoltatore, nelle parole della canzone?
Credo di sì. Lavorare in questi anni sulla ricerca stilistica di alcuni grandi autori, come Giorgio Calabrese, al quale abbiamo dedicato un album nel 2013, mi ha aiutato a riscoprire una semplicità di scrittura che è propria di un modo ormai quasi inusuale di fare canzone. Le chiavi sono sempre la semplicità e la fantasia di chi ascolta che vuole il suo spazio per immedesimarsi e sentirsi parte della canzone.
Come descriverebbe la particolarissima struttura de “La Saga di Sant’Antonio?
Si tratta di un omaggio alle sonorità del Tom Waits dei primi anni ottanta. Quello dei dischi con i quali ho iniziato ad amare il suo modo di fare musica. La canzone parla di un uomo solo lasciato a pensare a se stesso e alla sua morte. Questa è una canzone che continuo ad amare, nonostante gli anni, perchè racconta qualcosa che, anche se non strettamente mio, forse parla di un me che potrebbe arrivare a tutti.
In “Nancy” canta “Amo la musica perché mi porta ovunque e da questo ovunque mi riporta via…” Quali sono le strade che riesce a percorrere grazie alle note?
Tutte. Senza aver mai voglia di smettere. Nancy racconta della mia esperienza teatrale e di un amore viscerale per la vita, di quanto la musica sia sposa del mio modo di vivere le giornate regalandomi sempre stupore e bellezza. Le strade non sono mai abbastanza quando si ha carburante in abbondanza e questo lavoro è un continuo rigenerarsi e ricaricarsi di nuova energia.
Zibba Ph Nicolò Puppo
Qual è, invece, l’idea da cui nasce “Bon Vojage”?
Una canzone estremamente autobiografica, che racconta di me in quei giorni del 2009. Anno strano, partivano amici e fidanzate e io rimanevo qui a sperare in un po’ di attenzione, che arrivò poco dopo grazie proprio a quel disco che nel duemiladieci ci portava sul palco del Tenco. Mi innamoravo di tutto perchè volevo amare a tutti i costi. Questa canzone è nata per le strade di Parigi nel mio vagabondare perso alla ricerca di nuove emozioni.
Molto delicata è la frase “oggi resto perché hai bisogno, domani vorrò farlo perché avremo un sogno… si tratta di un messaggio di speranza?
Si tratta di un messaggio chiaro che dice: “Oggi hai bisogno e mi sta bene stare qui anche se vorrei mandarti a fare in culo. Resto, ci provo. Perchè meriti cura e perchè io merito qualcuno come te ma troviamoci un motivo più grande, che non sia la debolezza, per stare insieme”. In qualche modo c’è anche speranza sì, intesa, però, nel modo meno romantico. Scegliersi per la vita è una cosa difficile ma poi quando ti scegli e ne sei consapevole è grandioso in tutti i suoi aspetti.
Come si è evoluto negli anni il rapporto artistico con gli Almalibre e come riuscite a trovare l’equilibrio necessario per creare gli arrangiamenti su misura per queste bellissime poesie?
La serenità è alla base di tutto. Per arrivare ad essere in armonia tra noi siamo dovuti passare dal peggio. Come diciamo nella canzone del festival è importante saper riconoscere i propri errori per ripartire proprio da quelli e costruire qualcosa di importante. Siamo diventati il gruppo di persone che volevamo essere. Amici, famiglia. Una super squadra che si conosce molto bene.
Zibba e Almalibre Ph Nicolò Puppo
Qual è la sua forma mentis musicale, alla luce del fatto che è ormai giunto al suo sesto lavoro discografico?
Sempre e comunque in evoluzione come tutto. Fondamentale. Non smettere di aver voglia di crescere e imparare è l’unico modo che conosco per affrontare qualunque cosa nella vita e nella musica.
Uno dei suoi commenti più recenti, relativi al tour in corso, è stato “La musica è di tutti, le canzoni lo sono”… sarà ancora questo il suo mantra per le prossime canzoni che scriverà?
Assolutamente sì. La musica è un fatto collettivo: parte da un singolo per diventare di tutti e tornare di nuovo indietro in altra forma. La mia intima visione delle cose sta vivendo dei nuovi input e trova forza in un nuovo metodo creativo che mi sta divertendo e affascinando. Adesso ho proprio voglia di scrivere e ho scoperto che mi piace ancora farlo perchè lo faccio in modo diverso. La voglia di scrivere non si esaurisce, a volte si perde la strada ma basta fermarsi e osservare l’orizzonte o le stelle per capire dove siamo.
Come sta vivendo la dimensione live e che prospettive ha per il futuro?
Nel futuro ci sono concerti fino alla morte e dischi fino a che avrò voce. Inoltre sto prendendo le misure con l’essere padre, la sfida più grande che ci sia. Voglio continuare a stare bene, trovare sempre nuove cose per far vibrare il tutto. Un percorso meraviglioso che non ha mai fine.
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Zibba e Tatiana Lo Faro di Parole e Dintorni per la disponibilità
Ogni concerto, una sorpresa… la rassegna Suo.Na, organizzata da Ufficio K, in collaborazione con Bulbartworks e Wasabee, continua a mietere successi: lo scorso 3 aprile è toccato agli scatenati Calibro 35 infiammare il pubblico del Duel Beat di Napoli. Ad aprire il concerto A new horizon. Il gruppo napoletano, eccezionalmente in formazione acustica, ha presentato al pubblico alcuni dei brani inediti contenuti in “Penrose”, l’album di inediti pubblicato poco più di un mese fa. In scaletta “Non è più tempo per noi”, “Più che esistere”, “Radioactive” ( Imagine Dragons), “We just go”, tratto dal precedente album “Go back”, “Vorrei”, “Biblical” (Biffy Clyro) e “Leggera”. Subito dopo il palco si è riempito dell’energia dei Calibro 35.
Massimo Martellotta alle chitarre e ai lapsteel, Enrico Gabrielli agli organi e ai fiati, Fabio Rondanini alla batteria, Luca Cavina al basso e Tommaso Colliva alla regia sono stati in grado di costruire un vero e proprio marchio di fabbrica. Band di culto dedita a riproporre le più interessanti rivisitazioni delle colonne sonore dei film polizieschi, che hanno decretato la fortuna del cinema italiano anni 70, i Calibro 35 hanno subito imposto un mood molto speciale alla serata.
A partire da un rock vintage, a tratti prog o jazzato, i Calibro si sono resi protagonisti di una performance scenica e sonora degna delle più rinomate piazze musicali europee. A proposito di Europa, il gruppo è reduce da una massica trasferta oltreconfine che li ha visti al centro di numerosi palcoscenici di elevata connotazione avanguardistica. Criminali, uomini del potere, malavitosi, pericolosi gangsters sono i protagonisti delle composizioni strumentali dei Calibro 35 che, dall’alto del loro repertorio intriso di prestigiosi riferimenti a famose colonne sonore, hanno concesso ampio spazio ai brani originali del loro ultimo lavoro discografico intitolato “Traditori di tutti”, i cui brani si ispirano al romanzo omonimo di Giorgio Scerbanenco.
Calibro 35 Ph Luigi Maffettone
Attraverso un continuo saliscendi sonoro, che attinge da personalità estremamente eterogenee e tutte molto forti, i Calibro 35 riescono a trasmettere la propria essenza attraverso un virile scuotimento fisico dello strumento. Il fascino della loro performance riesce a coinvolgere il pubblico rendendo fruibile e fascinosa l’essenza di una musica cruda, truce e sanguinolenta. Non c’è spazio per metabolizzazioni, cucchiaiate di riff e martellanti percussioni vanno giù insieme a dolci sessioni di sax e flauto traverso. Il risultato è un’originale visione estetica del suono, avvincente!
Il prossimo 22 aprile Claudio Domestico, in arte Gnut, pubblicherà “Prenditi Quello Che Meriti”, il suo terzo album di inediti, edito dall’etichetta torinese INRI. Undici tracce delicate ed intimiste raccontano le avventure e le emozioni di Claudio che, nel corso degli anni, si è dedicato anima e corpo alla musica. Lunghi viaggi, notti insonni, mille progetti e mille sogni hanno dato vita ad un lavoro che intende seguire una direzione diversa dal passato. “Prenditi quello che meriti” racchiude un messaggio preciso, diretto, semplice ma efficace, un invito alla costruzione di se stessi e del proprio destino. A poco meno di un mese dall’uscita del disco, abbiamo sentito Claudio per lasciarci conquistare dal fascino dei segreti e degli aneddoti che hanno dato vita ad un piccolo grande capolavoro.
Perchè ti definiscono uno chansonnier errante?
Più che adun motivo musicale, questo appellativo è forse dovuto alla vita che faccio, ho vissuto Milano dal 2007 al 2011 e sono due tre anni che mi sposto così velocemente da non avere fissa dimora. Sono napoletano ma quando mi chiedono dove vivo, la mia risposta è “non lo so”.
“Prenditi quello che meriti è, non solo il titolo dell’album, ma anche un monito importante…come lo motivi?
Mi piaceva molto l’idea di un usare un titolo del genere perché ha una valenza sia positiva che negativa: se non sei stato abbastanza bravo da costruirti un futuro che ti piace è anche giusto che tu non riesca a raggiungerlo. D’altro canto, però, se semini bene, raccogli bene altrimenti no. Inoltre penso che quando una persona si costruisce piano piano un suo obiettivo, a prescindere da quale esso sia, il raggiungimento di quest’ultimo rappresenta la più grande soddisfazione che si possa avere. In sintesi si tratta di un consiglio che do sia a me stesso che a tutti coloro che ascolteranno le mie canzoni.
Claudio Domestico Ph Alessandra Finelli
Questo terzo disco nasce dopo una lunga gestazione. Quali sono i retroscena, i pensieri, le intuizioni che si nascondono tra le note di questo lavoro?
Sono canzoni che ho iniziato a scrivere nel 2008, quando ancora stavo registrando l’altro disco. Ho girato tantissimo e ho fatto tante altre cose, colonne sonore, produzioni artistiche, progetti paralleli… si tratta di testi che ho scritto di notte o quando avevo un po’ di tempo per stare da solo, quelle poche volte che non mi trovavo a condividere casa con qualcuno. Terminata la fase della scrittura, ho deciso di registrare andando in giro dai miei amici musicisti: ho registrato i violoncelli e le chitarre acustiche con Mattia Boschi, la sezione fiati nel soggiorno di un altro amico poi sono sceso di nuovo a Roma e ho registrato i pianoforti a casa di Fish, altre chitarre a casa di Roberto Angelini. Poi ho raccolto il tutto e sono andato a Sorrento per rifinire il lavoro. In quell’ occasione riaffiorarono gli incontri, i ricordi, le emozioni, i viaggi… e, ancora oggi, mi emoziona molto riascoltare l’album.
Il tema portante dell’album è il viaggio. Rifacendoci alle parole del singolo “Non è tardi”, si tratta di un viaggio “contro un mondo che non ci risponde”?
I viaggi sintetizzano un po’ tutti gli aspetti della vita: ci sono momenti in cui ti senti capito, altri in cui ti senti solo, momenti in cui il tuo vicino di posto in treno diventa il tuo migliore amico… Si tratta di una sintesi della vita, una buona valvola di sfogo per raccontare il proprio percorso.
Come nascono i featuring presenti nel disco e, in particolare, quello con Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi in “Fiume lento”?
Io e Giovanni ci conosciamo da un po’ di anni perché anche lui si è trasferito a Milano intorno al 2005-2006, ci incontravamo alla Casa 139 e sono andato a sentire tante volte i Marta dal vivo. Spesso parlavamo di come sarebbe stato bello fare qualcosa insieme, qualche volta ho aperto qualche loro concerto, Mattia Boschi ha suonato nel mio disco e, anche se a distanza, Giovanni ha seguito l’ evoluzione di questo lavoro. Poi c’era questa canzone” Fiume lento” e una sera ho detto a Giovanni che, secondo me, questo brano poteva essere quello giusto per cantare insieme e lui ha accettato. A Milano, durante un pomeriggio, abbiamo provato il pezzo, ci siamo emozionati perché ci è piaciuto un sacco. L’intuizione era stata giusta, mi ero immaginato dei cori che lui poteva fare nel secondo ritornello e alla fine è andata più che bene! Dopo le prove ci siamo abbracciati, siamo contenti e adesso non vediamo l’ora di cantarla insieme dal vivo.
“Prenditi quello che meriti e dona a chi merita quello che puoi, dona a chi merita la tua poesia… sono parole forti e dirette…
Per stare in pace con sé stessi , l’unica cosa che si può fare è cercare di realizzare i propri obiettivi guadagnandoseli, con questo brano vorrei cercare di spingere me stesso e chi ascolta ad essere migliore. Non ci sono doppi fini, se hai qualcosa da dare, dallo a chi lo merita… è un meccanismo simile al karma “prendi e dai”.
Gnut Ph Alessandra Finelli
“Nun saccio se è amore o guerra ma ‘o segno resta, ‘o segno resta”, canti nella drammatica “Solo una carezza”, come sei riuscito a rendere per iscritto il dramma di una storia vera?
In realtà si tratta di un brano che ho scritto dopo che mio padre mi raccontò la storia di sua nonna, una storia di fine 800. Questa donna fu costretta sposare un uomo che le aveva fatto violenza per costringerla a sposarlo e, quando mio padre mi raccontò questa storia, un paio di anni fa, rimasi completamente scioccato perché ero cresciuto inconsapevole di una cosa così allucinante. Fortunatamente c’è stato un lieto fine perché quel personaggio cattivo dopo un po’ è morto e lei, in seguito, è riuscita a trovare un altro giovane uomo che l’ha sposata e, insieme, hanno dato vita a mia nonna. La forza di questa donna che ha combattuto per la vita che meritava, il suo percorso, la sua reazione sono un esempio da seguire. Ecco perché dopo il racconto mi sono messo subito a scrivere per poter raccontare la storia nella maniera più lineare possibile. Il risultato è una piccola magia, tutti i parenti si commuovono quando la sentono…
“Foglie di Dagdad” ed “Estate in Dagdad” hanno un segreto in comune… qual è?
Sono sempre stato affascinato dalle accordature aperte ma sono molto pigro e, ogni volta che in passato ho cercato di usare un nuovo tipo di accordatura, dopo un po’ mi annoiavo e non riuscivo a trovare le soluzioni che cercavo. Due estati fa mi è capitato di fare un incidente in macchina e ho avuto dei problemi alla mano per cui non riuscivo a suonare con tutte le dita, potevo usarne solo due, avevo voglia di suonare ma non sapevo cosa suonare e quindi ho accordato la chitarra in questo modo strano. Grazie all’uso di due dita sono riuscito a comporre “Estate in Dagdad”, me la sono suonata 20-30 volte al giorno perché era l’unica cosa che riuscivo a suonare, la volevo intitolare in un altro modo ma, memore del fatto che sono smemorato, ho scelto di intitolarla “Estate in Dagdad” così, tra dieci anni, se la dovrò risuonare, mi ricorderò dell’accordatura e non avrò problemi dal vivo (ride ndr). Dopo un po’ ho scritto anche “Foglie di Dagdad” e ho scelto di creare questo gioco di parole, guardando la lista dei titoli delle canzoni, mi sono reso conto che Dagdad faceva pensare sia un posto che ad una pianta e quindi ho sorriso pensando alle eventuali interpretazioni delle pubblico. Adesso, però, sto suonando “Estate in Dagdad” con accordatura normale e la chiamo “Estate in accordatura normale”…
“In dimmi cosa resta” ti esponi davvero molto in frasi come ”Guardami negli occhi e dimmi cosa vedi” cosa intendi comunicare in questo brano?
In realtà questa canzone è nata dopo un litigio con una persona a cui tengo molto, cioè mio padre. Ci sono un po’ tutte le cose che ciascuno di noi si sente dire o dice quando ci si scontra con una persona che si ama in un momento di forte rabbia. Si tratta di uno sfogo in cui, nel ritornello in particolare, si evince che quando due persone si vogliono bene e ci sono dei legami d’affetto profondi, guardarsi negli occhi diventa ancora più importante, soprattutto nei momenti di rabbia. Questa canzone vuole quindi creare proprio un contrasto tra una musica allegra e solare e questo rinfacciarsi cose cattive…
“Per ogni vittoria, ci sono cento sconfitte”?
Questa è una frase che ho scritto per “Torno”, un brano che ho composto dopo che ero tornato da 14 concerti e 200-300 km percorsi ogni volta… Gli ultimi live erano stati particolarmente avvilenti perché si erano tenuti in contesti poco carini come pizzerie dove parlavano tutti, una cosa allucinante. Dopo tutto questo giro incredibile, ero tornato a casa alle 5 e mezza del mattino, era quasi l’alba, quel momento del giorno in cui ritorna la luce e le notti che sono trascorse ti attraversano gli occhi e il viso, mi sono guardato allo specchio e sentivo l’esigenza di dovermi sfogare, non stavo bene in quel momento e, mentre scrivevo le parole del testo, mi sono reso conto che stavo raccontando un milione di ritorni a casa in cui torni deluso o soltanto stanchissimo per tutto quello che stai cercando di dare e non ti è tornato abbastanza. Ho scritto le parole in maniera molto veloce, ho registrato il brano su un piccolo registratore che avevo, si erano ormai fatte le 6.30, non riuscivo più a tenere gli occhi aperti, sono andato a dormire e l’ho messa nello scatolone con le altre canzoni che stavo raccogliendo. Ritrovandola mi ha colpito il fatto che, leggendo il testo, non ho rivisto solo quella notte, ne ho riviste davvero tante altre e quindi mi sono fatto un pò tenerezza nel constatare il tentativo di combattere tutte queste notti e di portare a casa un sorriso e di accettare tutte le sconfitte godendo delle piccole soddisfazioni. Scoprire che le nostre vite si somigliano e che, dopo essermi raccontato, possa trovare delle persone che si ritrovano in quello che ho scritto è una sensazione che mi fa sentire meno solo, si tratta di uno scambio magico e meraviglioso che mi fa alzare la mattina sentendomi felice.
Gnut Ph Alessandra Finelli
Facendo un gioco di parole con il testo di “Universi”: Cosa prendi? Come spenderai il tuo tempo? Come ti senti?
Prendo tutto quello che posso e che penso di meritarmi, spenderò il mio tempo come ho fatto fino ad adesso, cercando di esprimere quello che sento quello che vedo, vivendo come ho fatto finora. Oggi mi sento molto bene, ogni tanto stanco, però mi stanco a fare cose che mi piacciono.
In “Passione”, la bellissima reinterpretazione dell’intensa canzone di Libero Bovio, hai creato un particolare passaggio dal temporale al canto degli uccellini…come mai questa scelta?
Si tratta di un discorso molto semplice: quando ho iniziato a registrare non sapevo quanto sarebbe durato il disco e, nel momento in cui ho realizzato che chiesto in tutto durava 30 minuti, mi sono accorto che era troppo poco tempo e che mi serviva un altro pezzo, quindi ho deciso di fare una cover. Avevo scoperto “Passione” da 3-4 mesi , ero in una fase emotivamente sensibile a quelle parole, a quell’atmosfera, a quella melodia, inoltre era la canzone che suonavo ogni volta che mi trovavo da solo, alle 4-5 di notte mi chiudevo in una stanza e la suonavo, era diventata morbosamente mia. Dunque serviva un altro pezzo per il disco e decisi di inciderla; il fonico, dall’altra stanza, mi disse di chiudere la finestra perché in quel momento stava piovendo, io, invece, gli dissi di posizionare un microfono proprio vicino alla finestra per registrare la pioggia e ho realizzato questa versione chitarra e voce del pezzo. Il problema si presentò, quando, alla fine della canzone, c’era ancora questo temporale in corso e, considerando che volevo sceglierla come finale del disco, stavolta il mio intento era quello di lasciar emergere un mio lato più solare per cui ho inserito il cinguettìo finale sfumando il temporale.
A che punto è il progetto legato alla realizzazione di un libro per bambini, che vedrà anche la collaborazione di Alessandro Rak?
Un paio di anni fa regalai a mio nipote un tamburo e, mentre eravamo ad un cenone di Natale, lui arrivo da mE e mi disse che aveva scritto una canzone intitolata “Il Pupazzo strapazzato”, poi tornò e mi elenco altri titoli meravigliosi, li segnai tutti sul cellulare e li ho tenuti in bozze per mesi. Dopo un pò mi sono ricordato di avere questi 8 titoli sul cellulare, sono tornato a casa e mi sono messo a scrivere queste canzoncine durante un’estate di due anni fa. Ho iniziato a registrarle piano piano e infatti non ho ancora finito perché, nel frattempo, ho fatto tante altre cose. Intanto è uscita “L’arte della felicità”, il film di Rak e lo staff del film ha lavorato pomeriggi interi a queste canzoncine durante la lavorazione del film. Ci siamo organizzati per curare il progetto insieme con delle illustrazioni da abbinare a queste canzoni e piccoli corti animati… vorrei realizzare un libro con tutte le illustrazioni, come quelli con le copertine morbide, organizzare dei concerti per bambini, ma ci vorrà un po’ di tempo perché Rak è impegnatissimo tra vari lavori e anche io…
Che rapporto hai con i Foja?
Sono molto amico di Dario Sansone da 3-4 anni. Ci siamo conosciuti meglio grazie a Gino Fastidio, che è un amico comune, poi ci siamo inventati il progetto Tarall &Wine con dei pezzi in napoletano, su tutti “L’importante è ca staje buono” e, verso la fine di quel periodo, c’erano anche i Foja che dovevano registrare il loro secondo disco. Io venivo da un altro paio di produzioni che avevo fatto tempo prima, si era creato un ottimo rapporto di amicizia, conoscevo bene tutti i membri del gruppo e, in virtù di una stima reciproca molto forte, mi hanno chiesto di rimanere in famiglia e io ho accettato. Ci siamo messi a lavorare per quattro mesi alle loro bellissime canzoni ed è una bella esperienza sia dal punto di vista umano che artistico. Sono molto soddisfatto del risultato e, quando posso, sono ospite ai loro concerti.
Cosa ci anticipi del progetto “Nevermind” in napoletano con Gino Fastidio e Jonathan Maurano?
E’ nato tutto per caso anche questa volta. non vedo l’ora che esca questo progetto perchè è la cosa più divertente che abbia mai fatto in vita mia! In realtà è nato tutto all’Angelo Mai a Roma, che in questo momento sta vivendo un momento molto difficile, l’ si tenevano delle serate a tema intitolate “Long Play”: diversi artisti si esibivano interpretando un disco intero con la scaletta originale e mi hanno chiesto di partecipare al progetto. Il fatto è che io sono molto pigro nello studio dei pezzi degli altri: o mi viene come passione o diventa solo studio. Da ragazzino suonavo i Nirvana con Gino Fastidio e gli ho chiesto di rifare “Nevermind”. Lui è stato molto contento e, durante le prove, ci siamo molto divertiti perché lui si inventava delle cose che facevano davvero ridere e mi è venuto in mente che a Napoli, durante gli anni 70 /80, c’erano gli Shampoo, un gruppo che interpretava i pezzi dei Beatles in napoletano, per cui e ho pensato che, in omaggio a questo gruppo, potevamo chiamarci i Balsamo… ognuno di noi ha un alter ego, io, per esempio, suono il basso…
In conclusione, tra Tarall &Wine, le mie serate, i Balsamo e i pezzi per bambini la mia vita è molto piena. Il percorso per sentirsi arrivati è ancora lungo ma, forse, è meglio non sentirsi mai arrivati perché altrimenti ti spegni e non hai più voglia di fare le cose.
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Claudio Domestico e Stefano Di Mario di Metratron per la disponibilità
Gaetano Morbioli insieme a Francesco Silvestre dei Modà
Gaetano Morbioli è uno più noti registi italiani. Tantissimi dei videoclip musicali più visti portano la sua firma, che individua nell’essenzialità del suo approccio artigianale l’unicità del suo stile. Nel corso di trent’anni di carriera Gaetano ha saputo instaurare un rapporto di fiducia con tantissimi artisti, grazie alla sua professionalità e all’amore per il rispetto della musica. Creatore del canale televisivo Match Music prima e della società Run Multimedia poi, Gaetano Morbioli è riconosciuto come uno dei massimi esponenti del settore audiovisivo italiano. In questa intervista il regista racconta il suo lavoro approfondendone gli aspetti tecnici senza tralasciare problematiche, sfide e nuove prospettive.
Gaetano, con quali parole spiegherebbe il suo lavoro?
Il nostro è un lavoro molto particolare, l’audiovisivo fonde la comunicazione classica di uno spot pubblicitario con lo sviluppo di un cortometraggio con l’obiettivo di poter far ascoltare la canzone esaltandola. La particolarità sta nel fatto che bisogna cercare di suscitare la stessa emotività che solitamente viene stimolata quando si guarda un film.
Quali sono le fasi e i passaggi principali che scandiscono la produzione di un video musicale?
I brani composti dagli artisti sono legati ad un progetto discografico, già frutto di una linea guida precisa, in grado di fornire l’idea generale su cui si svilupperà il videoclip. Il mio ruolo è, quindi, quello di cercare, insieme all’artista, di individuare il tipo di linguaggio e la storia da creare attraverso l’ideazione di un video. Nella prima fase ci sono due teste e quattro mani non solo per scegliere la storia ma anche il tipo di abbigliamento, le comparse, la tipologia di produzione da mettere in piedi… si discute di tutto e di più poi ci si rivede il giorno dopo e la ricerca creativa continua. La seconda fase, molto più produttiva, consiste nel cercare di mettere insieme quello che si è deciso di fare: c’è la ricerca delle modelle, dello styling, della location, fino ad arrivare al giorno delle riprese, durante il quale si procede allo shooting. Da qui in poi c’è la fase più delicata del lavoro ovvero l’editing e il montaggio: è importante sottolineare che il montaggio di un videoclip rappresenta la parte essenziale di tutto il lavoro. A differenza della pubblicità, che in 30 secondi mostra quello che hai realizzato, o del cinema in cui hai, invece, dei tempi lunghi per decidere che tipo di montaggio realizzare, nel videoclip comanda la musica, non puoi prescindere da essa! Sarà il montaggio a determinare se il videoclip sarà un grande successo o un grande fallimento. Dopo una settimana di montaggio si arriva al prodotto ideale che, dopo essere stato confrontato sia con l’artista che con i discografici, viene poi inserito in un percorso di programmazione dominato soprattutto da internet e dalla comunicazione via social networks.
Gaetano Morbioli sul set di un videoclip di Laura Pausini
Come cambia, di volta in volta, il suo approccio nella trasformazione della musica in immagini?
Partiamo dal presupposto che è sbagliato pensare che il regista di un videoclip sia un autore. Fare il regista di videoclip significa innanzitutto mettersi a disposizione di una fase creativa già eseguita e realizzare quello che vuole l’artista. Nel momento in cui un artista non si interessa del proprio progetto o dice “voglio quel regista perché vorrei che egli mettesse a frutto la sua visione” si verificano gli errori più clamorosi che si possano fare. Di fondo è come se si volessero incrociare due comunicatori diversi: da un lato c’è la visione del regista, dall’altro c’è la canzone…il risultato sarebbe la stratificazione di due comunicazioni diverse: la canzone che vuole dirti qualcosa e il regista che la vede alla sua maniera, per un risultato scadente. Molte volte i video che realizziamo noi vengono visti e funzionano su internet per un motivo preciso: ci mettiamo a disposizione di un percorso creativo che c’è già. Il ruolo del regista è simile a quello di un meccanico in questo senso. Poi è chiaro che la capacità di filmare in una certa maniera o di scegliere un posto piuttosto che un altro determinano il valore del videoclip che, in ogni caso, ha la funzione principale di arrivare al maggior numero di persone possibile.
Lei ha iniziato a lavorare in questo settore a 17 anni… come si è evoluta, da allora la sua carriera?
Nella vita si fanno delle scelte ma a volte è anche una questione di casualità… Il destino può essere vario e la fortuna incide tantissimo nella vita di ogni persona. Nel mio caso, quando ho iniziato ho sempre detto:«Mamma mia nella mia vita non farò mai videoclip», questo è un lavoro veramente snervante, anche dal punto di vista produttivo: hai 3 minuti in cui devi girare come se si trattasse di un cortometraggio quindi, dovendo lavorare a bassi costi, devi farti un mazzo tanto in un giorno per poi concentrare tutto in quei tre minuti; questo è devastante, anche dal punto di vista psicologico. Il mio percorso è molto semplice: nasco in provincia, da una famiglia molto povera, di origine contadina, anche io sarei diventato un contadino oppure avrei lavorato nel terziario ma dall’età di 15 anni ho cominciato a fare diversi lavori. Ho fatto l’elettricista, il meccanico e per guadagnare qualcosa in più anche il facchino in un’azienda di traslochi. Questo lavoro, in particolare, era faticosissimo, ci si spaccava la schiena dal mattino alla sera. In seguito ho intercettato, per caso, in estate, la possibilità di poter dare una mano ad una tv locale di Verona ed essere il classico garzone di bottega che dava una mano agli operatori che andavano a fare le riprese in giro. A quell’epoca l’operatore non aveva la telecamera completa quindi aveva bisogno per forza di un aiuto, ho fatto questo lavoro a tempo perso, mentre gli altri erano in ferie, facendo anche la messa in onda, mettevo in onda dei video in una tv locale con dei turni notturni e lì ho capito tante cose, mi sono detto che se mi pagano per guardare la televisione, mia grande passione negli anni ’70, dovevo assolutamente imparare questo lavoro. Da qui è partita la passione, mi sono avvicinato al mondo della tecnologia, ai mixer, ai video, vedevo cose che per me erano veramente fantascienza per il tipo di percorso che avevo fatto prima.
All’inizio si è trattato soprattutto di applicazione, volevo imparare a tutti i costi per capire e ho cominciato a studiare in maniera quasi maniacale, di notte, per imparare le cose. Se uno si applica, impara anche le cose più impensabili ed è così che è cominciata la classica gavetta. Insieme ad un amico inventai un programma che si chiamava “Match Music”, prima ancora di Mtv, volevamo lanciare un tipo di linguaggio nuovo per i ragazzi e pian piano Match Music è diventato un canale televisivo. Nel corso degli anni ho conosciuto tantissimi artisti della musica italiana, abbiamo iniziato con piccoli prodotti audiovisivi realizzati con le telecamere di una televisione locale poi, la qualità del lavoro e la determinazione ci hanno permesso di arrivare ad essere quello che siamo dall’1984 ad oggi. Sono passati 26 anni e, attraverso varie fasi, siamo una realtà basata sul voler rendere un servizio alla musica.
I suoi lavori sono ormai tantissimi e altrettanto numerosi sono gli artisti che si affidano a lei e a Run Multimedia per la realizzazione dei loro videoclip. Come riesce ad instaurare un rapporto di fiducia con gli artisti?
Per me è importante svolgere questo lavoro dietro le quinte e cercare di farlo il più seriamente possibile. In questo momento, se ci si pone come una persona seria e professionale e se ci sono dei risultati importanti, è chiaro che gli artisti vengono da me non solo come amico, ma anche come azienda, e vengono per ottenere dei risultati. Firmare i video genera una sorta di meccanismo per cui i registi fanno in fretta a volersi chiamare tali. Ormai tanti ragazzi si buttano in questo mondo e vogliono prima di tutto essere chiamati registi invece di essere effettivamente pratici nelle cose ed è uno dei danni maggiori per chi si avvicina a questo settore. Nell’audiovisivo, il segreto per svolgere un buon lavoro sta nel lavorare con la stessa dinamica, la stessa passione, la stessa voglia di far bene sia se lavori per una piccola bottega di provincia sia se devi lavorare per Adriano Celentano.
Che rapporto ha con la cinepresa?
Nel corso della nostra vita ci capita tante volte di fare involontariamente ricerca: guardando un libro o leggendo una rivista abituiamo la nostra testa alla bellezza. La scoperta della mia passione è arrivata attraverso la fotografia: con la macchina fotografica posso creare un vero e proprio gusto. Il gusto della scelta, di un’ottica, della ripresa del campo, etc… il tutto per ottenere il risultato che voglio. Durante un pomeriggio della mia giovinezza, fotografai mia sorella e usai per la prima volta una reflex, in quell’occasione ho capito che la reflex ti permette di realizzare quello che tu vedi nell’obiettivo. La comprensione di quel segreto mi ha fatto andare avanti in tutte le scelte che ho fatto in seguito: dal tipo di ripresa all’inquadratura, al tipo di macchina da usare per riprendere fino alla decisione di realizzare video coi 35 mm, che all’epoca nessuno usava. In funzione del mio rapporto fisico con la macchina, ho deciso di essere anche direttore della fotografia, oltre che video-operatore e regista.
Come mai Verona compare spesso nei suoi lavori?
Verona è una città di mezzo tra una città di provincia e grande città e ricorda tutta l’Italia come immagine, ha un fiume che l’attraversa, caratteristica di tantissime città ed è il simbolo di un’Italia che mi piace. Ho girato un po’ dappertutto, in Sicilia, in Sardegna, in Puglia, a Napoli ma sono molto più comodo a Verona. Non si tratta di un rapporto speciale, se abitassi in un paese di provincia delle basse, troverei, forse, anche lì’ un modo per riuscire a valorizzare quel posto. Se sei in un mondo in cui c’è crisi economica, devi risparmiare, devi trovare delle soluzioni, devi cercare di trovare delle condizioni che rispondano ai requisiti che cerchi e Verona è in grado di fare fronte a queste necessità. L’ho scelta anche quando ho lavorato con Adriano Celentano per l’apertura dell’evento “Rockpolitik”: 10 minuti di volo sulla città mi hanno dato lo stesso effetto che avrei avuto volando su Roma o Berlino.
Se si utilizzassero le città italiane come cartoline, cioè per il valore estetico che possiedono, si farebbe un grande lavoro di rispetto del proprio luogo e delle proprie tradizioni. A proposito di questo, vorrei estendere il discorso anche alla musica: tante volte gli artisti italiani tentano di scimmiottare gli americani ma noi abbiamo un valore che esiste a prescindere, siamo legati alla nostra melodia, nostra storia musicale che è nel nostro Dna.
Cosa pensa delle colossali produzioni video d’oltreoceano?
E’chiaro che se si opera in un mercato con un potenziale pubblico di 500 milioni di persone, si procede alla realizzazione di mega produzioni create in funzione di questo aspetto. In Italia dobbiamo basarci su un panorama di 50 -60 milioni di persone e questo determina il fatto che ci siano investimenti molto bassi. In America si parla di un bacino di utenza in grado di raggiungere tutto il mondo e c’è una selezione molto più serrata degli artisti. In Italia, invece, la competizione deve basarsi sulla storia della nostra musica, bisogna evolvere pur rimanendo legati alle nostre radici ed è lo stesso motivo per cui funzionano i Modà o Pino Daniele, il quale è riuscito a portare la nostra melodia un elevato livello di ricerca e di raffinatezza.
Quali sono, secondo lei, le nuove frontiere del suo settore?
Il nostro mestiere è quello in assoluto più legato alla comunicazione. L’audiovisivo è uno dei settori più in espansione per quel che riguarda il prossimo futuro perché qualsiasi tipo di azienda, in qualsiasi tipo di settore, dal comune, alle imprese private, all’industria, alla musica, avrà bisogno di comunicare, soprattutto attraverso le immagini. Ci sono grandissime opportunità nel mondo dell’audiovisivo e, se riusciamo a creare i giusti presupporsti, possiamo creare un’importante opportunità di lavoro per i nostri figli. Credo in un futuro che passi attraverso l’audiovisivo ma deve esserci una formazione seria. Abbiamo una cultura e dei posti che ci differenziano dagli altri e abbiamo la possibilità di giocare la nostra grande partita e questa partita io la voglio giocare!
Vorrei far capire che c’è qualcosa di positivo nel nostro settore oltre che fare il regista per videoclip. Vorrei far capire quanto è importante imparare bene e infatti abbiamo in mente vari progetti, su tutti la Run Academy un progetto che vedrà la luce nei prossimi mesi. Si tratterà di un contesto serio in grado di insegnare questo mestiere a chi lo desidera davvero. Il nostro mondo è molto duro, si pensa che sia tutto facile ma, se si sbaglia un lavoro, ci vuole un attimo ad esserne rigettato fuori.
Raffaella Sbrescia
Si ringrazia Gaetano Morbioli per la disponibilità
DiscoDays, la Fiera del Disco e della Musica, giunge alla XII edizione con un nuovo atteso appuntamento previsto per domenica 6 aprile, dalle 10.30 alle 21.00 (ingresso 4,00 euro gratis sino a 18 anni) presso il Palapartenope di Napoli, in via Barbagallo. Il format del team guidato da Nicola Iuppariello rimane consolidato senza, tuttavia, rinunciare a nuovi spunti creativi. Punto di riferimento per appassionati e cultori della musica di tutto il mondo, la fiera offrirà come di consueto numerose rarità: vinili made in UK, edizioni giapponesi, Ep dei Beatles autografati. Ad arricchire la preziosa giornata numerosi eventi organizzati ad hoc.
Tra tutti, spicca la premiazione di Guido Harari, riconosciuto come uno degli autori più significativi nel campo del ritratto fotografico. L’artista dell’obiettivo riceverà il Premio DiscoDays «Fotografia per la Musica» ed incontrerà il pubblico presente raccontando aneddoti legati alle leggendarie storie impresse nei suoi storici scatti.
La Maschera
DiscoDays è da molti anni anche occasione di visibilità per numerosi gruppi. In occasione della dodicesima edizione sarà La Maschera a ricevere il Premio Rete dei Festival e a presentare il proprio progetto anche al M.E.I. – Meeting degli Indipendenti, l’evento che si terrà a Faenza tra il 26 e il 28 Settembre 2014. Grazie alla partnership con Godfather Studio, il gruppo potrà anche incidere un brano in analogico su un ATR 24tracce. Sul palco del Discodays quest’anno ci saranno anche altre interessanti realtà musicali come The Burlesque e Dreamway Tales, Massimo Bevilacqua e i True Blues Band.
Per concludere, la Fiera del Disco e della Musica sarà anche la sede di una mostra esclusiva dedicata ai Queen a cura di QueenMuseum.com, tra i maggiori siti mondiali di riferimento per gli appassionati del gruppo inglese: dischi rari, edizioni ricercate, pezzi unici come dischi d’oro, lettere, foto da collezione, riviste d’epoca, poster, biglietti, volantini dei concerti ripercorreranno la storia del leggendario gruppo rock. In questa edizione ci sarà anche lo speciale contributo di Ferdinando Frega, che da oltre 25 anni colleziona oggetti unici provenienti da ogni parte del mondo e collabora a pubblicazioni internazionali su riviste specializzate.
A completare il ricchissimo parterre, la mostra fotografica di Valeria Bissacco, intitolata “Musica in Faccia”. Vincitrice della scorsa edizione del concorso nazionale di fotografia indetto da DiscoDays “Musica a Scatti”, l’artista proporrà un percorso fotografico incentrato sull’emozione che si legge sulle facce dei musicisti.
Per tutte le info sul programma consultare il sito discodays.it
La top ten della classifica degli album più venduti in Italia della settimana, secondo i dati FIMI e GFK, presenta ben quattro new entries nelle prime posizioni: sul gradino più alto del podio c’è Rocco Hunt con “ ‘A Verità”, seguito da “Curre curre Guagliò 2.0”, l’ultimo lavoro dei 99 Posse. Medaglia di bronzo per “Shakira”, l’omonimo album della superstar d’oltreoceano. Al quarto posto c’è Giusy Ferreri con “L’Attesa” mentre scivola in quinta posizione Stromae con il suo “Racine Carrèe”. Al sesto posto ritroviamo Ligabue ed il suo multiplatino “Mondovisione” mentre alle sue spalle c’è Francesco Renga con “Tempo reale”. Solo ottava posizione per “Ma che vita la mia”, l’album solista di Roby Facchinetti. A chiudere la top ten sono George Michael con “Symphonica” e Pharrell Williams con l’album “Girl”.
I Baustelle firmano la colonna sonora de “I corpi estranei”, il film di Mirko Locatelli che racconta la drammatica storia di Antonio (Filippo Timi), un padre che si ritrova ad affrontare, in completa solitudine, la terribile malattia del suo piccolo bimbo Pietro. Antonio è solo, non riesce a comunicare con nessuno, le sua tragica esistenza si perpetua attraverso i suoi occhi e i suoi gesti. I suoi lunghi silenzi gridano più di mille parole.
Baustelle
A scandire questi momenti di indicibile sofferenza è la poesia delle parole e la maestosità delle note de “Il Futuro”, uno dei brani più intimi e più profondi dei Baustelle, incluso nell’album “Fantasma”. Il videoclip del brano, girato proprio dal regista Mirko Locatelli, è ambientato tra le mura di un ospedale specializzato in oncologia pediatrica. Sguardi e silenzi lasciano che le immagini colpiscano direttamente al cuore e allo stomaco. Il dolore è straziante: Rachele Bastreghi, Francesco Bianconi e Claudio Brasini condividono la scena del video con Filippo Timi e Jaouher Brahim (coprotagonista del film); corpi estranei, per l’appunto, sfiorano porte, muri e finestre tra i corridoi della vita: “E potremo anche avere altre donne da amare e sconfiggere l’ansia e la fragilità, e magari tornare a sbronzarci sul serio nella stessa taverna di vent’anni fa. Ma diversa arriverà la potenza di un addio o la storia di un amico entrato in chemioterapia; e la vita che verrà ci risorprenderà ma saremo noi ad essere più stanchi. Il futuro cementifica la vita possibile. Qui la vista era incredibile, da oggi è probabile che ciò che siamo stati non saremo più. Il passato adesso è piccolo ma so ricordarmelo”, i Baustelle affondano il coltello del dolore fino alla radice della piaga, l’effetto è talmente insopportabile da rubare letteralmente il respiro.
Ecco spalancarsi le finestre, una boccata d’aria a pieni polmoni ricaccia la vita dentro un corpo estraneo persino a se stesso, il duello con l’ossigeno è magistralmente espresso attraverso un epico arrangiamento profumato di rimandi western. I Baustelle fanno i conti col tempo mentre i rintocchi finali del brano scandiscono e definiscono un futuro più che mai ipotetico.
Si terrà da martedì 8 aprile a mercoledì 16 aprile l’annuale appuntamento con “Milano per Gaber”, la rassegna promossa dalla Fondazione Giorgio Gaber, con il sostegno del Comune di Milano, della Regione Lombardia, della Provincia di Milano, in collaborazione con il Piccolo Teatro.
Divulgare l’opera e il messaggio di Gaber, come si sa, è l’obiettivo principale della Fondazione che, anno dopo anno, mira al coinvolgimento delle giovani generazioni in attività culturali di approfondimento. Ad introdurci agli eventi di “Milano per Gaber” è il Presidente della Fondazione Paolo Dal Bon.
Presidente, quale sarà lo spirito della nuova edizione di “Milano per Gaber”?
La manifestazione appartiene ad una sana tradizione iniziata nel 2007 e che non si è mai interrotta. Purtroppo, con gli anni, l’entità della programmazione è un po’ diminuita parallelamente al calo dei contributi da parte del Comune e delle istituzioni. In ogni caso quest’anno siamo riusciti a mettere insieme un bel progetto, la caratteristica principale di questa edizione sarà un netto orientamento verso il binomio delle figure di Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci e, d’altro canto, non poteva che essere così. Jannacci è stata una persona molto importante per Gaber, è stato l’amico di una vita ma anche l’artista che ha condiviso, più di altri, un pezzo del suo percorso. Ad un anno dalla scomparsa di Enzo ci sembrava veramente doveroso far coincidere l’edizione di Milano per Gaber con l’anno di ricorrenza della morte di Enzo e dedicare almeno tre eventi al binomio Gaber- Iannacci che, è evidente, sarà il traino di questa edizione.
Nell’ordine cominceremo con un’iniziativa all’Università Cattolica di Milano dove, come di consueto, approfondiremo alcuni aspetti dedicati a Gaber, sia dal punto di vista teatrale che culturale. In questo caso saremo con il professore Fausto Colombo e approfondiremo alcune tematiche legate alle attività di Gaber negli anni ‘70. L’11 aprile, presso l’Auditorium Testori della regione Lombardia, ci sarà un appuntamento con il Coro de I Piccoli Cantori di Milano, che quest’anno festeggia 50 anni di attività, con cui abbiamo già collaborato in passato. Visto che ci rivolgiamo soprattutto ai giovani, ci fa molto piacere che questo coro si sia occupato negli anni di Gaber. Abbiamo già fatto un concerto di Capodanno nel 2011, abbiamo rappresentato lo spettacolo anche al Teatro Strehler e, in quest’occasione, presenteremo un concerto dedicato a Gaber e a Jannacci: i bambini canteranno naturalmente i brani più popolari del duo, quello più vicini alle loro corde. Ci saranno anche contributi filmati e l’intervento di disegnatori e fumettisti professionisti che parleranno della dimensione ludica legata ai due artisti.
In seguito passeremo al Piccolo Teatro di Milano, che è l’istituzione con cui abbiamo maggiormente collaborato da quando la manifestazione esiste, e che quest’anno ci ospiterà in occasione di 3 eventi: il primo è previsto per il 14 aprile al Teatro Paolo Grassi dove ci sarà un incontro di approfondimento su Gaber- Jannacci con Massimo Bernardini, Paolo Rossi, Paolo Iannacci e Ricky Gianco. Faremo vedere molti contributi audiovisivi, comprensivi di moltissimi inediti, raccolti negli archivi della Rai. Questi contributi saranno assolutamente originali e molto interessanti. Tra i tanti, annuncio le immagini di “Aspettando Godot”, lo spettacolo che nel 1991 Gaber e Jannacci fecero insieme quando Gaber era direttore artistico del Teatro di Venezia. Il giorno dopo, il 15 aprile, ci sarà un’edizione particolare di “Milanin Milanon”, uno spettacolo storico, incentrato sulla tradizione milanese, che ha visto protagonista Enzo Jannacci, fin dalla sua prima edizione. Fu proprio Gaber, che non potà partecipare al progetto, a suggerire il nome di Jannacci. L’edizione viene riproposta da Filippo Crivelli e dall’organico artistico che ha realizzato le ultime rappresentazioni artistiche di “Milanin Milanon”, con un’attenzione particolare ai due indimenticabili artisti milanesi.
Chiuderà la manifestazione il concerto di Rossana Casale, previsto per il 16 aprile, sempre al Paolo Grassi. Lo spettacolo s’intitola “Il Signor G e l’Amore”, uno spettacolo che ha debuttato lo scorso anno al Festival Gaber, che abbiamo organizzato in Versilia, e che, dopo la serata di aprile, verrà proposto durante una tournèe teatrale, in una versione rivisitata in chiave jazz. Ad accompagnare Rossana Casale saranno Emiliano Begni (pianoforte), Francesco Consaga (sassofono), Ermanno Dodaro (contrabbasso).
E il Premio Giorgio Gaber per le nuove generazioni?
A maggio ci sarà la nuova edizione dell’evento che speravamo di portare già da quest’anno a Viareggio. Il Premio Gaber per le nuove generazioni è aperto alle scuole ma ci sono state troppe iscrizioni, a fronte di una disponibilità alberghiera in Versilia non altrettanto certa. Per questa ragione abbiamo preferito rimanere nella sede naturale del premio che è ad Arcidosso. L’anno prossimo vedremo se riusciremo ad organizzarci in maniera tale da ospitare i nuovi ragazzi in Versilia per allargare gli orizzonti, anche in termini di visibilità del Premio.
Qualche anticipazione circa il Festival Gaber?
Certo, quest’anno ci sarà anche il Festival Gaber che, mentre lo scorso anno si articolava su 7 comuni della Versilia, quest’anno ne coinvolgerà quantomeno il doppio! Evidentemente l’edizione passata ha fatto sì che si creasse un volano virtuoso di aggregazione anche da parte di altri comuni… vi assicuriamo tante bellissime sorprese!
Raffaella Sbrescia
Si ringraziano Paolo Dal Bon e Goigest per la disponibilità
Programma Milano per Gaber
Università Cattolica del Sacro Cuore
8 aprile 2014, ore 17.30
Giorgio Gaber
tra libertà e appartenenza
a cura di Fausto Colombo
con la partecipazione di Claudio Bernardi
Auditorium Testori – Palazzo Lombardia
11 aprile 2014, ore 18.00
I Piccoli Cantori di Milano
direzione musicale di Laura Marcora
Piccolo Teatro Grassi
14 aprile 2014, ore 20.30
Gaber e Jannacci
Incontro-Spettacolo
intervengono, tra gli altri, Massimo Bernardini, Ricky Gianco, Paolo Jannacci e Paolo Rossi
Piccolo Teatro Grassi
15 aprile 2014, ore 20.30
Milanin Milanon
a cura di Filippo Crivelli
con Cino Bottelli, Lorenzo Castelluccio, Mario Cei, Valentina
Ferrari, Rosalina Neri, Riccardo Peroni, Anna Priori, Luca Sandri
Piccolo Teatro Grassi
16 aprile 2014, ore 20.30
Il Signor G e l’amore
con Rossana Casale
Emiliano Begni (pianoforte), Francesco Consaga (Sax Alto e Soprano),
“Monaci del Surf II” è il titolo del nuovo lavoro discografico degli omonimi luchadores mascherati, firmato INRI e pubblicato lo scorso 25 marzo con distribuzione Believe. Il disco si compone di 15 tracce assolutamente eterogenee tra loro. Si tratta, per lo più, di personalissime rivisitazione di brani piuttosto noti al pubblico italiano in cui il massiccio intervento sonoro dei Monaci del Surf esercita un ruolo demiurgico. Mattia “Mat” Martino (il Cobra), basso e voce, Eugenio “Gege” Odasso (il Tigre), chitarra e voce, Claudio “Metal” De Marco (il Panda), batteria, Fabrizio “Nikki” Lavoro (il Toro), chitarra, animano un travolgente surf party, in grado di divertire e coinvolgere anche l’invitato più spocchioso possibile.
L’intro dell’album comincia esattamente da dove era finito il primo disco, con il finale di “I want you” dei Beatles e gli organi psichedelici suonati da Davide Cuccu. “Yakety Sax” riprende la celebre sigla del programma televisivo “The Benny Hill Show” con una versione leggermente meno veloce dell’originale. Molto insolita è la scelta di inserire “Il pranzo è servito” di Augusto Martelli, sigla dell’omonimo quiz televisivo condotto da Corrado Mantoni nell’ormai lontano 1982. Il primo e unico inedito del disco è “Que viva la fiesta!”, il brano è subito diventato l’ ”inno” della cosiddetta Cuervolución, la nuova campagna della Tequila José Cuervo che vedrà i Monaci del Surf protagonisti di un tour promozionale nei principali locali italiani. Una sfida a colpi di riff, impossibile resistere al ritmo energico e goliardico di un brano che lascia ampio spazio al potenziale creativo del gruppo.
La festa sonora continua sulle note africane di “Day-O” (The Banana Boat Song) con l’ottima performance canora del Tigre. Molto energica è anche la versione di “The Locomotion”, uno dei brani più reinterpretati di Gerry Goffin e Carole King. Decisamente più cupi i toni di “Can’t get you out of my head” e di “Sweet Dreams” (Are made of this). I Monaci del Surf non disdegnano un massiccio utilizzo dell’elettronica raggiungendo risultati spesso insoliti ed originali. Il loro contributo si riveste, dunque, di personalità senza mai relegare nulla alla ben nota fama dei brani presenti in tracklist. Spazio anche a “Stadium”, la famosa sigla del programma sportivo Domenica sprint che, nella versione dei Monaci, parte dalle telecronache di Pizzul per poi evolversi in un crescendo di percussioni. “Monaci del Surf II” è un calderone musicale in cui si possono trovare chicche come “Sway” (Quien Sera), un mambo beat del 1953 scritto dal messicano Pablo Beltrán Ruiz, Il Tetris theme di “Korobeiniki” e la hit da discoteca “Better off Alone”, il tutto artigianalmente rivestito di potenti riff. Bellissima è la versione di “Teach me tiger” arricchita dalla calda e coinvolgente vocalità di Levante: notevole.
Il party si avvia alla chiusura con “Have love will travel” muovendosi tra atmosfere surf, blues e grunge e la voce del Toro. L’ultima traccia è “Senza fine” di Gino Paoli. Letteralmente infinita è questa lunghissima versione del brano, della durata di 35 minuti e qualche secondo, registrato in un’unica take semi improvvisata in presa diretta. Questa traccia include l’intervento strumentale di numerosi musicisti torinesi e milanesi che hanno voluto esprimere, con la propria interpretazione, il senso di questa bellissima canzone d’amore. Paolo Parpaglione, Mario Congiu, Gianluca “Cato” Senatore, Enrico Allavena, Lord Theremin, Stefano “Piri” Colosimo, Giovanni Maggiore, Fabio Merigo, Matteo Pozzi, Alberto Bianco, Ivan Bert, Matteo Rista, Miriam Gallea e Chris Lavoro accompagnano i Monaci del Surf lungo una session molto speciale: stremati da tanta energia, come fossimo davvero alla fine di un mega party, a noi ascoltatori non rimane che sdraiarci in un angolo della nostra vita mentre lasciamo scorrere nella nostra mente una serie infinita di immagini, suggestioni e pensieri. Fiati, percussioni, chitarre acustiche, elettriche, fischi, sonorità aliene ed elettroniche lasciano lo spazio ad un nuovo giorno tra il richiamo alla vita di un gallo ed un orientaleggiante gong finale.
Bruno Bavota è un pianista, chitarrista e compositore napoletano. “Il pozzo d’Amor”, “La casa sulla luna” e “The secret of the Sea”, in uscita il prossimo 21 aprile, per l’etichetta discografica irlandese Psychonavigation Records, sono i titoli dei suoi lavori discografici. «La musica ogni giorno mi abbraccia e mi salva da ogni povertà…soprattutto da quella più grande, quella dell’anima», sostiene il giovane e appassionato Bruno che, avvicinatosi alle note e agli strumenti all’età di vent’anni, è riuscito a trovare un sentiero che lo porterà davvero molto lontano nel mondo della musica. Reduce dal concerto sold-out che ha tenuto in Russia, per l’inaugurazione della Philarmonic of new musical art, lo scorso 30 marzo, Bruno ha aperto le porte del suo cuore per aiutarci a capire fino in fondo le evoluzioni stilistiche che hanno determinato la felice creazione di “The Secret of the Sea”.
La musica è una fedele compagna delle tue emozioni giornaliere. Come si è evoluto nel tempo il tuo rapporto quotidiano con le note? Cosa ti aspetti dalla musica e cosa le dai tu, a tua volta?
La musica mi ha semplicemente salvato la vita, per cui l’unica cosa che posso fare è esserle grato e cercare di darle il mio piccolo contributo. In realtà essa è arrivata molto tardi nella mia vita, avevo vent’anni, uscivo da una storia d’amore importante e cominciai a suonare la chitarra mancina di mio fratello per colmare un vuoto, solo in seguito scoprii il pianoforte e mi sentii finalmente completo. La musica per me è un abbraccio continuo e spero di poter continuare questo viaggio d’amore ad un certo livello.
“Il pozzo d’amor”, “La casa sulla luna” e “The Secret of The Sea” sono i titoli dei tuoi dischi. Cosa rappresenta per te ciascuno di questi lavori?
Amore, luna e mare sono gli elementi centrali. Il primo album è nato per caso, ho composto i brani nel giro di qualche mese, pur registrandoli in modo professionale in uno studio. Non sapevo cosa fosse un comunicato stampa, cosa significasse inviare materiali in giro, eppure cominciai a farlo, anche un maniera un po’ rozza, fino a quando, grazie ad Internet, mi scoprirono due ragazzi, oggi miei amici stretti, che mi fecero fare dei concerti a Palermo, quella fu la mia prima uscita ufficiale, suonavo il piano da nemmeno un anno e si trattò di un’emozione davvero molto forte. In seguito ho scritto nuovi brani e nel secondo disco ho cercato di dare qualcosa in più, collaborando con una valida etichetta, la Lizard. In questa occasione ho ricevuto tantissimi riscontri positivi, al punto da essere scelto per suonare alla Royal Albert Hall. Questo ha sicuramente rappresentato un punto di svolta per me, mi ha fatto capire di volerci provare fino in fondo. Ho iniziato questo viaggio insieme ad un giornalista e mio caro amico, Alessandro Savoia, che mi fa da manager e mi supporta. Con il secondo disco ho iniziato a pensare in grande, l’ho inviato a tutti e pian piano sono riuscito ad inserirmi nel roster della Tourpartout, l’agenzia di booking che lavora con artisti che fanno il mio genere musicale. Quando poi sono riuscito ad ottenere il contratto con Felix, l’agente dei miei artisti preferiti e del mio gruppo preferito, ho pensato di stare al centro di un sogno. A partire dal quel momento, ho cominciato a pensare al nuovo disco, volevo fare qualcosa di completamente differente dagli altri due.
Dove e come nasce “The Secret of the Sea”?
Per questo disco avevo in testa i retaggi sonori dei Sigur Rós e la voglia di creare una musica eterea, fino a quando non ho trovato degli strumenti in grado di riprodurre queste sonorità, il delay e il riverbero, che mi hanno dato il suono che volevo. “The Secret of the Sea” è il disco più luminoso dei tre e il cardine principale è sempre la speranza. Il titolo nasce da un legame molto forte che ho con Napoli. Quando mi dicono di andarmene, io dico di no, non me ne voglio andare, io amo troppo questa città! Quando scendo in bici, in 10 minuti sono al mare e penso che questo sia impagabile. Il mare mi dà un’idea di libertà e non posso stare senza. Spesso ci vado anche alle 22.30 di sera, mi piace stare di fronte al mare, mi fa sentire pieno… se ci pensiamo il mare è qualcosa che sta sulla terra ma è la cosa meno umana che ci sia.
L’immagine delle onde che fanno l’amore con la luna è quanto di più sensuale possa esserci in questo album… come sei riuscito a trovare l’ispirazione per trasformare tutto questo in note?
Ho sempre pensato che una delle cose più belle sia l’influenza della luna sul mare e sulle maree… Questi elementi si attirano a vicenda e, in questo senso, stanno insieme, creando un tutt’uno, soltanto noi esseri umani siamo fuori posto. Quando penso alle stelle, alla luna, al sole non posso fare a meno di chiedermi il perché dei loro movimenti e ne resto affascinato. Nei miei lavori parlo soprattutto di luoghi: “Il pozzo d’amor” rispecchia un mio triste momento amoroso, un pozzo vuoto da colmare, “La casa sulla luna” è un altro luogo – non luogo, una casa per continuare a sognare, dove pensare a me e a quello che c’è sulla terra. In “The Secret of the Sea” c’è un ritorno sulla terra, anche se non ancora definitivo, si tratta di un tentativo di avvicinamento…
E la copertina del disco?
Devo ringraziare Luca Scognamiglio che, ogni volta, realizza delle copertine- capolavoro. La foto è stata scattata ad Sant’Angelo d’Ischia, dove c’è un mare bellissimo. L’ombrello che ho in mano rappresenta sia una protezione che una possibile scappatoia, oltre che un enigmatico gioco vedo-non vedo.
Come hai pensato ai complessi titoli delle tue composizioni?
Prima compongo i brani e poi penso a come titolarli. In questo caso ci sono due brani che sono molto legati alla letteratura: il primo è “Les nuits blanches”, ispirato all’omonimo libro di Dostoevskij, l’altro è “Plasson” che si rifà a “Oceano Mare” il libro di Alessandro Baricco. Plasson è un pittore che prova a dipingere il mare usando esclusivamente acqua marina e finisce per raffigurare vedute oceaniche su tele che restano ostinatamente bianche. Poi c’è “You and me”, un dialogo tra me e il mare, “The Man Who Chosed The Sea” un brano che finisce in dissolvenza, un never ending, un sogno inafferrabile. “Hidden lights through smoky clouds” è il frutto della scelta di un mio caro amico, Domenico, che, in ogni mio lavoro, ha il compito di scegliere il nome di un brano. La composizione che sento più mia è “If only my heart were wide like the Sea”: il brano dura un minuto e 58 secondi eppure credo che, in un così breve tempo, esso riesca a racchiudere tutto quello che volevo dire. Il momento più intimo arriva con “Constellations”, un’ apertura tra cielo e stelle. Poi ci sono brani un pò più cupi sul finale come “The boy and the whale”, in cui ho sentito l’esigenza di inserire il suono selvaggio delle onde uggiose del mare di Mergellina. La title track “The Secret of the Sea” è un brano inquieto, il segreto del mare forse sono io stesso, un essere umano e il mare che trovano un punto di connessione…
Che rapporto c’è, secondo te, tra la luce e il mare?
Quando vado vicino al mare mi sento completo, tutti dovrebbero poter aver dei momenti in cui rimanere da soli con se stessi…Penso che ci si possa fidare del mare ma la luce la si può trovare lo stesso dentro di sé.
Bruno Bavota
Continua ancora il percorso parallelo con gli Adaily Song?
In realtà sono molto preso dal mio progetto personale ma è anche vero che purtroppo non vedo un futuro per la musica italiana! C’è una lotta continua per cercare serate, per provare a suonare,i gestori dei locali non pagano o non vogliono pagare. Per questi ed altri motivi sto provando ad esportare la mia musica… Con Psychonavigation, un’etichetta discografica irlandese, ho scoperto che esiste tutto un mondo legato al mio genere musicale, ci sono etichette che lavorano ancora con le redazioni, io e Keith Downey ci sentiamo tutti i giorni via mail, insieme lavoriamo a questo sogno e mi sento molto coccolato…sì, è proprio un altro mondo!
Quali sono gli altri tuoi contatti più importanti all’estero?
Dopo l’esibizione alla Royal Albert Hall di Londra, ho ricevuto il Premio Speciale Cultura Albatros 2013, poi partecipai all’edizione di Piano City Milano e cominciai a contattare gli agenti degli artisti che mi piacevano… Fui vicino a concretizzare l’apertura dei live di Olafur Arnalds ma i tempi erano troppo stretti, nel frattempo sono entrato in contatto con Felix, che ora è il mio agente. Certo, ci è voluto un po’ ma l’ho aggiornato costantemente delle cose che facevo fino a quando, lo scorso ottobre, egli mi scrisse una mail in cui mi diceva di voler essere il mio agente, quella notte non chiusi occhio per la gioia!
Non rimane che augurarti in bocca al lupo!
Crepi il lupo! Vi aspetto il 29 aprile alla Libreria del Cinema a Roma!
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